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Scomodi ricordi

Le pratiche, la vita interna, le vicende di un partito che non c’è più da trent’anni ma il cui esempio rappresenta ancora e soprattutto oggi un pericolo per tanti.


Scomodi ricordi

Il Pci ha dei primati assai rari, anche su scala internazionale. Per oltre trent’anni ha sempre, sistematicamente, aumentato i propri voti, la loro percentuale, i seggi conquistati in parlamento. Circa quarant’anni dopo la Liberazione, aveva la forza di risultare primo partito del paese (europee del giugno 1984, 33,3% contro il 32,9% della Dc).

Ha portato in parlamento (e non solo) letteralmente centinaia di operai, braccianti, mezzadri, artigiani. Le grandi fabbriche del paese avevano quasi un “seggio fisso”: c’era sempre l’operaio di Mirafiori, quello dell’Alfa di Milano e delle grandi fabbriche di Sesto San Giovanni, del polo industriale di porto Marghera, il portuale di Genova o Livorno, e poi giù giù fino ai metalmeccanici di Napoli e di Taranto, la Pertusola di Crotone, il petrolchimico di Siracusa o di Gela, i minatori del Sulcis-Iglesiente, i tessili, i chimici, gli edili ecc. Naturalmente il Pci ha anche riempito le camere di Partigiane e Partigiani ed è stato – quasi sempre – quello che aveva più donne parlamentari di tutti gli altri partiti messi insieme.

1. Come funzionava nel Pci

Come venivano scelti i candidati e gli eletti nel partito a lungo raffigurato come la “longa manus” di Stalin? Nelle elezioni regionali e amministrative, le decisioni finali erano dei relativi organismi (comitati federali o comitati regionali) che venivano periodicamente eletti dai rispettivi congressi.

Per il parlamento, c’era una lunga fase che attraversava, a più riprese, dall’alto al basso e viceversa, tutto il Partito. Inizialmente, il Comitato centrale (composto da circa 150 compagni di tutte le province e anch’esso periodicamente eletto dal congresso nazionale) o la Direzione (eletta a sua volta dal Comitato centrale) si riunivano per elaborare i primi criteri e indicazioni per la campagna elettorale e la composizione delle liste.

Questi criteri venivano poi proposti ai comitati regionali e federali, che li arricchivano o coniugavano per quanto di loro competenza e cominciavano anche ad avanzare le prime, poche, proposte nominative.

Poi si passava alla discussione nelle assemblee di sezione, nelle quali ci si esprimeva sui criteri e le indicazioni proposte dagli organi dirigenti e sulle prime candidature, si elaboravano controproposte, critiche, e si cominciavano ad aggiungere altri nominativi. Poi ripartiva il percorso inverso: i comitati federali e regionali esaminavano il responso che dalle sezioni veniva sui criteri, le osservazioni e i nominativi e si valutavano anche le altre proposte di candidature avanzate.

Questa fase culminava negli organismi dirigenti nazionali i quali, tenuto conto di tutto il dibattito, elaboravano le proposte definitive e stilavano i primi elenchi (non completi) di nomi di candidati. Quindi si ritornava ai regionali e ai federali che completavano (quasi), sulla base dei criteri e degli orientamenti già discussi le liste da proporre e infine si ritornava al voto delle sezioni, voto che si rifletteva in ulteriori riunioni degli organismi intermedi nei quali si definivano le candidature di competenza (qui c’era ancora spazio per qualche correzione suggerita dalle sezioni); e infine il Comitato centrale o la Direzione prendevano alcune decisioni (dopo essersi espressi su quelli degli organismi inferiori) sulla collocazione dei principali dirigenti del Partito, sui capilista e su alcune personalità indipendenti. Una fase che durava un mese o due, altro che un click apposto in una giornata e mezzo!

2. Chi decideva

Dunque la “base” di tutto questo complesso processo erano le sezioni (e le cellule). Dei comitati regionali e federali facevano parte, approssimativamente, tra i 5.000 e i 10.000 compagni e compagne e si riunivano, come già detto, almeno due volte, quanto le sezioni.

Queste ultime erano circa 11.000 e alle loro assemblee, complessivamente, partecipavano un numero di compagne e compagni variabile tra i 5/600mila e il milione. Molte erano le sezioni aziendali e di fabbrica.

Data la natura del Pci, della sua storia, della sua interazione con il popolo e la società italiana, l’orientamento di tutta questa “gente” teneva anche conto di milioni di altri iscritti, simpatizzanti, lavoratori, donne, giovani, ecc. i quali, a loro volta, erano espressione di una grande e profonda parte della società, delle masse popolari.

Altrimenti non sarebbe stato facile avanzare per decenni, avendo sempre contro avversari accaniti e potenti.

Oggi qualcuno ancora parla di democrazia diretta, di decisioni “dal basso” e fa bene. Le primarie, invece, mi sembra siano già passate di moda e comunque si sono abbastanza screditate da sole.

Ma cosa volete che siano 35mila click in confronto a quella grande massa di persone che si riuniva e poi si riuniva di nuovo e discuteva e decideva dopo che molti si erano fatti un parere (o avevano modificato quello precedente) proprio grazie all’intensa discussione collettiva?

L’errore più grande, però, è ritenere che si trattasse solo di una differenza quantitativa ovvero che il Pci fosse “più” democratico solo perché più persone partecipavano al processo decisionale.

3. I criteri

La vera differenza era qualitativa, benché scaturisse anche dalla “quantità” di compagni e di discussione.

Inizialmente, si discutevano i criteri, separatamente dai nominativi. Secondo i momenti, i luoghi, le circostanze, bisognava decidere se la lista dovesse essere particolarmente adatta – per fare pochi esempi – a conquistare il voto dei lavoratori o delle masse popolari di fede cattolica, oppure quali categorie o vertenze di lavoro dovessero essere specialmente valorizzate o su quali tematiche ambientali e sociali essere più incisivi (la sanità, la scuola, il verde pubblico, l’urbanistica e la casa ecc.).

Centrale era sempre il problema della massima rappresentatività delle donne e non si trascurava la questione del costante rinnovamento e dello spazio per i giovani. In alcuni casi, anche certe questioni territoriali potevano avere importanza. Spesso, si cercava di eleggere più compagni meridionali di quanto si riuscisse a fare nelle sole regioni del sud e alcuni di loro, quindi, venivano candidati (ed eletti) nelle regioni rosse (nulla a che vedere con vicende attuali).

4. I nomi

Nel complesso questi venivano dopo. Difficile “litigare” solo su di essi se corrispondevano a un insieme organico di criteri ed orientamenti (non a uno solo che in sé potrebbe essere strumentale) decisi prima e separatamente rispetto alle persone da indicare. Inoltre, c’era la regola che ogni due legislature c’era l’avvicendamento, perciò tutti sapevano prima – in linea di massima – quando non sarebbero stati ricandidati. Per inciso, gran parte dei proventi percepiti dagli eletti sotto varie forme, andavano al partito: come si vede, anche oggi, nessuno ha scoperto nulla di nuovo rispetto al Pci!

Eravamo molto fieri di un rigore morale (rigido, se volete) il quale condannava duramente e impediva (o quanto meno ostacolava fortemente) nella pratica l’individualismo, i modi piccolo borghesi, il carrierismo (con tutto il seguito di cordate, cricche ecc.) particolarmente nel momento elettorale. Guai a farsi propaganda personale o anche solo possedere poche decine di biglietti con la preferenza al di fuori di quelli consentiti e forniti dal partito: anche solo per quest’ultimo motivo alcuni compagni furono sospesi (a norma di statuto) e si diede indicazione di non votare per loro.

Infatti, oltre alle candidature, nello stesso modo si decidevano anche i compagni da eleggere con le preferenze, i cosiddetti “bloccati”. Malgrado le apparenze, è un sistema democratico e trasparente come la scelta dei candidati, garanzia di moralità politica: facendo delle valutazioni approssimative, si distribuiva tra le sezioni, in modo proporzionato ai risultati attesi, il compito di far votare la preferenza per uno o più compagni prescelti. Se qualcuno prendeva un numero significativo di preferenze al di fuori delle sezioni in cui era bloccato, doveva dare giustificazioni convincenti, altrimenti gli organismi di controllo del Partito avrebbero proceduto con le sanzioni per propaganda personale. In questo modo, evitando le campagne elettorali individuali, si preveniva la corruzione ed altri fenomeni immorali, si rendeva anche inutile (se non impossibile) l’appoggio occulto di vari potentati, tra cui le mafie. 

Gli elettori comunisti, davano scarsa importanza alle preferenze (ai giochetti e agli intrighi che nascondono) tanto che il Pci era – proporzionalmente – il partito col minor numero di schede recanti preferenze. Questo pure per la notevole fiducia dell’elettorato, dovuta anche a questo sistema che garantiva trasparenza, moralità, democrazia, per cui gli elettori si attenevano molto volentieri alle indicazioni delle sezioni sui bloccati.

Certo, a fronte di 945 candidature, alla partecipazione anche di un milione di compagni per la loro definizione, alla vasta complessità dei problemi e dei criteri da considerare, era inevitabile che qualcuno (qualche sezione o dei compagni) rimanesse comunque scontento, alla fine, né si poteva garantire sempre che ogni decisione fosse perfetta e incontestabile. Anche in questo caso, però, i “delusi” potevano prendersela (sempre in modo democratico e a norma di statuto) con chi ritenevano di incolpare per una decisione che reputavano sbagliata e questi ultimi erano tenuti, comunque, a rispondere della propria responsabilità, quanto meno al successivo congresso (si svolgevano ogni tre anni).

Insomma si discuteva tanto, in tanti ed erano chiare le responsabilità di decisioni (anche sbagliate o non democratiche): chi può dire altrettanto oggi? Che cosa c’entrano con la democrazia diretta o le decisioni dal basso, forze politiche delle quali non si sa bene chi siano i responsabili né gli organi dirigenti, nelle quali le liste vengono decise, da poche migliaia di persone – nei casi migliori – in modo improvvisato e frettoloso (in poche ore o giorni); tra una selva di candidati dei quali non si sa bene cosa faranno e a chi risponderanno nel loro eventuale mandato parlamentare. Si tratta di forze politiche e processi decisionali pseudo democratici (rispetto a quel che era il Pci) i cui esiti sbagliati o dannosi vengono poi accollati genericamente (e inutilmente) a imprecisati utenti della rete o a indistinte assemblee. Ma c’è dell’altro….

5. Liste di classe

Nel Pci, le cosiddette “competenze” avevano un’importanza molto relativa nella definizione delle liste dei candidati, alla stregua di quelli “che portano i voti”. Non è un gioco di parole ma il partito era comunista quindi “da ciascuno secondo le sue capacità” ma senza approfittarsene per questo e ricavarvi per forza un tornaconto personale.

Se io fossi in grado di “portare voti” effettivamente (in realtà tanti supposti “portatori di voti” sono solo delle bufale) lo farei – sarebbe mio dovere – sia nel caso in cui il Partito decide di candidarmi, sia nel caso contrario. Allo stesso modo in cui, se avessi una certa disponibilità di denaro, sarebbe mio preciso dovere contribuire al finanziamento del partito anche se non sono stato eletto amministratore della sezione o della federazione.

Così, se sono particolarmente esperto dei problemi della pesca, devo mettere a disposizione del partito (quindi dei lavoratori e dunque nell’interesse della società) questa mia particolare competenza sia come deputato o assessore, sia come consulente dei gruppi parlamentari o componente della commissione di lavoro del partito sui problemi della pesca, del cui contributo poi si avvalgono i gruppi parlamentari per la loro attività.

La cosiddetta competenza, come la supposta facoltà di “portare voti”, intesa come criterio per la candidatura, si rivela, in realtà, una forma di speculazione personale e un presupposto morale della corruzione, generando distorsioni che ci conducono al degrado che vivono oggi le istituzioni e le forze politiche (con tutto il seguito di giullari, ballerine e nipoti di questo o quel presidente straniero). Ricordo come rimasi sbigottito quando a Crotone quelli del Pds candidarono alle comunali un compagno (onesto e sincero, lo conoscevo) con questa bella motivazione: ha nove figli; sottinteso: quasi tutti sposati, alcuni con figli maggiorenni a loro volta fidanzati, con tutto il contorno di parenti, cognati, suoceri e altri affini.

La competenza, come criterio unico o principale per le candidature, tradisce l’approccio essenzialmente individualistico dell’impostazione, mentre la concezione del Pci era collettiva: quel che contava, in primo luogo, era il significato e l’impronta complessiva di una lista nonché la funzione e i compiti generali che un gruppo parlamentare (per tutta una legislatura) aveva di fronte. Con i recenti governi “tecnici” credo che sia tramontata la retorica sulla competenza: più di ogni altro hanno fallito proprio “tecnicamente” come dimostrano anche certe sentenze della Corte costituzionale di correzione di alcuni provvedimenti di quei governi. Un tecnico o un “competente” (spesso di tratta di bufale come per i “portatori di voti”) può certamente sapere cosa e quanto serve per asfaltare un tratto di strada ma decidere se essa va realizzata dove fa comodo al borghese o dove serve al proletario non dipende dalle conoscenze “tecniche”, si tratta di scelte politiche nel senso più puro del termine. Il parlamento, le istituzioni, devono decidere se fare opere necessarie ai proletari o che servono ai borghesi, i tecnici possono dare un contributo molto importante per definire “come” farle.

Anche per questo, se sono un valido ingegnere civile, ciò non è un motivo per escludermi dalle liste ma neanche l’unico motivo per candidarmi perché i gruppi parlamentari (come i governi) non devono fare scelte “tecniche” ma politiche nel senso di classe. Su questo presupposto si può decidere se, nell’approccio collettivo con cui un partito comunista deve definire la propria lista o i propri gruppi parlamentari, sia utile al Partito che io venga candidato o meno; come ingegnere civile, invece, posso dare il mio contributo in modi diversi.

Non a caso proprio in questi giorni Renzi, come tanti altri politicanti, sbandiera le “competenze”. La borghesia deve mantenere l’assetto attuale, non ha bisogno di scelte politiche e progetti di fondo che possano cambiare lo stato di cose presenti, deve gestire l’esistente e riduce la sua concezione della democrazia al governo di “competenti” che “tecnicamente” si dedicano alla realizzazione dei suoi affari e interessi. Supponiamo che ci sia bisogno di qualcuno “competente” nella fabbricazione di automobili: i politicanti attuali indicherebbero Marchionne o un operaio di Pomigliano D’Arco? Dietro tutta questa demagogia sulle competenze si cela solo la dittatura della borghesia, la quale esercita la parte istituzionale del suo potere affidandola ai propri lacchè (pardon, tecnici).

Chi l’ha detto che le competenze siano solo quelle dell’esperto di finanza, di fisco, di medicina ecc.? Non c’è, nella società, chi deve sapere quali sono le istanze e le aspirazioni dei lavoratori, delle donne, dei giovani, non c’è forse bisogno di competenti che sappiano conoscere le idee e i problemi dei lavoratori di tante categorie, di tante parti deboli della nostra società, delle zone più abbandonate ed arretrate e non solo? Non c’è bisogno di competenti in democrazia e moralità che sappiano far risollevare il paese dalla sfiducia, dal cinismo, dall’indifferenza che lo degradano?

Il Pci, come ho già detto, anche per i motivi appena esposti, portava nelle liste e in parlamento i proletari (sebbene non a sufficienza) e non solo i borghesi; portava (non sempre con la forza necessaria) anche la lotta di classe nelle istituzioni e nelle campagne elettorali. Per questo anche le sue liste erano di classe e non di competenti. 

Insomma… Che io ricordi (ma la memoria potrebbe tradirmi) fino a trent’anni fa il Pci ha avuto tra i suoi parlamentari (e furono proprio tanti) forse un paio di “traditori”, al massimo tre. Più o meno il numero di deputati o senatori che ogni giorno – nelle Camere degli ultimi tempi – cambiano partito o schieramento, anche più volte con un andirivieni da tergicristalli.

Il Pci fa paura, anche solo per l’esempio che da tutt’ora. Più passa il tempo, più stranamente, questa paura sembra crescere. Con essa cresce il tentativo di occultarlo totalmente, di farci dimenticare completamente della sua esistenza e del suo significato e – quando ciò non riesce bene – si cerca di “seppellirlo” sotto un cumulo di menzogne e di calunnie.

I tentativi più raffinati consistono nel porre finti problemi o possibilità che nessuno richiede. Per esempio, se si possa oggi “copiare”, potrei dire clonare, un Partito storicamente determinato, nato quasi un secolo fa e sostanzialmente interrotto circa trent’anni fa. Si affrettano a ripetere quasi istericamente: il Pci è finito, non può ritornare così com’era. E aggiungono una gran quantità di malefatte del Pci e di dati che indicano come esso non possa tornare così come era. 

Un esorcismo sterile ma utile ad evitare di parlare delle altre forze politiche, dei suoi avversari: ma il secolo scorso, in Italia, è esistito solo il Pci, non c’erano altri? Quando si parlerà della Dc, dei socialisti, della destra o di altri che allora contrastavano il Pci, quando si farà un bilancio della loro storia?

A quanto sembra alcuni di loro, invece, sono tornati, eccome, peggio di prima. Soprattutto questi esorcismi un po’ isterici servono a evitare in ogni modo il confronto con le forze e i gruppi dirigenti odierni. Il problema non è quello, falso, se può tornare così com’era una forza che non c’è più da trent’anni.

Si guardi proprio alle cronache di questi giorni. Il problema vero è che i pochi ricordi che ho qui esposto, con l’esempio che rievocano, sono un pericolo per tanti concorrenti di questa campagna elettorale.

10/12/2021 | Copyleft © Tutto il materiale è liberamente riproducibile ed è richiesta soltanto la menzione della fonte.

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L'Autore

Norberto Natali
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