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Il centenario del Pcd’I e i caratteri originali del comunismo italiano

La storia del Pci è caratterizzata dal tentativo di percorrere una via originale al socialismo in Italia e in Occidente. Il tentativo è stato soffocato da oscure trame italiane e internazionali e dalle politiche liberiste e trasformazioni che hanno inciso pesantemente sull’aggregazione e la forza della classe lavoratrice.


Il centenario del Pcd’I e i caratteri originali del comunismo italiano

1. Il centenario della fondazione del Partito comunista d’Italia, che si sta ricordando in queste settimane, è stata l’occasione per riprendere la discussione sull’esperienza di quello che è stato il maggiore partito comunista dell’Occidente.

La lettura maggiormente veicolata nel dibattito pubblico dai media mainstream è stata quella che attribuisce al “peccato originale” della scissione comunista del ’21 tutti i mali della sinistra italiana, individuando nel Congresso di Livorno l’inizio di una vera e propria “dannazione”, quella appunto delle scissioni e delle divisioni. È una interpretazione che oscura un elemento decisivo, ossia che la frattura interna al movimento operaio si era prodotta non a Livorno, ma sul piano internazionale e su una questione decisiva come la guerra o la pace, allorché, nel 1914-15, i partiti socialisti e socialdemocratici, tradendo la marxiana parola d’ordine “proletari di tutti i paesi, unitevi!”, avevano votato in massa i crediti di guerra, facendo fallire la II Internazionale e mandando i lavoratori di tutti i paesi a uccidersi sui campi di battaglia. La nascita della “sinistra di Zimmerwald”, di cui Lenin fu uno dei maggiori protagonisti, e poi dei partiti comunisti fu la reazione a tutto questo; del resto, la Rivoluzione d’Ottobre vinse con la parola d’ordine della pace, oltre a quella del “potere ai soviet”, ossia alla prospettiva di un ordine nuovo fondato sul potere dei lavoratori, di quel socialismo che finalmente sembrava farsi concreta realtà storica.

Per quanto riguarda l’Italia, la nascita del Pcd’I fu la risposta anche alle esitazioni dei socialisti durante il Biennio rosso, al “massimalismo parolaio” misto alla inconcludenza politica, alle illusioni legalitarie dei riformisti di fronte al dilagare dello squadrismo fascista. Il Partito socialista italiano – che pure, dinanzi alla guerra, aveva tenuto una posizione tra le meno arretrate, col noto slogan “Non aderire, né sabotare” –, di fronte all’Ottobre e alla nascita della III Internazionale confermava lo stesso atteggiamento ambiguo e oscillante: dichiarava di voler aderire al Comintern, ma rifiutava due presupposti essenziali, ossia il cambio di nome del partito e la separazione dai riformisti, che non era il capriccio di qualcuno o un “ordine di Mosca” ma un’esigenza politica, come conferma il fatto che di lì a poco lo stesso Partito socialista finirà per espellere Turati e i suoi, i quali fonderanno il Partito socialista unitario.

Una volta giunto al potere il fascismo, peraltro, i socialisti smobilitano, sciolgono la Cgdl e per vari anni si limitano a essere un partito di esiliati; i comunisti tengono in vita l’organizzazione clandestina nel paese, ricostituiscono la Cgdl, fanno politica negli organismi di massa del regime; insomma tengono in piedi un minimo di presenza antifascista nei luoghi di lavoro e nei quartieri e di continuità storica nell’organizzazione del movimento operaio, il che pone le premesse della Resistenza e fa comprendere la loro larga prevalenza al suo interno: senza il Pcd’I, insomma, non è detto che ci sarebbe stata la Resistenza e certamente non avrebbe avuto la dimensione di massa che ha avuto.

2. Alla lettura che avrebbe voluto che la scissione di Livorno non fosse mai avvenuta se ne aggiungono altre due: quella secondo cui il Pci sarebbe rimasto fino alla fine un partito “bolscevico”, che non aveva dunque introdotto novità sostanziali nel modello affermatosi in Russia nei primi anni del Novecento, restando fieramente ostile alle riforme in nome di una prospettiva rivoluzionaria sempre più vaga ma fideisticamente introiettata; e quella secondo cui il Pci non sarebbe stato altro che un partito socialdemocratico sotto mentite spoglie. A me pare che queste due interpretazioni non reggano, e che a esse sfugga ciò che fino ad alcuni anni fa era senso comune, sul piano politico come su quello storiografico, ossia che nel movimento comunista internazionale – che non è mai stato un monolite, proprio in virtù della sua dimensione mondiale – sono esistite esperienze molto diverse tra loro, e che quella del comunismo italiano è una delle più rilevanti di queste diverse varianti nazionali, che sono nate da un unico ceppo ma si sono poi profondamente differenziate sulla base dei contesti e anche dei gruppi dirigenti che ne hanno plasmato la strategia e l’identità; e che in tale quadro, il Pci era un partito comunista a tutti gli effetti, ma con una originalità di elaborazione e di prassi sintetizzata dalla formula dell’unità nella diversità.

La specificità del comunismo italiano deriva dal peculiare contesto e dalla particolare esperienza storica che si trovò a vivere, ma anche dallo spessore teorico dei suoi leader storici, Gramsci e Togliatti in primis. Riguardo al contesto, occorre partire dalle dure lezioni costituite dalla sconfitta del Biennio rosso e poi dall’avvento del fascismo, le quali costrinsero i comunisti a superare il settarismo dell’impostazione bordighiana, che col suo schematismo e dottrinarismo si era rivelata del tutto inadeguata dinanzi al fascismo arrembante (basti pensare al rifiuto di partecipare al movimento degli Arditi del popolo o a qualsiasi altra iniziativa unitaria di carattere antifascista). A partire dal 1924, dunque, la nuova leadership che si costituisce attorno ad Antonio Gramsci e al vecchio gruppo ordinovista inizia a riflettere sulle possibili modalità della rivoluzione italiana. Per Gramsci, il fascismo “ha contribuito ad allargare e approfondire il terreno della rivoluzione proletaria, che dopo l’esperimento fascista sarà veramente popolare” [1]. Il problema dell’egemonia si pone dunque su due piani, ossia su quello interno al proletariato e su quello più complessivo del confronto tra le classi. I due aspetti sono legati, e il loro intreccio costituisce il nucleo della “rivoluzione in Occidente”, nella quale è posta già alla radice la questione del rapporto tra democrazia e socialismo. Il tema torna nella proposta di “Assemblea repubblicana sulla base dei Comitati operai e contadini” volta a organizzare “tutte le forze popolari antifasciste e antimonarchiche” [2].

Sorto con l’obiettivo di realizzare anche in Italia una rivoluzione proletaria immediatamente socialista, il Pcd’I capisce che non si può lavorare con una sola prospettiva: la cosa “più probabile” – si scrive nel ’27 – è che il fascismo sparirà “sotto i colpi di una rivoluzione popolare degli operai e dei contadini alleati ad alcuni strati delle classi medie [...] che il nostro partito deve sforzarsi di sviluppare in rivoluzione proletaria” [3]. Togliatti, dal canto suo, afferma: “La rivoluzione proletaria non è un fatto isolato, ma un processo [...]. Ogni rivoluzione, per essere vittoriosa, deve essere popolare, deve avere cioè il concorso delle grandi masse popolari: di qui la ricerca sulle “forze motrici della rivoluzione antifascista” avviata con le Tesi di Lione [4].

Al tempo stesso, pur nelle condizioni della clandestinità, il Pcd’I lotta per tenere in vita l’ispirazione di massa della sua politica e per non essere del tutto separato dai lavoratori, non solo tenendo in vita ove possibile gli organismi di classe clandestini – cellule di partito e sindacali, Cgl rifondata, Soccorso rosso ecc. –, ma anche lavorando all’interno delle organizzazioni di massa del regime sulla base della “direttiva entrista” ispirata da Togliatti, il quale nelle Lezioni sul fascismo tenute a Mosca nel 1935 ribadirà l’esigenza di porsi al livello della politica di massa portata avanti dal regime. In quelle stesse lezioni Ercoli afferma che, di fronte al fascismo che avanza, per le classi lavoratrici la “lotta per la difesa delle istituzioni democratiche […] si amplia e diventa lotta per il potere” [5]; “diventa – aggiunge in un articolo – il terreno storicamente e politicamente indispensabile per il raggruppamento e per l’organizzazione delle forze di massa che noi dobbiamo portare alla conquista del potere” [6]. Essa insomma diviene parte integrante della lotta per il socialismo. Già a partire dagli anni Venti e Trenta, dunque, il nesso democrazia-socialismo emerge come il filo rosso di tutta l’elaborazione e l’esperienza storica del Pci [7].

Per i comunisti italiani, la democrazia diviene un terreno fondamentale non solo in chiave difensiva, ma anche come via attraverso la quale costruire un “ordine nuovo” e come forma più compiuta di tale ordine. Naturalmente, si tratta di una democrazia nuova, antifascista, popolare e progressiva, come quella su cui Togliatti scrive a proposito della Spagna repubblicana, e che poi lancerà con la svolta di Salerno nell’aprile 1944; una prospettiva peraltro analoga a quella su cui la Direzione Nord del partito, guidata da Longo e Secchia, aveva costruito l’unità d’azione con le altre forze antifasciste nel fuoco della lotta di liberazione [8].

Questa democrazia di tipo nuovo delineata dal Pci è una democrazia caratterizzata da un profondo mutamento nel rapporto di forza tra le classi e nei rapporti di proprietà, dal nuovo ruolo dello Stato nell’economia, da una partecipazione e da un controllo popolare diffusi, in primo luogo attraverso i partiti di massa; ed è questa ispirazione – largamente recepita in quella Costituzione repubblicana nella cui elaborazione il ruolo dei comunisti sarà determinante [9] – che caratterizza tutto l’impegno del Pci dalla Liberazione in avanti, ponendo le basi di una lunga e difficile “guerra di posizione”. Nel nuovo contesto, peraltro, anche il partito si trasforma: lo strumento fondamentale di un progetto di cambiamento fondato su democrazia progressiva e riforme di struttura non può che essere un partito di massa, quel partito comunista di tipo nuovo che segnerà di sé fortemente la vita politica e sociale dell’Italia repubblicana.

3. Nel secondo dopoguerra l’obiettivo del Pci resta quello della trasformazione in senso socialista dell’Italia: democrazia progressiva e riforme di struttura sono gli assi portanti della via democratica al socialismo delineata da Togliatti. E hanno un significato ben preciso: la prima delinea un modello nuovo di democrazia, dove alla centralità di un Parlamento eletto con sistema proporzionale e dunque effettivamente “specchio del Paese”, nel quale è decisivo il ruolo dei partiti di massa, si affiancano luoghi e momenti di democrazia diretta, partecipazione popolare e gestione da parte dei lavoratori organizzati; quanto alle riforme di struttura, esse si differenziano dalle riforme tout court poiché il loro obiettivo non è quello di apportare meri miglioramenti al sistema esistente, ma al contrario di spostare i rapporti di proprietà e più in generale i rapporti di forza tra le classi in modo da porre le condizioni per successive trasformazioni in senso socialista. Riforme di struttura sono la riforma agraria, le nazionalizzazioni di risorse essenziali e di settori strategici dell’industria e del credito, l’ampliarsi della proprietà pubblica e cooperativa, la riforma urbanistica che incide sul regime dei suoli.

In questo percorso, come in quello del partito di massa che si arricchisce di una molteplicità di organismi di massa collaterali, i comunisti italiani riassorbono anche parte della cultura politica e del vecchio insediamento socialista, ma nel quadro di una loro strategia specifica, quella dell’egemonia delineata da Gramsci, per cui ora cooperative, Comuni rossi, sindacati di classe, associazioni di massa non sono più possibili “fattori di stabilizzazione” del sistema (come affermava a suo tempo Bordiga), ma “casematte e trincee” per la guerra di posizione dei comunisti e del movimento operaio, la cui posta in gioco rimane la conquista del potere politico

Tale strategia, peraltro, appare l’unica possibile in un paese uscito sconfitto dalla guerra, sotto occupazione, assegnato all’area atlantica. I comunisti, dunque, lottano per le riforme di struttura e non per le riforme tout court. Negli anni Sessanta, di fronte ai governi di centro-sinistra, accettano il confronto, sfidando quei governi ad attuare le riforme promesse, e soprattutto rilanciando le proprie proposte in tutti i campi. Ma quando il Pci lotta per il servizio sanitario nazionale, per la riforma previdenziale o quella del collocamento, che sono anche nei programmi del Partito socialista, la fa sempre proponendo una cosa che il Psi non prevede, ossia la gestione da parte dei lavoratori organizzati (e dunque dei sindacati), di quelle strutture, e dunque di unità sanitarie locali, enti previdenziali, servizio nazionale di collocamento, impresa pubblica, fino a scuola e Rai-Tv. Anche sulla programmazione, di cui il centro-sinistra discute molto, la posizione dei comunisti si differenzia su aspetti di fondo: il Pci lotta perché la programmazione economica determini non solo le scelte delle industrie pubbliche e a partecipazione statale, ma incida anche su quelle dei grandi gruppi privati; e perché il meccanismo stesso della programmazione sia democratico, coinvolgendo enti locali, sindacati, lavoratori [10]. Insomma, l’idea delle riforme di struttura rimane sempre diversa da quella del mero miglioramento del sistema o della sola costruzione del Welfare.

La prospettiva è quella di una democratizzazione avanzata dello Stato e della società, che allude a un sistema sociale nuovo, a un processo di transizione adeguato a un paese a capitalismo avanzato. Sono questi, in un contesto diverso, gli “elementi di socialismo” di cui parlerà Berlinguer, e che tra la fine degli anni Sessanta e l’inizio dei Settanta – con la crescita della proprietà pubblica nell’economia, l’avvio del Welfare italiano e la democrazia diffusa del sindacato dei consigli, dei comitati di quartiere, dei consigli di zona e di quelli di istituto ecc. – iniziano a diventare visibili. 

4. Gli anni Settanta, gli anni di Berlinguer, sono quelli su cui tuttora il dibattito è aspro e spesso schematico; quelli, dunque, per i quali l’approfondimento e la contestualizzazione appaiono particolarmente necessari. È quello il momento in cui il Pci può e deve estendere la strategia egemonica, che sul piano sociale ha raggiunto un livello molto avanzato, dalla società allo Stato, tornando a porre il problema della partecipazione al governo del Paese. I successi elettorali rafforzano tale opzione; la questione comunista è in Italia la questione politica fondamentale. Lo stesso contesto internazionale, in cui l’assetto bipolare non appare più così stabile, induce Berlinguer a ritenere possibile avviare la “seconda tappa della rivoluzione antifascista” dopo quella del 1943-47 [11]. 

La strategia del compromesso storico muove peraltro da una impostazione simile a quella che aveva esplicitato Togliatti difendendo la via democratica al socialismo dalle critiche cinesi. Se all’epoca “il Migliore” aveva sottolineato la possibilità di “sviluppare il movimento delle masse con tale ampiezza che i gruppi dirigenti ne siano paralizzati e si apra la prospettiva di radicali mutamenti [...] per via democratica” [12], dodici anni dopo la concezione di Berlinguer appariva molto simile [13]. La “meta” finale rimaneva quella di “realizzare l’avvento del movimento operaio nel suo insieme alla direzione politica della società e dello Stato”.

Il tentativo si svolse in un contesto drammatico che non va dimenticato: crisi economica, inflazione galoppante, strategia della tensione e infine quella violenza politica diffusa messa in atto da chi, ritenendo di portare lo scontro “a un livello più avanzato”, contribuì invece a ricondurlo su un piano più arretrato, inducendo anche il Pci alla mera difesa della democrazia repubblicana. La strategia di Berlinguer creò peraltro un vivo allarme in tutte le cancellerie occidentali, dall’amministrazione Kissinger, fortemente preoccupata del binomio “comunismo più libertà” [14], agli altri governi del G7, che al vertice di Puerto Rico del 1976, lasciando Moro fuori dalla porta, concordarono aspre ritorsioni economiche qualora il Pci fosse entrato nel governo [15]. Del resto, un Pci del 34% all’interno di un governo di un paese occidentale strategico come l’Italia, poco dopo la sconfitta Usa in Vietnam e la caduta degli ultimi regimi fascisti in Europa, avrebbe potuto avere conseguenze di carattere globale.

Il rapimento e l’omicidio dello stesso Moro, coincidente con l’ingresso dei comunisti nella maggioranza, bloccarono quella esperienza sul nascere, segnando la fine del tentativo di dare alla “rivoluzione democratica e antifascista” una seconda occasione [16]. Dopo quei fatti, l’esperienza della “solidarietà democratica” divenne per il Pci un tentativo dovuto, ma anche una sorta di gabbia, con gli “alleati” che agivano con l’obiettivo di separare i comunisti dalla loro base popolare; obiettivo che per il contesto oggettivo, ma anche per errori soggettivi, ingenuità e limiti di politicismo che lo stesso Berlinguer riconoscerà, fu in parte conseguito, sebbene proprio in quei mesi fossero varate alcune tra le più importanti riforme della storia repubblicana, dall’equo canone al Servizio sanitario nazionale, dalla legge sull’aborto alla legge 180.

Chiusa quella stagione, il Pci scelse la linea dell’alternativa democratica, da costruirsi nella società prima ancora che tra le forze politiche. Tuttavia, la controrivoluzione neoliberista era ormai in pieno svolgimento, assieme a quel superamento del fordismo che contribuiva a togliere a sindacati e partiti operai il terreno sotto i piedi. Fu allora, ma soprattutto dopo la morte di Berlinguer, che – infrantasi contro un muro l’ipotesi di un cambiamento sul piano del governo e dello Stato – una parte del gruppo dirigente, anche locale, ritenne che quelle casematte e quelle trincee potessero essere utilizzate non più per un rivolgimento complessivo ma per un mero alternarsi di classi dirigenti. Ne derivò l’idea del superamento del Pci come partito comunista, un’idea che gli eventi internazionali del 1989 incoraggiarono, mentre in realtà proprio quei fatti confermavano che la strategia intrapresa dai comunisti italiani – la strategia dell’egemonia elaborata a partire dal pensiero di Gramsci e da una complessa esperienza storica – conservava la sua validità. Per compiere quello “strappo” furono comunque necessari due congressi e più di un anno di confronto di massa.

Come comunisti che operano in Italia, comprendere fino in fondo e nella sua organicità tale impianto, analizzarlo anche criticamente, rimane un compito fondamentale, se non si vuole, anche inconsapevolmente, aggiungersi alla schiera di quanti, sbarazzandosi del bambino assieme all’acqua sporca, hanno gettato alle ortiche un patrimonio straordinario di elaborazione e di esperienze, che pur nelle mutate condizioni può dare ancora molto alla lotta per il socialismo.

 

Note:

[1] Spriano, P., Storia del Partito comunista italiano. Vol. I: Da Bordiga a Gramsci, Einaudi, 1967, p. 399.

[2] Ivi, pp. 464, 470.

[3] Agosti, A., La Terza Internazionale – Storia documentaria, vol. II, 1924-1928, Editori Riuniti, 1976, pp. 707-710.

[4] Ragionieri, E., Palmiro Togliatti. Per una biografia politica e intellettuale, Editori Riuniti, 1976, pp. 290-291.

[5] Togliatti, P., Corso sugli avversari – Le lezioni sul fascismo, a cura di Biscione, F.M., Torino, Einaudi, 2010, pp. 7-8.

[6] Togliatti, P., Opere, vol. III, 1929-1935, a cura di Ragionieri, E., Roma, Editori Riuniti, 1973, t. 2, pp. 713-729: 725.

[7] Ferrara, G., I comunisti italiani e la democrazia. Gramsci, Togliatti e Berlinguer, Roma, Editori Riuniti, 2017; Gentili, S., Il Partito comunista italiano. Storia di rivoluzionari (1921-1945)¸ Bordeaux edizioni, 2021.

[8] Höbel, A., La “democrazia progressiva” nell’elaborazione del Partito comunista italiano, in “Historia Magistra”, 2015, n. 18.

[9] Ciofi P., Ferrara G., Santomassimo, G., Togliatti il rivoluzionario costituente, Roma, Editori Riuniti, 2014.

[10] Cfr. Höbel, A., Il Pci di Luigi Longo (1964-1969), Edizioni scientifiche italiane, 2010.

[11] La seconda tappa della rivoluzione democratica e antifascista, intervista a E. Berlinguer, in “Rinascita”, 25 aprile 1975.

[12] Togliatti, P., Riconduciamo la discussione ai suoi termini reali, “Rinascita”, 12 gennaio 1963.

[13] “In Italia, per salvare la democrazia e per realizzare un generale rinnovamento della società [...] sono necessarie grandi lotte [...] e un impegno delle più varie energie popolari. Proprio perché a tale rinnovamento si oppongono gruppi economici e politici ristretti ma assai potenti e aggressivi, è indispensabile isolarli, impedire che essi abbiano basi di massa: ecco perché noi sosteniamo che si deve creare una grande maggioranza che comprenda tutte le forze popolari e democratiche” (Berlinguer, E., Unità del popolo per salvare l’Italia, rapporto al XIV Congresso del Pci, 18 marzo 1975, Editori Riuniti, 1975, pp. 66-79, 86-87).

[14] Cfr. Rubbi, A., Il mondo di Berlinguer, l’Unità editrice, 1994, p. 88. Rubbi riporta in particolare le parole di Helmut Sonnenfeldt, braccio di destro di Kissinger, rivolte agli ambasciatori europei a fine 1975.

[15] Varsori, A., Puerto Rico (1976): le potenze occidentali e il problema comunista in Italia, in “Ventunesimo Secolo”, 2008, n. 16, pp. 89-121, online in https://www.jstor.org/stable/23720319?seq=1#metadata_info_tab_contents.

[16] Per molti studiosi, la gestione di quell’evento da parte degli apparati dello Stato e dei poteri opachi che vi parteciparono si configura come una sorta di golpe bianco, qualcosa che ha bloccato sul nascere un percorso potenzialmente significativo. Cfr. De Lutiis, G., Il golpe di Via Fani, Sperling & Kupfer, 2007; D’Adamo, C., Hepburn, J. (Jr), Coup d’État in via Fani, Pendragon, 2018.

12/02/2021 | Copyleft © Tutto il materiale è liberamente riproducibile ed è richiesta soltanto la menzione della fonte.

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L'Autore

Alexander Höbel
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