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L'austerità non è la causa della crisi

Cari compagni,
come noto viviamo immersi nella società dello spettacolo, come l’ha definita Debord, o dell’immagine, come preferisce chiamarla Pepino, dove la comunicazione ha il primato sui valori reali e le parole, di conseguenza, contano più della realtà.


L'austerità non è la causa della crisi

Cari compagni,
come noto viviamo immersi nella società dello spettacolo, come l’ha definita Debord, o dell’immagine, come preferisce chiamarla Pepino, dove la comunicazione ha il primato sui valori reali e le parole, di conseguenza, contano più della realtà.

Veicolando i mass media, talvolta anche nostri, il messaggio che sono le politiche di austerità la causa della disoccupazione, della miseria crescente e della crisi, chi ci ascolta e riceve detto messaggio, può pensare che con una politica di investimenti pubblici tutto andrebbe bene: ci sarebbe sviluppo, ripresa dell’occupazione e benessere.
Noi del PRC abbiamo sin dall’inizio sostenuto, specie con gli studi di Giacché, che la crisi capitalistica attuale trova la sua spiegazione di fondo nella caduta tendenziale del saggio di profitto legata anche ai mutamenti strutturali nella composizione organica del capitale; ed abbiamo spiegato che essa, la crisi capitalistica, si origina nella sfera della produzione con l’attacco ai salari ed all’occupazione per tentare di contrastare la caduta del saggio di profitto e che la bolla finanziaria e la devastante crisi che ne è seguita, è stata un epifenomeno, così come la febbre, dice Marx, è sintomo non causa della malattia.
Non è stata quindi l’austerità la causa della crisi; ed abbiamo detto – con le analisi fatte in particolare da Ferrero – che, anzi, essa è stata ed è usata dalle forze capitalistiche per regolare i conti fino all’ultimo con il movimento operaio, abolendo tutte le conquiste da esso realizzate nella fase di sviluppo dell’accumulazione capitalistica. (Ultimo atto, fortemente simbolico, l’abolizione dell’art. 18, cui oggi la cgil - che assieme agli altri sindacati collaborativi alcuna opposizione aveva fatto contro le politiche di abbattimento dei diritti dei lavoratori da parte dei governi Berlusconi e Monti, sembra voler schierarsi contro.
Con scarsa fiducia, però, da parte dei lavoratori, che sono memori del suo passivo comportamento passato, e sanno anche dell’accordo reazionario da essa firmato il 10 gennaio 2014 sulla rappresentanza).
Pertanto, se è corretta l’analisi da noi fatta sulle cause della crisi, è contro le forze capitalistiche che deve essere organizzata la lotta per uscire veramente fuori dall’austerità e porre fine alle fatiche di Sisifo, cui ci siamo per lungo tempo erroneamente sottoposti con le politiche di centrosinistra e con l’aver sposato teorie keynesiane e programmi di capitalismo di Stato.
E dobbiamo farlo per perseguire l’obiettivo, che abbiamo detto essere nostro, della rivoluzione socialista. E ricordo che recentemente Tonino Perna, un intellettuale che stimo molto, ha retoricamente osservato che ‘ci sarebbe da domandarsi come è possibile che un sistema economico fallimentare, che crea povertà crescenti nelle’era dell’abbondanza delle merci e delle tecnologie (v. sul punto Ferrero), che crea insicurezza economica e sociale nella maggioranza della popolazione, non venga rovesciato’.

C’è un altro punto essenziale da considerare.
Secondo l’analisi fatta da storici molto seri, come Braudel, Hobsbawm e oggi Sassoon, siamo da tempo in presenza del declino del capitalismo USA ed europeo.
Un grande studioso di scienze sociali ed in particolare della storia del capitalismo, Giovanni Arrighi, di formazione marxista, ha – come ricordato da Benedetto Vecchi – fatto nella sua opera, ‘Il lungo XX secolo’, un’analisi sulla lunga durata dello sviluppo economico, spiegandone l’andamento ciclico. Con la precisazione che ad una fase aurorale, che pone le basi di un’egemonia economica e politica di una realtà locale, ne segue una espansiva, che pone un rapporto di interdipendenza tra il centro dello sviluppo e le zone di influenza, che vengono plasmate in base ai vincoli posti dalla crescita economica.
È all’azimut del ciclo, da lui chiamato sistemico, che si manifestano le contraddizioni, i limiti di quel modo di produzione egemonico, e quindi la crisi.
Ed è in questa contingenza che, marxianamente – commenta Vecchi – la finanza diviene momento di stabilizzazione (v. tesi di Marx e la diffusione fattane da Giacché), di gestione della crisi, senza che però possa arrestare il declino del centro del sistema-mondo che quel ciclo ha prodotto. La crisi non coincide mai, tuttavia – Egli spiega – con la fine di un modo di produzione, bensì con una sua trasformazione coincidente con uno spostamento «geografico» del centro dello sviluppo economico.
Tratteggia ed illustra mirabilmente questa sua tesi, parlando dell’ascesa, nel XIV secolo, di Genova, e poi di Venezia. La quale quando arriva al massimo del suo splendore, inizia il suo declino. E quindi emerge l’Olanda come paese egemone del capitalismo storico; e poi l’Inghilterra.
Con il Regno Unito – Egli dice – inizia il terzo ciclo sistemico del regime di accumulazione capitalistico, che si concluderà solo negli ultimi anni del Novecento, con la crisi del 1973, anno totemico per indicare l’inizio del declino statunitense. Gli USA, in verità, soprattutto dopo aver sancito nel 1971 la fine della convertibilità fra dollaro e oro, avevano rinunciato a rappresentare gli interessi generali della intera classe capitalistica mondiale, per badare solo alla crescita delle attività capitalistiche localizzate entro i propri confini. E, quindi, avevano smesso, cioè, di essere “egemonici”, come spiega Arrighi, usando una categoria gramsciana. Essi hanno perso il primato nel campo industriale, passando dal 50% della produzione mondiale nel 1946 a meno del 20% circa oggi, e con un debito enorme, in gran parte in mano alla Cina. Come accadde alla Gran Bretagna, che nella seconda metà dell’ottocento perse il primato industriale superata dagli USA e dalla Germania.

Ma, l’essere divenuti una potenza economica declinante (lo spiega anche Sergio Romano nel suo libro ‘Il declino dell’impero americano’) rende gli USA più temibili e pericolosi, in quanto, per conservare l’egemonia, puntano tutto sulla loro indubbia supremazia nel campo militare. Un altro noto economista, Walt Witman Rostow, parlando anch’egli delle ‘tappe’ della crescita e del declino dei paesi capitalistici, sostiene che i tassi di crescita delle economie occidentali (USA - Europa) non raggiungeranno quelli di Cina e India, che costituiscono il nuovo centro dominante del capitalismo mondiale. Tonino Perna scriveva nell’agosto scorso, sulla scia del pensiero di Arrighi, ma senza citarlo, che ‘le società occidentali a capitalismo maturo (Usa ed Europa) sono entrate nel grande lago della stagnazione, ... della lunga stagnazione/recessione’. Osservo che in questo scenario, pensare di risolvere – nell’ambito della società capitalistica – il problema della disoccupazione dilagante (oltre 18 milioni di senza lavoro nella zona euro) e del debito pubblico è praticamente impossibile.

In Italia si calcola una perdita di oltre il 30% dell’apparato industriale.

Ed i dati e gli indici più recenti sono negativi, in tutta Europa. Trattasi quindi, come ha spiegato Arrighi, e sostenuto dagli storici che ho sopra richiamato, di un declino storico inarrestabile. Ebbene, se questa analisi è, come ritengo, corretta, diventa illusorio – come abbaiare alla luna – pensare di combattere, con mere manovre di distribuzione del reddito e nuovi investimenti, l’uscita di quasi tutta l’Europa dal centro dell’accumulazione capitalistica e la sua messa ai margini del mercato mondiale in conseguenza della nuova divisione internazionale capitalistica del lavoro.
Anzi, consapevoli di ciò, dovremmo come PRC approfondire l’analisi e capire come di questa crisi si possa approfittare per capovolgere qui, nella realtà in cui operiamo, i rapporti di forza fra borghesia e proletariato tutto, manuale e cognitivo. Così come fecero in Russia i rivoluzionari bolscevichi in una realtà certo diversa, ma pur lì in un paese stremato dalla guerra ed in crisi, e non certo al centro, bensì alla periferia, dell’accumulazione capitalistica.

Dicevo a Roberta Fantozzi, che aveva dato l’adesione del nostro Partito ai referendum antiausterità, che l’operazione di un “risanamento” del sistema è riuscita al capitalismo italiano negli anni ’30, in una fase diversa della sua storia, con Beneduce e la creazione delle Partecipazioni statali, sostenuta anche da Raffaele Mattioli della Banca Commerciale; e, aggiungevo che dalla crisi del ’29 il capitalismo uscì fuori solo con la guerra, cosa che anche Tronti riconosceva, prima di entrare in crisi regressiva.

Padova 14 ottobre 2014

Luigi Ficarra

13/12/2014 | Copyleft © Tutto il materiale è liberamente riproducibile ed è richiesta soltanto la menzione della fonte.

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