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Cos’è questo fantomatico e ineludibile scissionismo della sinistra?

Il recente libro di Enzo Mauro sulla frammentazione della sinistra, sebbene abbia il pregio di fare un buon excursus storico sul movimento socialista dalla fine dell’Ottocento fino alla scissione di Livorno, legge gli avvenimenti con occhio astorico, semplificandoli e piegandoli a sostegno della tesi preconfezionata del divisionismo naturale della sinistra.


Cos’è questo fantomatico e ineludibile scissionismo della sinistra?

A fine 2020 ha visto la stampa La dannazione. 1921. La sinistra divisa all’alba del fascismo (Feltrinelli, collana “Fuochi”); nuovo libro del giornalista Ezio Mauro

Si tratta di un ambizioso excursus storico che ripercorre i principali eventi segnanti del socialismo in Italia dalle origini, sino all’avvento del fascismo. Oltre al libro, contestualmente è stato mandato in onda, sulle reti Rai, anche un documentario analogo.

Ma perché parlare di questo libro? Vediamoci chiaro.

L’obiettivo, netto ed esplicito già dal titolo dell’opera, è quello di dimostrare, fra le maglie della descrizione degli eventi, una tesi che si abbarbica su una sorta di fantomatico peccato originale che serberebbe nel suo seno la sinistra e che la porterebbe sistematicamente a scindersi e a frazionarsi in molteplici parti, a oltranza. E se nella trattazione storica Mauro risulta puntuale e preciso, capace oggettivamente di condensare, in non tante pagine, gli avvenimenti essenziali della storia del socialismo sino alla scissione di Livorno del 1921, certamente non è altrettanto preciso nell’analisi critica di questi avvenimenti.

Ma entriamo ancora di più nello specifico. 

Il libro percorre rapidamente, ma non banalmente, le prime scintille di socialismo di fine Ottocento, le agitazioni della Prima Internazionale, l’allontanamento degli anarchici, la nascita e lo sviluppo esponenziale del Partito Socialista, la lotta di classe prima e dopo la Grande Guerra, le lotte del Biennio Rosso e, soprattutto, la scissione di Livorno con la conseguente nascita del Partito Comunista (fulcro dell’analisi e leitmotiv). 

Nel portare avanti questo volo storico, Mauro coglie e riporta con chiarezza anche le posizioni differenti all’interno del Psi: il riformismo di Turati, il massimalismo di Serrati, il marxismo d’avanguardia di Gramsci e quello più schematico di Bordiga. Non si tratta di certo di una pubblicazione specializzata, e nemmeno pretende di esserlo; può però rappresentare una buona infarinatura sul tema per un lettore che voglia iniziare ad averne un quadro storico.

Qual è il problema, dunque?

È che accanto alla suddetta parte storica, per portare avanti la sua tesi sul divisionismo naturale della sinistra, il giornalista cade nel distorcere ideologicamente a priori l’osservazione critica degli eventi, il tutto per ottenere continue riconferme sulla bontà della sua analisi. È come se le scelte del movimento socialista fossero considerate in modo fatalistico; come se ci fosse una ragione fisiologica e ineludibile che piomba a mo’ di mattone addosso al socialismo e alla sua storia. Questa forzatura è alla base di alcuni errori che è necessario evidenziare con precisione.

1) Nel commentare il fallimento della Prima Internazionale e la divergenza fra socialismo e anarchismo, riporta Mauro: “La rottura con l’anarchia è ormai avviata e sarà confermata dalla scelta elettorale e istituzionale del nuovo partito [si tratta del Partito operaio italiano, poi Psi, ndr]. […] È l’inizio della dannazione che perseguita la sinistra, fin dalla sua scintilla germinale, tra divisioni, rotture, separazioni, come se il carico di quegli ideali e le responsabilità di quella rappresentanza di solidarietà universale e solidale non potessero essere condivisi dai protagonisti, in un sortilegio politico e umano che rende la predicazione della fraternità incapace di produrre unità” [1]. Anzitutto, è largamente improprio fare un raffronto con l’anarchia come forza di sinistra. Certamente l’anarchia è un ideale che persegue il socialismo, ma non ha senso collocarla nel novero della sinistra, semplicemente perché l’anarchia è fuori da ogni collocazione di quel tipo, visto e considerato che essi, per costituzione politica, non potrebbero mai confluire in un partito organizzato. La convergenza tra socialismo marxista e anarchia era (e rimane anche successivamente) finalizzata alla prassi rivoluzionaria, nel portare avanti le lotte sindacali; non nell’organizzazione prettamente politica. Eppure Mauro insiste poco dopo: “L’idea socialista diventa così partito, unificando tutte le associazioni operaie ma lasciandosi alle spalle una scissione, come se il germe della divisione dovesse per forza iscriversi nell’atto fondativo, nel mistero sacro delle origini” [2]. Considerazioni che producono ulteriore confusione. 

Per giunta, a conclusione di questo ragionamento, sottolineiamo che questo è fulcro di divergenza già nei decenni precedenti, sin dai protagonisti Marx e Bakunin. In Stato e anarchia (1873), Bakunin segna nettamente il fossato che separa la scissione politica fra anarchici e socialisti. Le strade separate sono dunque semplicemente l’ovvia conseguenza della intrinseca diversità fra i due ideali; dalla radice.

2) Sulla confusione e fragilità all’interno del Psi allo scoppio della Prima guerra mondiale e in relazione alle posizioni ambigue di alcuni socialisti, il giornalista scrive: “Poco dopo ha inizio la Prima guerra mondiale, che costringe il pacifismo a venire a patti con la necessità di difendere la nazione” [3]. Frase curiosa. Sembra dimenticarsi che, a dire il vero, è l’Italia ad attaccare l’Impero Austro-Ungarico per prendersi Trento e Trieste; non subisce affatto un attacco dall’esterno dal quale deve difendersi. Non solo: quello dell’entrata in guerra è pure un episodio controverso, perché ha rappresentato una sorta di tradimento, percepito dall’Austria, con la quale l’Italia era alleata.

Per di più, l’interventismo dei socialisti massimalisti (di fronte all’opzione neutralista emanata ufficialmente dal Psi, col “né aderire, né sabotare”, lo slogan di Costantino Lazzari), è da leggere in modo totalmente differente: in primo piano v’è l’influenza delle teorie di Georges Sorel [4] (a conferma delle influenze forti dell’anarco-sindacalismo su certe frange del socialismo italiano) e la considerazione della guerra come evento drammatico inevitabile per portare alla crisi e al crollo dell’imperialismo ottocentesco e al conseguente sviluppo di condizioni ideali per la rivoluzione socialista. È fondamentalmente ciò che poi accadrà in Russia. 

3) Nel descrivere la scissione di Livorno, Mauro la considera (non a torto) come un fattore di indebolimento per la sinistra e una concausa della facilità con la quale il fascismo si è fatto spazio. Ma commette l’errore di valutare la fondazione del PCd’I con gli occhi rammaricati dell’osservatore odierno che dimentica il vissuto dei reali protagonisti dell’epoca. La scissione non è stata un capriccio o una ripicca banale di una frazione dispettosa del Psi. Considerare davvero le ragioni storiche di quella scissione significa calarsi nel profondo delle esigenze e del fermento dell’epoca. Non significa attualizzarle in modo forzato per poter dar credito al proprio scomparto ideologico e politico apriorizzato. Tra le tante sentenze di Mauro: “Prigioniera di se stessa, la sinistra corre verso la sua dannazione storica dividendosi nel momento di massimo pericolo, subito dopo aver dispiegato la propria massima potenza” [5]; dove chiaramente si riferisce ai successi che il Psi ha ottenuto alle ultime tornate elettorali. Ma ecco che, nella visione dei futuri comunisti, quel successo ottenuto alle urne non ha alcuna utilità di fronte alla reazione borghese: il soffocamento del Biennio Rosso ne è la testimonianza. Per Gramsci, Togliatti, Bordiga e tutti gli altri, il Psi semplicemente non è più capace di rappresentare il proletariato. Confinato nella mera azione parlamentare, si nutre di proclami vuoti; ora che la scintilla dei Soviet ha dimostrato che la rivoluzione è possibile, il gradualismo dei riformisti è visto come una strategia fallimentare e insufficiente. Nel vissuto del giovane Gramsci, la scissione è un momento tragico e sofferto; ma necessario. E il senso di quella decisione si può cogliere ovviamente solo se ci si immedesima nella realtà dell’epoca. Realtà che ci presenta una sinistra costitutivamente ben diversa da ciò che la sinistra è oggi. È veramente insensato rivedere quegli eventi con addosso l’idea di dover stabilire se abbiano fatto bene o meno. Sarebbe una infantile semplificazione.

4) Per restare comunque in tema, il nutrito sensazionalismo delle conclusioni di Mauro prosegue poi con un’esaltazione acritica dell’operato di Filippo Turati e del social-riformismo [6]. Ancora una volta, viene operata un’attualizzazione forzata degli ideali politici di inizio secolo, commettendo peraltro anche un altro clamoroso errore di valutazione: se proprio dovessimo essere costretti a traslarlo all’attuale stato di cose, bisogna rendersi conto che quel “blando” socialismo turatiano dei primi decenni del Novecento, oggigiorno sarebbe quantomeno extraparlamentare… altro che coalizioni di centrosinistra! Ma, evidentemente, è molto più facile cullarsi nell’idea rassicurante che Turati ci indichi la via che dovremmo seguire noi oggi, per aver espresso titubanze sulla Rivoluzione russa o sulla dittatura del proletariato. Purtroppo, non è così semplice.

La questione con la quale, spesso, eminentissimi politici o presunti tali si abbuffano di parole, ovvero la fantomatica “unità della sinistra”, non è qualcosa da ottenere a tutti i costi, o la panacea a tutti gli errori strategici e/o di direzione politica. Esprime senza ombra di dubbio una buona ambizione, ma per far sì che questa unità sia feconda, ci devono essere anche le reali condizioni affinché non sia solo un insulsa alleanza per un voto alle urne e poco più. Se non ci sono queste condizioni per una collaborazione effettiva, e che veda coinvolti sia i partiti che i militanti, l’unità non può portare ad alcun beneficio. 

Connettendo queste considerazioni, si spiega ancora meglio come sia avvenuta la scissione del Psi nel 1921, perché ci proietta nel tessuto socio-politico di quegli anni e alla semplice conclusione dei dirigenti del PCd’I: non ci sono più le condizioni per proseguire il nostro percorso assieme.

La verità è che la sinistra è un universo politico complesso, sfaccettato, e al suo interno ci si riconoscono e confluiscono forze molto differenti fra loro, e con intenti e approcci talvolta agli antipodi. È una questione fatalistica? Niente affatto. Volendo proprio tracciarne un’eziologia, si può tutt’al più dire che la destra, con le sue forze politiche notoriamente conservatrici, per la loro comune vocazione alla preservazione dello status quo, e per l’impedimento di qualsivoglia messa in discussione dei quadri di potere gerarchici, trova più facile raggiungere un accordo volto proprio al congelamento delle dinamiche sociali. La sinistra, in rappresentanza della fazione politica progressista, deve costituire invece il punto di rottura rispetto agli schemi del passato; altrimenti di che sinistra stiamo parlando? Non basta solo sedersi in quella zona del parlamento per poter asserire vacuamente di essere di sinistra. La sinistra, attraverso tutte le sue manifestazioni e organizzazioni storiche è il propulsore della rivoluzione e, in ogni caso, matrice di una radicale messa in discussione della società, dei modi di produzione e, conseguentemente, della distribuzione dei beni. Ma, è chiaro ormai, le diverse anime di questa sinistra hanno da sempre avuto considerazioni diverse sui metodi, livelli e strategie di azione per mettere in pratica la rivoluzione. In parole molto povere, è molto più complesso costruire un percorso politico comune per propugnare un cambiamento della società (specie se profondo), piuttosto che per fossilizzarla. La storia del nostro paese, dal ventennio fascista a oggi, è la testimonianza più palese di ciò. È la storia di un’Italia dove Mussolini è salito al potere sfruttando proprio le alleanze con tutti i conservatori: re, esercito e Vaticano in prima fila; millantando contestualmente di “fare la rivoluzione”. Ed è anche quella stessa Italia che oggi vede tutti i partiti del parlamento uniti nel sostenere Draghi e il neoliberismo.

Concludendo, è evidente che al testo di Mauro manchi tutta l’altra faccia della medaglia; mancano tutte le analisi di quei momenti storici cruciali in cui la collaborazione fra i partiti di sinistra ha avuto luogo. Il fatto che il taglio della trattazione sia ristretto a un determinato periodo (e specificatamente al congresso di Livorno del 1921), non può giustificare l’assenza totale di ogni riferimento ad altre situazioni di diverso esito, solo per persistere a raccontarsi la storiella della “dannazione” ineluttabile. Per questo, accanto al libro di Ezio Mauro, servirebbe la presenza di numerose altre trattazioni che sappiano spiegare avvenimenti di grande importanza come la formazione del “fronte unico”, caldeggiato dall’Internazionale a più riprese (e fulcro essenziale per tutta l’attività di Antonio Gramsci) [7]. 

Di fronte a questa ignominiosa “dannazione della sinistra”, come spiegare la nascita de “L’Unità” per mano e mente del comunista sardo? Come comprendere la potenza dell’azione del Comitato di Liberazione Nazionale, suggellata poi nell’esperienza dell’Assemblea costituente? E il Fronte democratico popolare, con Pci e Psi insieme alle elezioni del 1947, dobbiamo per forza dimenticarlo?

 

Note:

[1] E. Mauro, La dannazione, Feltrinelli, Milano 2020, pag. 37.

[2] Ivi, pag. 40.

[3] Ivi, pag. 43.

[4] Si rimanda alla lettura di G. Sorel, Riflessioni sulla violenza (1908), testo di importanza capitale per la formazione politica di molti futuri esponenti del PCd’I.

[5] E. Mauro, op. cit., pag. 14.

[6] Ivi, vedi pag. 152 e ss.

[7] Per una trattazione esaustiva sul tema si rimanda a G. Vacca (a cura di), Nel mondo grande e terribile. Antologia degli scritti 1914-1935, Einaudi, Torino 2007.

 

04/03/2022 | Copyleft © Tutto il materiale è liberamente riproducibile ed è richiesta soltanto la menzione della fonte.

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L'Autore

Hussein
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