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C’è rimasta la ragione. Un romanzo di classe

Recensione del libro C’è rimasta la ragione… Una storia operaia di Ivan Nardone.


C’è rimasta la ragione. Un romanzo di classe

Recensione del libro C’è rimasta la ragione… Una storia operaia di Ivan Nardone (2015 Edda Edizioni, pag. 220, euro 18). Un quarto di secolo di storia italiana, tra i personaggi storici e i fatti più significativi di quegli anni, dove i protagonisti non sono i vincitori, ma i vinti che hanno combattuto e che continuano a combattere.

di Giuseppe Carroccia

Primo luglio 1983, la fine della Repubblica fondata sul lavoro. Questo lapidario giudizio apre il romanzo d’esordio di Ivan Nardone, figlio di un musicista e per breve tempo operaio Fiat, e di una sarta, che ha voluto ricordare l’epilogo della sconfitta operaia del 1980, caduta nel dimenticatoio in un Paese terremotato nel turbo immaginario che schiaccia tutto nell’inevitabilità dello sfruttamento presente, in cui, cioè, le classi dominanti cancellano il passato per negarti il futuro.

Hanno, infatti, di che vergognarsi. Il primo luglio 1983, 23 mila cassaintegrati Fiat, in base all’accordo Fiat Flm del 18 ottobre 1980, siglato dopo la marcia dei cosiddetti 40000 (riportato integralmente in appendice), avrebbero dovuto finalmente tornare in produzione, ma l’azienda, come uso del padronato italiano, non rispettò l’accordo, lasciando migliaia di famiglie in mezzo alla strada e gli operai in fabbrica sottoposti a turni, orari, ritmi massacranti. Tre anni di lotte e impegno straordinario del Coordinamento cassaintegrati cancellati con un tratto di penna, con l’intervista di un dirigente. Complice il governo, assente il sindacato.

È l’epilogo drammatico di una lunga vicenda di lotte e protagonismo operaio iniziata nel biennio rosso ‘69-’70 che Nardone ci fa scoprire seguendo le vicende di Michelina, Donato (con il loro figlio Luca) e di Vincenzo che, insieme ad altri personaggi, rappresentano quel giovane Sud che sale nel settentrione agli inizi degli anni Sessanta e cambia le caratteristiche della lotta sindacale, allargandola anche al territorio e al complesso dei diritti sociali e civili. E che funge da tramite tra Partito (il PCI) e il sindacato, con il movimento studentesco esploso nel Sessantotto.

Sono operai, uomini e donne, in carne, ossa, nervi con una storia di lotte contadine ed edili alle spalle nel Sud del secondo dopoguerra. Sono lavoratori, maschi e femmine, che prima di varcare i mitici cancelli di Mirafiori, prima di diventare un Fiat, hanno mestieri nelle mani, come Donato eccelso scalpellino nella Valle del Comino, famosa per gli scioperi alla rovescia voluti dalla Cgil di Di Vittorio; come Michelina, che nel profondo Molise accudiva gli animali nella stalla dell’azienda familiare, a Portocannone dove ogni anno da secoli si svolgeva la corsa dei buoi (detta anche carrese) tra le fazioni rivali biancazzurre e giallorosse.

Seguendo il proprio istinto (di classe?) e la propria intelligenza che è più analitica che narrativa, Nardone scrive un romanzo in bianconero (malgrado la sua evidente fede nerazzurra), come la carta stampata dei quotidiani dell’epoca o del film Trevico-Torino - Viaggio nel Fiat-Nam, esordio alla regia di Ettore Scola proprio sulla vicenda dei giovani meridionali emigranti, in cui non ci sono colori, descrizioni, ma solo fatti, storici e personali. Dei personaggi non ci descrive nulla (faccia, occhi, aspetto, modo di camminare, di sorridere, ecc.) ma solo la loro vita interiore e il loro ragionamento. La ragione, appunto, del titolo, che è la vera forza che li fa vivere e che rimane anche dopo la sconfitta.

E riesce nel miracolo, un piccolo capolavoro, di renderceli immediatamente vicini e cari nella loro feconda semplicità, credibili anche nei dialoghi, oggi impensabili, in cui sintetizzano i dubbi e le analisi della lotta politica, il dibattito che anima il loro partito e il loro sindacato. Loro, nel senso che sono loro quel partito e quel sindacato, anche quando li delude, non si dimostra capace o addirittura “li tradisce”.

Sono loro, nel senso che vita e lotta politica sono cresciute insieme, dentro una comune emancipazione e liberazione, che li rende indissolubili.

Vivi perché l’autore li conosce e ce li fa riconoscere con i loro limiti, le contraddizioni storiche che li dilaniano intimamente, i dubbi feroci che però non li paralizzano perché sono abituati alla lotta per la sopravvivenza anche mentre provano a scalare il cielo di una migliore condizione umana attraverso i libri, il cinema, le partite di calcio, le canzoni.

Il libro nei suoi ventiquattro capitoli racconta, con rara capacità argomentativa, un quarto di secolo di storia italiana, dagli scontri in piazza Statuto alla presenza di Berlinguer davanti ai cancelli, scegliendo con precisione i passaggi storici e politici più significativi: dalla strage di Piazza Fontana alla morte di Pasolini, dal rapimento Moro, alle stragi fasciste, cucendo una credibile ricostruzione del rapporto tra lotte operaie e vicenda politica.

Sceglie un punto di vista molto parziale che gli consente di guardare in faccia non solo la forza del nemico di classe, ma anche i limiti, le debolezze e, quindi, il coraggio di chi continua ad opporsi concretamente fino alla fine.

La trama ben costruita del romanzo trova il suo centro gravitazionale, perciò, proprio nei trentacinque giorni dell’occupazione ai cancelli di Mirafiori, decisivi per la storia d’Italia, cantati in poche, commoventi pagine. Una sobrietà che ricorda i libri di testimonianza di tanti militanti e dirigenti comunisti. Così come l’intreccio tra storia e cronaca, tra personaggi storici e narrativi è un tratto saliente della migliore letteratura meridionale, da De Roberto a Silone, da Alvaro a Jovine.

Altri punti di vista sarebbero stati possibili, altri spunti narrativi fecondi, come ad esempio quel Nord che tornava al meridione per aiutare le popolazioni colpite dal terremoto su cui recentemente è stato pubblicato un libro sul contributo dato nei soccorsi dagli operai della Pignone di Firenze.

L’autore nella nota iniziale nega di aver scritto un romanzo storico, perché “la Storia la scrivono i vincitori e qui si vuole dare la parola agli sconfitti”, ma sicuramente ha scritto un libro di storia come fosse un romanzo, perché non si può fare ricostruzione storica senza la testimonianza di quelli che la fanno, che combattono. Anche se perdono.

Il libro pertanto è anche la dimostrazione di come i teorici della morte del romanzo (come di quelli della fine della storia) hanno fatto male i loro conti: romanzo e storia non sono finite.

Altre storie di lotte, e altri scrittori e romanzi, verranno.

E prima o poi con la ragione ritroveremo pure la forza.

Ivan, che è stato militante e dirigente comunista in un partito come Rifondazione Comunista che aveva questa necessità e dava quindi questa facoltà, e che è figlio di una generazione di proletari per i quali i libri costituivano la principale fonte tangibile di possibile liberazione, ha avuto il coraggio addirittura di scriverne uno, segno di una liberazione avvenuta, di un riscatto conquistato o, più semplicemente, di una storia che andava raccontata. Quella dei nostri padri.

22/01/2016 | Copyleft © Tutto il materiale è liberamente riproducibile ed è richiesta soltanto la menzione della fonte.

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