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II Pci: un patrimonio rimosso, da recuperare

La fine del Pci e il fallimento della rifondazione comunista si spiegano con l’incapacità di mettere a frutto il lascito gramsciano.


II Pci: un patrimonio rimosso, da recuperare

Il contributo che il Pci ha reso al nostro paese (dalla lotta di Liberazione, all’elaborazione di una delle migliori Costituzioni d’Europa, allo sviluppo sociale e democratico) è tale che la commemorazione della sua nascita, il 21 gennaio 1921, è un atto obbligato. E tuttavia, anche in questa recente ricorrenza, si è avvertito il suo carattere rituale, la riproposizione di un evento fondamentale della storia del nostro paese che però resta lontano, ormai seppellito dagli eventi che si sono succeduti. È questo certamente il portato della sua liquidazione, tanto brusca quanto immotivata, che ha lasciato dietro di sé molte macerie, ma probabilmente è anche l’effetto di una rimozione di cui portano la responsabilità anche quanti, pur rifacendosi a quell’esperienza, non l’hanno rielaborata e non ne hanno saputo valorizzare i pregi, senza per questo disconoscerne i limiti. Vi sono vari modi per cancellare una storia: ripudiarla o dimenticarla. Io credo, invece, che la storia del Pci abbia ancora qualcosa da dirci e insegnarci, e penso anche che, senza una riflessione su di essa, probabilmente la costruzione di una sinistra, e a maggior ragione di una proposta comunista, risulterebbero ardue.

È del tutto evidente che la nascita del Pci sarebbe stata impossibile senza l’effetto trascinante che ebbe la rivoluzione bolscevica su una parte consistente della sinistra, in primo luogo di quella socialista. Un nuovo paradigma sulla transizione al socialismo si era imposto sulla scena mondiale: una rivoluzione condotta attraverso un’insurrezione, esplosa nel momento di una crisi acutissima (in cui la guerra aveva svolto un ruolo fondamentale), guidata da un partito molto compatto e disciplinato, appoggiato da una base operaia e in parte contadina che si erano già date delle proprie strutture di autogoverno (i soviet). Il nuovo paradigma metteva in crisi quello precedente ispirato dagli orientamenti maturati nei partiti socialdemocratici. E cioè una conquista del potere attraverso il conseguimento di una maggioranza parlamentare, consentita da un consenso ottenuto nelle masse operaie, ma anche in strati intermedi, sostenuta da alcune proposte di riforma del sistema. Il carattere compromissorio della maggior parte delle socialdemocrazie dell’epoca, naufragate col sostegno ai crediti di guerra, strideva ancora di più con la limpidezza di una conquista del potere condotta, senza cedimenti ideologici, sull’onda di una sollevazione popolare che lasciava presagire la possibilità di un superamento radicale del capitalismo.

Come gli altri partiti comunisti che vennero a costituire la terza internazionale, il Pci, scindendosi dal Psi, assunse da subito come propria guida il partito comunista bolscevico e ne adottò il modello. Né poteva essere diversamente, per l’enorme prestigio che questo aveva conseguito, oltre che per la forza incommensurabilmente maggiore di cui disponeva, e come guida di un grande paese. Il fatto è in sé storicamente del tutto comprensibile e avrebbe influenzato non poco lo sviluppo del nuovo partito. Quattro sono gli elementi che caratterizzarono il formarsi del Pci nell’alveo del Komintern: l’assunzione di una forma partito modellata su quella bolscevica: un partito disciplinato, coeso al vertice, con una selezione accurata dei militanti; l’assunzione della assoluta centralità della classe operaia, riferimento di un blocco sociale più ampio nel quale andavano inclusi i contadini; la formazione di organismi popolari espressione delle masse, i soviet, considerati essenziali per una strategia rivoluzionaria; un modello di presa del potere basato sull’insurrezione armata di questi organismi di massa in una fase acuta di crisi del sistema capitalistico. Questi caratteri resteranno impressi per lungo tempo nel profilo del Pci.

Chi, anche a sinistra, ha polemizzato col carattere giacobino della rivoluzione russa, con la sua evoluzione autoritaria, finendo con il rappresentarla come un cumulo di macerie, ha dimenticato di sottolinearne non solo il valore storico e sociale, ma anche l’esempio che rappresentò e il riferimento che offri. Il Pci fu da questo punto di vista, nel suo inizio, tributario di quell’esperienza, in particolare per alcuni aspetti che lo segneranno a lungo. Fra quelli prima citati, fondamentali furono l’adesione fortissima alla classe operaia e un modello di partito concepito come struttura di combattimento, oltre che la consapevolezza di far parte di uno schieramento internazionale che poggiava su una grande realtà statuale. Questi aspetti che accomuneranno i partiti della terza internazionale furono obiettivamente dei punti di forza in una fase storica in cui emersero con prepotenza i regimi fascisti. I limiti che manifestò quell’esperienza derivarono più che altro dai vincoli posti dalla gestione del Komintern che condizionarono pesantemente la pratica politica del Pci. La pretesa di riprodurre fedelmente il modello rivoluzionario praticato in Russia in ogni realtà nazionale, la gestione dogmatica della politica dell’internazionale, la subordinazione rigida delle scelte dei singoli partiti all’esigenza di preservazione dell’URSS, rappresentarono limiti che si riflessero sull’azione del nuovo partito. 

E tuttavia, fin dall’inizio, si possono cogliere i germi di alcune peculiarità del Pci che avranno modo di affermarsi più avanti. In primo luogo, esso fu protagonista, ancor prima di aderire alla terza internazionale, di un’esperienza, quella torinese dell’occupazione delle fabbriche e della nascita dei consigli, nella particolare accezione datane dall’Ordine nuovo, che costituì un momento fondamentale nella sua formazione politica. Essa presentava delle differenze rispetto alla stessa esperienza bolscevica dei soviet: per l’enfasi particolare posta sulla politicità di questi organismi, sulla loro alterità come organi di potere, sul loro carattere unitario. In secondo luogo, una grande coesione del gruppo dirigente e un’attenzione particolare alla sua unità. Un tratto leninista che si evidenzierà alla nascita del Pci, per esempio con i tentativi reiterati di non giungere alla rottura completa con Bordiga, uno dei fondatori più stimati nel partito. L’affermarsi successivamente di una soluzione per via amministrativa dei contrasti politici, imposta dal Komintern, comprometterà questa tensione unitaria e questa dialettica interna che però riemergeranno nel dopoguerra. In terzo luogo, alcuni atteggiamenti di maggiore autonomia rispetto ad altri partiti. Si trattavano beninteso di alcune propensioni, ben presto soverchiate dal rispetto rigidissimo delle indicazioni della terza internazionale, ma che sarebbero riemerse nel momento in cui il Pci allenterà i vincoli che lo legavano al partito comunista russo.

Se alcuni tratti caratteristici del Pci cominciarono a formarsi in questa fase iniziale, è indubbio che la sua specificità si delineò in modo più preciso a partire dal periodo della clandestinità. Dopo le teorizzazioni nel '29 sul “social fascismo”, una scelta che si rivelerà disastrosa, l’elemento che segnerà una svolta decisiva e dalla quale il Pci trarrà una lezione fondamentale fu il cambiamento di linea verificatosi all’indomani della repressione nazista della sinistra tedesca nel ‘34 e che aprirà la via alla fase dei “fronti popolari”. Da qui in poi, avremo i passaggi dell’impegno unitario a difesa della Spagna repubblicana, della resistenza al nazifascismo, della convergenza delle forze antifasciste nell’elaborazione della Costituzione. È in questa fase che si produce una svolta essenziale, con l’uscita da una concezione settaria, ed è anche il momento in cui giunge a maturazione il contributo teorico di Gramsci. In esso, egli giunge a trarre un bilancio del fallimento della rivoluzione in occidente, che spiega con la particolarità della condizione sociale e istituzionale dei paesi a capitalismo avanzato, caratterizzati da una struttura del potere molto più densa che in Russia e da una stratificazione di classe ben più complessa. Traccia, quindi, il disegno di un percorso fatto di tappe intermedie, con obiettivi parziali, con lo scopo di conquistare presidi (le famose casematte), in vista del conclusivo salto rivoluzionario. Un percorso in cui il partito comunista, avanguardia della classe operaia, non ha una semplice funzione di organizzatore del conflitto, ma assume il ruolo di “intellettuale collettivo”, di soggetto d’incivilimento di grandi masse, promotore di una partecipazione consapevole, prefiguratore di un modello sociale alternativo. E, nel contempo, una classe operaia libera da vizi corporativi, con propri organismi politici autonomi, capace di esprimere un’egemonia su altre fasce sociali. A nessuno può sfuggire l’originalità di un simile approccio che introduceva un nuovo paradigma della presa del potere nelle società a capitalismo avanzato, molto diverso da quello affermatosi con la rivoluzione bolscevica, senza perderne tuttavia il carattere di radicalità.

Ma quale fu il lascito di Gramsci nella strategia e la tattica del Pci? Non vi è dubbio che la svolta di Salerno imposta da Togliatti nel ‘44 alle altre forze antifasciste e al suo stesso partito con le sue conseguenze dirette (la nascita della Repubblica, la Costituzione e il governo di unità nazionale) è in linea con il pensiero di Gramsci sviluppato in carcere. Era il riconoscimento che la stabilizzazione del regime chiudeva l’ipotesi insurrezionale ravvicinata, che occorreva il concorso di più forze democratiche e che il passaggio a una fase democratica avrebbe costituito la condizione migliore per lo sviluppo del progetto comunista. Un compromesso dinamico, insomma, necessario a rilanciare in una nuova fase la trasformazione sociale e a legittimare il Pci come protagonista indiscusso della lotta antifascista. Né il rapido deteriorarsi della situazione internazionale, nel dopoguerra, con l’emergere della guerra fredda e la rottura del governo unitario, fa venir meno il valore di quella scelta, se non altro per il risultato positivo che consentì di raggiungere nell’elaborazione di una Costituzione più avanzata che in altri paesi.

La storia del Pci nel dopoguerra sarà segnata da questa grande legittimazione popolare. Una legittimazione che sta alla base della costruzione del partito nuovo, di massa, radicato socialmente nella classe operaia e non solo. Il merito di questa costruzione è ascrivibile in larga misura a Togliatti. Nello sforzo pedagogico che il Pci promosse per elevare il livello politico e culturale dei militanti e per allargare un gruppo dirigente troppo ristretto, va riconosciuto un grande merito, anche se solo in parte l’idea d’intellettuale collettivo trovò un’effettiva concretizzazione, complice la condizione sociale di un proletariato sprovvisto di mezzi culturali e l’esigenza immediata di organizzare un corpo politico disomogeneo e in crescita. Dominante, in ogni caso, restò l’impegno a fornire una comune base culturale, la costruzione di occasioni di socializzazione, lo sviluppo di una rete di relazioni imperniate sulla solidarietà e l’impegno politico

Di fronte a conquiste importanti sul fronte democratico e sociale, il Pci del dopoguerra dimostrò la sua forza nel resistere alla pressione derivante dallo sviluppo della guerra fredda, impegnato sul fronte operaio e al tempo stesso nell’unificare il fronte popolare. Tuttavia, esso colse solo in parte le novità della successiva modernizzazione capitalistica, emersa nel corso degli anni ’60 e ’70 che rappresentò la fase finale di quel ciclo fordista che condusse al massimo sviluppo il peso del proletariato industriale. La stagione dei consigli di fabbrica fu l’evento più rilevante e va riconosciuto al Pci il merito di aver appoggiato quell’esperienza, soprattutto attraverso i suoi quadri sindacali che ne furono certamente fra i protagonisti, anche se le potenzialità di quell’evento furono colti solo parzialmente nel gruppo dirigente. Era in gioco uno degli snodi fondamentali del pensiero gramsciano e cioè quello dell’egemonia operaia sulla società, come in qualche modo alludeva l’esperienza dei consigli di zona. Ma quell’orizzonte non penetrò adeguatamente nella strategia del partito.

Più rilevante fu però la sottovalutazione profonda del movimento studentesco e giovanile che si sviluppò sul finire degli anni ’60. Qui davvero il Pci, nonostante l’apertura di Longo, mancò di capacità di comprensione. Un terreno fondamentale per l’allargamento del blocco sociale fu perduto e i suoi effetti si riverberarono nel periodo successivo, quando quel movimento suscitò speranze e produsse contenuti nuovi che alimentarono una contestazione molto più ampia: dalla lotta delle donne, alla rimessa in discussione delle principali funzioni sociali, dalla medicina alla psichiatria, dalla scuola alla tutela dell’ambiente. Terreni fondamentali per dare basi a quell’operazione egemonica che costituiva il fondamento dell’opera di Gramsci. Il Pci ne fu toccato, ma riuscì solo in parte a adeguare la sua visione strategica. Si perse così, in gran parte, la opportunità i costruire un sistema di alleanze forti intorno alla classe operaia, e di prefigurare in un programma un disegno di trasformazione rispondente ai nuovi bisogni.

La svolta discutibile di Berlinguer sul compromesso storico costituì, per alcuni versi, l’esito di questo mancato rinnovamento e il tentativo di far valere nella crisi il peso di un consenso, comunque grande, in presenza di una crisi politica, oltre che economico-sociale. Si trattò di una operazione motivata anche con argomenti che adombravano problemi reali, ma che si tradusse alla fine in un’improbabile intesa con la DC che mancava di seri presupposti politici e sociali e che, infatti, naufragò. L’epilogo della rettifica di linea di Berlinguer con la ripresa di un impegno sul terreno operaio, con l’apertura ai movimenti, riaprì il tema della ricollocazione del Pci in una prospettiva di classe e per una breve fase fece intravedere una nuova ripresa di iniziativa politica, ma si trattò di una scelta tardiva e non solo per la prematura scomparsa di Berlinguer, ma anche per la trasformazione di cultura politica che si stava producendo nel Pci, e in particolare nel suo gruppo dirigente.

L’originalità dell’esperienza del Pci e, in particolare, il contributo di Gramsci furono così spazzati via maldestramente e definitivamente con la svolta occhettiana dell’’89. È evidente come, già a partire dagli anni ’60, il lascito di Gramsci era venuto erodendosi per limiti di comprensione della novità della fase e delle potenzialità espressesi a livello sociale, ma soprattutto per l’abbandono di una strategia fondata sulla costruzione di un consenso radicato e sulla conquista di posizioni più avanzate. In questo, la stessa delega totale al sindacato della rappresentanza della classe favorì uno scivolamento verso il modello di partito di opinione. Per altro verso, la grande forza elettorale accumulata e l’ambizione a farla valere nel governo del paese indebolì quell’idea della conquista progressiva delle “casematte”, a favore della ricerca di scorciatoie politiciste.

E tuttavia, deve far riflettere che chi raccolse l’eredità del Pci, rifiutando la sua liquidazione, alla fine dimostrò di saper raccogliere solo in parte quel patrimonio di elaborazione e di pratiche sociali. Anche in questo caso non vanno sottovalutate le difficoltà obiettive di una scissione che aveva raccolto una parte consistente della base, ma una parte molto ridotta dei gruppi dirigenti, ma alla prova dei fatti il percorso intrapreso dimostrò molte debolezze. Ne sono esempio l’abbandono pratico che si è avuto dell’idea del partito come intellettuale collettivo, con la delega ai militanti di compiti in larga misura esecutivi, senza uno sforzo pedagogico per accrescerne la qualità, la difficoltà a gestire un dibattito politico diffuso sulle scelte, la sottovalutazione del problema della salvaguardia dell’unità dei gruppi dirigenti. Non solo: l’abbandono di una seria analisi di classe e di un progetto d’insediamento in particolare nel proletariato, in nome di una pratica in larga parte propagandistica e dell’inseguimento dell’indistinta effervescenza sociale. O, ancora: la mancata ricerca di una strategia di lungo periodo, distinguendo gli obiettivi finali da quelli intermedi, e pertanto non sapendo distinguere con chiarezza tattica da strategia e finendo così con il cadere talvolta in vizi di settarismo o di eccessivo tatticismo. La pratica politica, inoltre, è venuta a modificarsi, da un lato, con la rincorsa più che la promozione del conflitto sociale e, dall’altro, con un impegno istituzionale non integrato in una strategia ben definita. Insomma, si è via via prodotta una crescente dissociazione fra lotta sociale e lotta politica e fra dimensione tattica e dimensione strategica. Un bilancio che certamente va approfondito, ma che non va assolutamente tralasciato perché ciò che si è allentata è quell’ispirazione gramsciana che aveva, pur con tante contraddizioni, fatto grande il Pci. Un’ispirazione che è andata smarrendosi, ma del recupero della quale vi è oggi un assoluto bisogno.

29/01/2021 | Copyleft © Tutto il materiale è liberamente riproducibile ed è richiesta soltanto la menzione della fonte.

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L'Autore

Gianluigi Pegolo
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