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Stud pensa nell’angolo (quinta parte)

Il suono della campanella decreta la fine di un round e l’inizio dei ricordi di Stud, pugile di 41 anni. La voce del padre operaio lo richiama all’importanza dell’istruzione, l’unico mezzo attraverso il quale si può sperare in qualcosa di più che una vita di stenti. Scorre il tempo che si fa storia, nella patria della libertà ineguale, con i suoi miti, il suo vangelo del dominio, che ingabbia l’uomo e le sue potenzialità, ingaggiando una lotta ben diversa da quella del ring.


Stud pensa nell’angolo (quinta parte)

Segue dalla quarta parte.

Un giorno, sprofondati in poltroncine in pelle separate da un tavolino su cui campeggiavano una bottiglia probabilmente di acquavite sfuggita a qualche riserva indiana e due bicchieri in uno stato igienico più che dubbio, lui e J.J ritornarono sull’argomento del tempo.

Come si fa a parlare del tempo confondendolo con il suo metro? – raccontava J.J., imitando la voce del suo amico cervellone.

Come se volessimo capire un uomo dall’altezza. Certo se si trattasse di un gigante potremmo dedurre che giochi a pallacanestro, mentre se avessimo di fronte un nano lo potremmo immaginare sul libro paga di un circo. Ma già se ci spostiamo ai molto più frequenti casi intermedi, basandoci solo sulla loro statura, avremmo grosse difficoltà ad indovinare la sola attività che svolgono. Figuriamoci a voler solo azzardare una lettura del loro cuore. E lo stesso facciamo con il tempo.

Ci illudiamo di concepirne la dimensione quantitativa e non ci accorgiamo che la profondità del tempo ha la stessa consistenza di quella che vediamo in un quadro grazie alla prospettiva.

Vogliamo essere al centro e non ci avvediamo che con la confusione che facciamo tra il tempo e i patetici tentativi di misurarlo, ci releghiamo da soli ai margini, sfiorando appena il passaggio della vita. Lavoriamo, ore, giorni, anni. Ma cosa abbiamo fatto non ce lo chiediamo minimamente e il non saperlo ci condizionerà anche nei nostri progetti, tutti ancorati in qualche modo al quanto: risparmi da accumulare, anni di lavoro per poter finalmente andare in pensione, arrivata la quale, la tanto agognata libertà non farà che firmare nuovi tabulati contabili, seppur con oggetti diversi: posti da vedere, in cui scrivere cartoline al riparo dalla benché minima conoscenza dell’anima di quella città che visitiamo, secondo spasmodiche tabelle di marcia. Nipoti da arruolare nell’esercito di una felicità valutata in proporzione diretta alla prolificità degli spermatozoi e delle ovaie dei nostri discendenti, prescindendo dall’esistenza di uno scambio dovuto alla diversità generazionale, potenzialmente feconda come tutte le diversità. Fino ad arrivare al punto più alto del libro mastro, in cui si guarda alla propria vita come progressiva composizione di un asse ereditario. Il quale rappresenta la migliore garanzia, maestoso o misero che sia il patrimonio, per perpetuare aldilà della morte, la contabilità della vita.

Fissiamo dell’anello il cerchio che riluce, facendoci abbagliare dal metallo prezioso e non il vuoto al centro e le sue infinite possibilità che ci apre.

La cosa più incredibile è che noi stessi sperimentiamo quanto poco ci dicano i nomi che diamo al tempo, ma non impariamo dalle esperienze fatte. Ci raccontiamo vicendevolmente di quei minuti di sofferenza che sembravano non passare mai. Ci diciamo: sembra ieri che mia madre mi diede quel bacio – mentre ci asciughiamo gli occhi raccontando di un giorno ormai lontano.

Un elastico dalle infinite possibilità, la nostra percezione del tempo. Pezzi di vita che hanno un cronometro interno del tutto indipendente e che si fa beffe dell’unico che vogliamo loro imporre.

Da bambini ci immergiamo nel tempo del gioco e ci sembra senza limiti. Anche da adulti viviamo momenti molto simili, quando il nostro tempo brucia liquefacendosi nel crogiuolo dell’Eros.

E quella totale irriducibilità del tempo ad una uniforme contabilità, si moltiplica poi nella calcificazioni del ricordo e nello vaporosità dei sogni. L’uno, tanto rigido nella sua forma fissata per sempre, quanto inadatto a manifestare le sue reiterate resurrezioni, nella stessa moneta temporale del presente, in cui di volta in volta riemerge. L’altro, tanto privo di forma quanto completamente sottratto alla sovranità del tempo cosciente.

J.J. a questo punto parlò nuovamente con il suo tone di voce, ricordando che lo scrittore volle sciacquarsi la gola con il torcibudella.

Cosa cambia se la mia vita con Maria durerà 70 ore o 70 anni, si chiede Robert Jordan – riprese J.J. di nuovo con voce alterata. È possibile vivere una vita piena in settanta ore come in settant’anni, posto che uno abbia vissuto pienamente. Lui ha Maria ora. E se “ora” dura settanta ore o settanta anni, non cambia nulla. Quello che ha importanza, conclude il nostro Inglés, è la fortuna di amare qualcuno. Una fortuna, caro amico, che non necessariamente si avvera, anche se nel destino c’è scritto settanta o novanta o centotrenta anni.

E J.J., rientrando di nuovo in sé stesso, raccontò che a quel punto dopo aver buttato giù altri due bicchieri e aver fatto un fischio al merlo che aveva in una gabbia e che prontamente rispose, il tizio si alzò per prendere un libro con la copertina in parte strappata e con macchie d’unto. Risedendosi passò a lui il libro, dicendo che non c’era granché da aggiungere per quel giorno, invitandolo a leggere a partire da dove indicava l’unghia lunga del suo mignolo. J.J mi ripeté parola per parola quello che aveva letto, come se stesse in trance o come un bambino che dice la poesia di Natale a memoria.

[…] Poi furono insieme così che mentre la lancetta si muoveva, invisibile adesso, sull’orologio, seppero che niente poteva accadere mai più a uno di loro senza che accadesse all’altro, che nient’altro poteva mai essere più importante di questo, che questo era tutto e sempre; questo era il passato, e il presente a qualunque cosa fosse per venire. Questo non avrebbero dovuto averlo, eppure l’avevano. L’avevano ora e prima e sempre ed ora ed ora ed ora. Oh, ora, ora, ora, quest’ora solo, e soprattutto ora, e non c’è altro ora che tu che tu, ora, e ora è il tuo profeta. Ora e per sempre ora. Vieni ora, ora, ora, perché non c’è altro ora che ora, sì, ora. Ora, per favore, ora, ora solo, nient’altro, solo quest’ora, e dove sei tu e dove sono io e dove è l’altro, e non il perché, solo quest’ora; e ancora e sempre, per favore, e poi sempre ora, sempre ora, a partire da ora sempre lo stesso ora: uno soltanto. Non c’è che un solo ora, un solo, che ora va, ora si solleva, ora veleggia, ora ricade, ora turbina, si gonfia, ora ti lascia, ed è sempre ora, sempre, sempre ora. Uno ed uno è uno, è uno, è uno, è uno, è sempre uno, sempre uno: uno con condiscendenza, uno con dolcezza, uno con tenerezza, uno con bontà, uno con felicità, uno per amare, uno ora sulla terra con i gomiti sui rami di pino che hanno fatto da letto questa notte, con l’odore dei pini e della notte; definitivamente sulla terra ora, e con l’alba del giorno a venire. E poi, egli disse, poiché tutto il resto era solo nella sua testa e non l’aveva detto: ‘Oh Maria’ disse ‘io ti amo e ti ringrazio per questo’ […]

Dopo qualche secondo, J.J. riassunse il suo sguardo abituale. Mi disse di aver chiuso quel libro con molta cura e che se si fosse polverizzato, non si sarebbe meravigliato, dato il suo stato malconcio.

Continuò raccontando che dopo qualche minuto di assoluto silenzio in cui anche il merlo parve smettere persino di respirare, il tizio, bevve il fondo del bicchiere ed emise raucamente:

Bastardo trombone. Avrei proprio voluto scriverlo io.

J.J lo sentì bofonchiare con gli occhi semichiusi e la mano tesa a fargli capire che rivoleva il libro. Poi gli riempì il bicchiere dandogli giusto il tempo di buttare giù un po’ di quel torcibudella che lui tracannava come fosse orzata, prima di invitarlo ad andar via.

Ma…hai un impegno? – gli chiese J.J. sorpreso.

Sì, con il letto - disse il capoccione, alzandosi.

Ma sono appena le sette

Forse per te. Per me è l’ora di dormire. Ho sonno e anche voglia di sognare, se ci riesco. Mi piacerebbe sognare fino a quando non sentirò la fame mettermi in subbuglio le viscere.

Strozzandosi dal ridere J.J., concluse il racconto dicendo che, rimasto solo col merlo, ripensò a tutto quel che aveva ascoltato. Sbatté eccitato le mani sulle gambe, pensando che forse aveva capito solo una parte di quello che aveva detto quell’ubriacone figlio di puttana, ma non gli importava. Era come se gran parte del senso del discorso, non fosse passato per il cervello, ma fosse penetrato da altre entrate. Il senso lo aveva sentito, più che capito.

Calmatosi, J.J. mi guardò con aria di cospiratore. Lasciò passare uno degli infermieri che lui chiamava il Caino, e mi fece:

Avresti una mezza cicca?

Io stetti al gioco e gli sussurrai all’orecchio:

No…non ho mezza cicca. È passato da un bel pezzo il tempo delle mezze cicche per me… Se vuoi ne ho una intera. Prendi.

Ma lui aveva già alzato le mani in segno di diniego dicendo: No grazie, una intera mi farebbe male.

Allora io gliela spezzai in due e dissi: Tieni, così ce l’hai anche per domani.

Caino fruga, lascia perdere.

Allora prendine solo metà.

E lui, dopo qualche secondo, allungò il suo manone in cui la mezza cicca quasi scompariva e disse:

A patto che la seconda la fumi tu e non la getti. Il tempo delle mezze cicche farebbe bene a non passare mai.

E aveva di nuovo quel sorrisino un po’ folle mentre lo salutai sotto l’arco della porta, a cui si manteneva instabile come sulle corde dopo una sferragliata di pugni. Disse ciao come se avesse detto addio, come al solito, forse per starmi un po’ addosso, per fargli visita più spesso. E per raggiungere questo obiettivo, il vecchio pugile, che aveva combattuto sempre lealmente in ben 107 incontri, era pronto anche ai colpi bassi. Ma io non me la prendevo più di tanto. Non ero io il suo avversario, ma la solitudine.

Il colpo sotto la cintura partì come di consueto mentre ero ormai alla macchina.

L’altra volta ti è andata bene cazzo! Ma sta’ attento, potresti trovare il letto vuoto la prossima che decidi di venire qui. O peggio, potresti trovare al mio posto un vecchio barbagianni o una vecchia checca che ti mette le mani sul pacco, ah ah ah.

Rise. Soffocandosi.

La tosse la sentii fino a quando chiusi lo sportello.

Fine match - Epilogo

Bobby, Bobby. Perché non hai fatto salire Tom sull’ambulanza? Non hai smesso un attimo di parlare ed io vorrei proprio approfittare del ronzio dei macchinari per scivolare in un bel sonno.

Ma poi, quella mano sul braccio e la tua aria da comandante dei Marines che consola uno dei suoi uomini in un tragico finale da film. Te l’hanno detto, no, che devo fare esami più approfonditi – è la routine – ma che il peggio si può già escludere? Sono cosciente Cristo! Non ho formicolii strani. E l’unica cosa che mi dà fastidio sei proprio tu.

Scommetto che se solo rimanessi in silenzio per pochi minuti, riuscirei ad appisolarmi. Lasciami chiudere gli occhi Bobby, dai.

Sì, lasciami solo con questo cicalio elettronico, il caldo di questa coperta, la voglia di chiudere gli occhi…

Helen.

Helen, nella penombra del piccolo disimpegno all’ingresso. L’adagiarsi metallici delle chiavi su un mobile, forse eredità di trisnonne.

Vuoi bere

La goccia scava un canale nella condensa esterna sul vetro della bottiglia e in quella striscia vedo il viso di Helen appoggiato sulle mani congiunte, che tiene sul tavolo, guardandomi da giù a su, sorridendo.

Ne vuoi ancora

No

Ti è passata la sete

No

E ride. Di gola.

Solo per pochi secondi riesco a trattenere le sue dita, che ora fanno leva sul tavolo per spingere il corpo nella posizione eretta. La sua scia di pulito mi porta in una stanzina sovraccarica di roba: libri, foto, soprammobili.

La puntina dopo un po’ di esitazione diffonde il suono sommesso della tromba di Chet, che infila fin dove è possibile arrivare con delle note la sua Tenderly, in posti così intimi che non sapevo di avere.

È la musica che guida adesso, quello che sentiamo. Dà i tempi. Bisogna solo assecondarla per riuscire dove entrambi vogliamo.

Helen, il suo odore, quei capelli nella mia bocca, Chet bastardo che insinua teneramente il suo monologo, che non risolve il problema di Jack e il suo giaciglio di cartoni, la sua personale interpretazione del nascondino che gioca con lo sceriffo. Non farà cadere la pioggia, quella nota che incrina il mio essere fino al sopportabile e dopo c’è solo il pianto ma io non voglio adesso che Helen veda quei miei occhi come li vedeva mia madre, poveri e inconsolabili, no non farà cadere la pioggia che attende Mike per le sue insalate che si seccano come carcasse di bisonti nel deserto – e neanche mio nonno ricorda un periodo così lungo di siccità – né aiuterà il marito di Louise a trovare lavoro e a far spostare il suo corpo di disoccupato dal bancone del bar ad un posto di guardiania o in piedi tutta la giornata vicino un ascensore con un perenne viavai di uomini e donne indaffarati o a scaricare scatoloni in un magazzino, no, non riuscirà nel miracolo chiesto tutti i giorni da Louise che ha le ginocchia ormai appiattite e livellate come la superficie delle panche della chiesa, su cui prima di iniziare a pregare esala un sospiro di sollievo perché avrà cinque minuti di riposo e potrà coprire il buco della calza sinistra che la fa camminare in modo strano per nasconderlo agli occhi di chi la incrocia.

No. Non cambierà questa gabbia di matti che è il mondo, seduto su bombe che ne ridurrebbero tutti i colori al grigio di una polvere post-atomica che si alza in mulinelli offrendo l’unica traccia di vita dopo l’apocalisse nucleare – dicono che forse solo gli scarafaggi sopravvivrebbero.

No. Non cancella il fatto che l’argentino ha frantumato Jones e sembra che mi guardi da quel poster che ha appeso Bobby perché ce l’abbia sempre davanti, perché non me lo dimentichi neanche per un istante.

No.

Ma, ora, qui, quel liquido che sembra scendermi lungo la schiena, che mi solletica la pelle, che drizza i peli, quella scossa che mi fa tremare un po’ la mascella e battere i denti come al freddo nonostante inizi a sudare in questo maggio che penetra dalla finestra socchiusa con l’odore della lavanda frammisto alla noce moscata che la portiera del palazzo di Helen usa in abbondanza, mi esclude da tutto il resto. Mi pone in un illimitato e ingovernabile presente. Mi sottrae da qualsiasi legame che non sia questo. Mi riporta ai battiti di un’età primordiale, rapidi e duraturi nel contempo.

E io chiudo gli occhi.

E non penso più.

Fine del racconto

02/09/2017 | Copyleft © Tutto il materiale è liberamente riproducibile ed è richiesta soltanto la menzione della fonte.

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L'Autore

Sergio Cimino
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