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La politica degli oscar

L’assegnazione degli Oscar: all’ombra di Trump, fra industria culturale e rivoluzione passiva.


La politica degli oscar Credits: Wikipedia

Reale o artefatta che sia stata, la gaffe con cui si è conclusa la notte degli Oscar, con il premio più ambito di miglior film sottratto dopo esser stato già assegnato, era in qualche modo annunciata. Se in un primo momento, infatti, anche la più preziosa statuetta sembrava essere destinata al grande favorito, che aveva conseguito il record mondiale di nomination, La la land, in seguito con sempre maggiore insistenza si era assicurato che tale premio sarebbe invece andato a Moonlight (valutazione: 3,5/10), compensando il primo con il premio di miglior regia.

Dunque tutto secondo copione, compreso presumibilmente il colpo di scena finale, che ha solo reso piena di pathos una fine in qualche modo già nota. Tale espediente, quindi, che in teoria dovrebbe mettere in discussione lo strapotere dell’industria dello spettacolo nella stessa assegnazione degli oscar, in qualche modo la conferma, sia per la modalità scelta sia per la scelta in sé. La concessione, sul filo di lana, ad un outsider del premio più ambito, non solo occulta la spartizione di gran parte degli altri all’interno dell’industria dello spettacolo, ma la rafforza sia per la generosità della concessione, sia per il riconoscimento di un film “indipendente” talmente modesto da far rivalutare persino il più sfacciato prodotto dell’industria dello spettacolo ovvero La la land. Il potersi scegliere il proprio fittizio antagonista, dà un potere tale da poter ostentare la propria augusta magnanimità riconoscendo, in funzione subalterna, il proprio presunto antagonista.

Sì dirà che il premio a Moonlight è il risultato di una dura e importante lotta condotta sia dall’alto che dal basso dagli afroamericani in occasione dell’assegnazione dei premi oscar del 2016, che avevano per l’ennesima volta escluso gli artisti afroamericani. Tale polemica aveva poi assunto una valenza più radicale nella denuncia che il sistema dell’apartheid non era nei fatti realmente superato nemmeno nella società dello spettacolo, che pur fa del politically correct uno dei suoi maggiori vanti. Emergeva così come non solo gli afroamericani partissero da condizioni socio-economiche e culturali decisamente svantaggiate, ma che avessero enormi difficoltà a strappare i posti più importanti ai bianchi, se non a prezzo di salari nettamente decurtati, svolgendo così anche in tale campo la funzione di esercito industriale di riserva.

Per impedire agli intellettuali, che conducevano questo conflitto di classe a livello delle sovrastrutture, di saldarsi con il movimento di base del Black Lives Matter si è depotenziata la prima lotta mediante lo strumento della rivoluzione passiva, di cui l'industria culturale hollywoodiana è certamente maestra. Si sono così sperimentate per gli oscar 2017 una sorta di “quote nere” ovvero una serie di premi assicurati agli afroamericani a prescindere dai loro reali meriti, come la scelta di un modestissimo film come Moonlight sottolinea. Così non si ha un reale riconoscimento paritario, ma resta nei fatti un rapporto servo-padrone, in cui quest’ultimo è così liberale e illuminato da concedere una serie di riconoscimenti, che vanno necessariamente a quei servi che non solo non mettono in questione il rapporto di servitù, ma che non hanno qualità tali da fare ombra al padrone, anzi la preminenza è data proprio a chi con le proprie modeste qualità fa maggiormente emergere la superiorità e la magnanimità del padrone.

Ecco così che un puramente culinario e anonimo prodotto dell’industria culturale come La la land, mero prodotto di evasione, nonostante porti a casa il maggior numero di premi e di nomination, passa come la vittima delle “quote nere”, che come vuole l’ideologia reazionaria discriminirebbero i poveri bianchi e rovescerebbero il sacro principio della meritocrazia. In tal modo un prodotto vergognosamente mercificato e imposto allo spettatore dell’industria culturale esce a testa alta concedendo di buon cuore il più ambito riconoscimento già nelle sue mani in quelle del modestissimo “antagonista”.

Del resto, a partire o a seguire dal Django Unchained di Tarantino, presumibilmente il prodotto migliore della serie, ha consentito all’industria culturale di colonizzare del tutto il “nuovo” genere della black exploitation, che proprio negli oscar 2017 ha raggiunto il suo apice, scalzando completamente il genere dello sterminio degli ebrei che era stato sfruttato fino all’osso l’anno passato.

Intendiamoci, il fatto che l’industria culturale debba seguire la tattica della rivoluzione passiva e, quindi, dare tanto spazio a film di denuncia del barbaro sfruttamento degli afroamericani negli Stati Uniti o dello spaventoso genocidio degli ebrei da parte dei nazi-fascisti è certamente il frutto di un successo delle lotte politiche sociali e culturali che hanno coraggiosamente combattuto il mito del razzismo, arma di distruzione di massa nelle mani di conservatori e reazionari.

Abbiamo così da parte dell’industria culturale una “tolleranza repressiva” delle minoranze etniche e religiose e della denuncia della loro oppressione, ma trattandosi di una concessione dall’alto, che nasconde le lotte dal basso che la hanno necessitata, il suo permissivismo funziona solo per ciò che non mette in discussione il sistema stesso. Così il proclamato superamento delle discriminazioni resta sostanzialmente un inganno, in quanto solo in apparenza tali discriminazioni appartengono al passato, in realtà nel presente si ha una mera emancipazione “amministrata” e commercialmente redditizia. Così mentre la maggioranza ottiene una falsa purificazione della propria cattiva coscienza, la minoranza viene convinta di aver raggiunto gli obiettivi delle proprie rivendicazioni, pur rimanendo nei fatti subalterna.

La notte degli Oscar è stata sfruttata come ulteriore occasione per la costruzione di una opposizione di sua maestà al fascismo sempre più aperto del trumpismo nell’industria culturale, che oggi si estende alle multinazionali che controllano in maniera monopolistica il web. Vista la palese complicità della maggioranza democratica obamiana-clintoniana, ciò è funzionale a evitare la possibilità stessa della formazione di una opposizione reale, ossia che rappresenti concretamente un’alternativa, magari mediante la congiunzione dei settori radicali che hanno appoggiato Sanders, con i movimenti spontanei che stanno tenendo alta la mobilitazione contro il trumpismo.

Far apparire l’industria culturale come la più eminente e credibile opposizione al trumpismo è funzionale a fortificare il partito unico del capitale finanziario al potere nelle sue due opposte e complementari facce. La prima, al governo, è costituita dal populismo fascistoide ora incarnato da Trump, che mantiene a destra la rabbia e la frustrazione sociale di un ceto medio in via di proletarizzazione e di un proletariato sempre a rischio di precipitare nel sottoproletariato, con la creazione di una plebe moderna in stato di sostanziale schiavitù costituita dagli immigrati recenti e clandestini. Governando quest’ultima con metodi bonapartisti regressivi, insistendo sul monopolio della violenza legale, la sedicente opposizione rappresentata dall’industria culturale gli garantisce l'irrinunciabile egemonia mediante un’apologia indiretta dello stesso partito unico realmente al potere.

In tal modo anche il ceto medio riflessivo è tenuto sotto il pieno controllo del potere, facendogli credere di poter sublimare la propria cattiva coscienza, dovuta alla sua tolleranza passiva al dominio del capitale finanziario, riconoscendosi nei valori post moderni, apparentemente critici, indotti nel senso comune liberal dall’industria culturale.

Così, pur vilmente rinunciando alla ghiotta occasione di attaccare il governo in un evento sotto i riflettori internazionali, l’industria culturale ha assunto le mistificanti fattezze dell’opposizione garantendo la vittoria alla sua espressione più diretta, La la land, che rappresenta l’apologia indiretta dell’imperialismo a stelle e strisce, attraverso la narrazione surrettiziamente idealizzata dei suoi anni d’oro, gli anni cinquanta della caccia alle streghe e dei dottor Stranamore pronti alla guerra nucleare. Quale spalla del protagonista, in pieno stile politically correct, si è scelto Moonlight, un film dove sono gli afroamericani stessi a riconoscersi completamente nel ghetto in cui sono costretti a vivere, naturalizzando la propria posizione di assoluta subalternità nelle più squallide e segregate periferie, dove domina in un universo di soli neri la mera legge della giungla, la violenza e il machismo e l’omofobia nella sua forma più sadicamente gratuita. In tale normalizzato inferno l’unica via di salvezza appare essere il passare dal ruolo di vittima al ruolo di predatore, divenendo impiegato o al massimo manager, di quell’industria multinazionale degli stupefacenti, seconda per introiti alla sola industria delle armi, decisiva nello stroncare i movimenti di ribellione degli oppressi e soprattutto dei neri negli anni Settanta.

Anche gli altri film afroamericani premiati o nominati, sebbene di qualità meno mediocre di Moonlight, rappresentano una apparente denuncia del sistema di apartheid del passato, a beneficio della forma attuale dell’attuale rapporto servo-padrone fra bianchi e neri.

In conclusione, rinviando a successive recensioni specifiche la trattazione dei diversi film premiati, ci limitiamo brevemente a commentare i premi assegnati al miglior film di animazione e al miglior film straniero. Il primo, Zootropolis (6/10), parte dalla volontà di riscatto dei subalterni, contri discriminazioni razziste, classiste e di genere. Sviluppa la critica al pensiero unico, che riduce lo Stato a puro guardiano notturno della proprietà privata, e rischia costantemente di assumere le inquietanti fattezze della strategia del terrore, che punta a far crescere fra l’opinione pubblica l’ostilità verso il diverso che assume agevolmente caratteri razzisti. Vediamo così come sia il pregiudizio sociale che condanna i rappresentanti di alcuni settori sociali – sfruttando il mito del razzismo – alla piccola criminalità, indotta e sfruttata dal potere per coprire i suoi grandi crimini imponendo un perpetuo stato di emergenza.

Ciò nonostante il film resta un prodotto dell’industria culturale che mira a far credere che il modo migliore per contrastare queste storture sociali ed emanciparsi da ogni forma di pregiudizio sia divenire, come la protagonista, tutore dell’ordine stabilito. In tal modo si dà a intendere che opporsi a chi lo mette in discussione sia il modo più sicuro per realizzare un mondo migliore. In tal modo si finisce nell’apologia indiretta dell’attuale ordine neoliberista, che è, al contrario, proprio la causa di tutte le storture e le discriminazioni denunciate.

A mettere realmente in discussione l’ordine stabilito è stato, non a caso, il grande assente, l’iraniano Ashgar Farhadi – che ha meritoriamente conquistato per la seconda volta l’oscar al migliore film straniero con Il cliente –, sostenendo: “Mi dispiace non essere con voi, ma la mia assenza è dovuta al rispetto per i miei concittadini e per i cittadini della altre sei nazioni che hanno subìto una mancanza di rispetto a causa di una legge disumana che ha impedito l’ingresso negli Stati Uniti agli stranieri. Dividere il mondo fra noi e gli altri, i ‘nemici’, crea paure e una giustificazione ingannevole per l’aggressione e la guerra. E questo impedisce lo sviluppo della democrazia e dei diritti umani in paesi che a loro volta sono stati vittime di aggressioni”. A proposito di guerre di civiltà…

11/03/2017 | Copyleft © Tutto il materiale è liberamente riproducibile ed è richiesta soltanto la menzione della fonte.
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