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Flessibilizzare stanca

La perdita della sicurezza del posto di lavoro toglie la possibilità di progettare a lungo termine, implementando il senso di smarrimento e la paura per il futuro


Flessibilizzare stanca Credits: https://www.scuolainforma.it/2020/05/22/manifestazione-nazionale-scuola-domani-23-maggio-2020-comunicato-stampa-cnps.html

La concezione apologetica della flessibilità, diffusa dall’ideologia dominante, si è incrinata negli ultimi anni, in cui sono emerse le contraddizioni e le problematiche dei nuovi lavori flessibili e la flessibilità è stata progressivamente identificata con il precariato. In altri termini, le possibilità di realizzazione professionale aperte dalla flessibilità sono state progressivamente frustrate dall’incertezza della continuità occupazionale e retributiva. La perdita della sicurezza del posto toglie la possibilità di progettare a lungo termine, implementando il senso di smarrimento e la paura per il futuro. L’incertezza quotidiana di chi ogni giorno deve rimettersi in discussione, comporta spesso una vita di ansie e incertezze, nel vano tentativo di controllare forze sulle quali non si ha nessun potere. Vi sono frange sempre meno minoritarie della popolazione convinte di essere lasciate ai margini dello sviluppo sociale. Il rischio separa, esclude, stigmatizza, al punto che le persone o i gruppi che diventano (o sono fatti diventare) "persone a rischio" o "gruppi a rischio" sono considerati come non-persone, i cui diritti fondamentali sono minacciati. Dall'analisi delle dinamiche di esclusione ed emarginazione che riguardano gli individui nella cosìddetta società post-moderna emerge sempre più che la precarietà tende a essere vissuta come uno stigma che condiziona il proprio stare in società, poiché porta a una "disaffiliazione sociale", sino a credere di appartenere a una underclass condannata all'invisibilità e al silenzio, dal momento che la cittadinanza rimane ancora plasmata sulla figura del lavoratore a tempo indeterminato [1]. Tanto più che nel capitalismo flessibile nessuno è utile come individuo, tutti sono interscambiabili ed eliminabili, il che ingenera una crisi del senso di appartenenza al gruppo, alla comunità.

I lavoratori flessibili sono costretti a inseguire i repentini e imprevedibili mutamenti economici, impossibilitati a reggere il ritmo degli incalzanti cambiamenti, angosciati dal futuro e dalla paura di non farcela. Ciò comporta un indebolimento della posizione del singolo, l’incapacità di proiettarsi nel futuro e pianificare la propria esistenza. La precarietà porta un numero crescente di persone a lavorare per ottenere condizioni di esistenza ridotte al minimo, senza tempo da dedicare ai figli, senza modelli stabili da trasmettere, senza la possibilità di elaborare una narrazione personale e lavorativa che abbia uno sviluppo coerente e consenta di costruirsi un'identità passabilmente stabile.

Diversi recenti studi hanno mostrato le problematiche, a partire dai rischi per la salute dei lavoratori, legati alle nuove forme di organizzazione del lavoro: temporaneo o a progetto, prestazione d'opera, finto lavoro "in proprio" e outsourcing. Del resto, persino uno studio commissionato già dieci anni fa dell’Agenzia europea per la sicurezza e la salute sul lavoro ha mostrato come un’occupazione precaria prolungata accresce “la sensazione di insicurezza e marginalità, provocando l’incremento di stress e preoccupazione, con rischi per la salute molto gravi”. La ricerca riscontra, inoltre, la connessione tra lo scarso equilibrio della vita professionale e quello della vita privata e famigliare e un legame fra la maggiore competitività sul luogo di lavoro e gli episodi di bullismo e molestie. Ma oltre a ravvisare un legame tra i nuovi pericoli per i lavoratori (soprattutto lo stress e le conseguenti malattie psicosomatiche) e i nuovi equilibri economici e organizzativi, lo studio sottolinea anche la frequente esclusione dei lavoratori precari dai tavoli sindacali su salute e sicurezza e il minore accesso (o del tutto assente) ad attrezzature e strumenti di protezione. Un altro aspetto riguarda i carichi di lavoro: le statistiche europee indicano che oltre metà degli occupati lavora a ritmi molto elevati. Se si aggiungono le costanti preoccupazioni di perdere il lavoro e di non arrivare alla fine del mese, la diagnosi è molto seria: il lavoro precario fa male alla salute. Le interruzioni tra un contratto e l'altro rappresentano, infatti, una discontinuità della responsabilità legale del datore di lavoro. E questo, secondo gli esperti, finisce per essere un ulteriore elemento di malessere. I risultati di tale sistema si traducono, dunque, in condizioni fisiche di lavoro peggiori e in un maggior carico d'impiego, i cui effetti vanno dagli incidenti più frequenti, all’insicurezza psicologica e a stress eccessivo cui possono seguire gastriti, disturbi cardio-circolatori, problemi nervosi. L’aumento delle patologie da ansia, nei paesi anglosassoni e negli Stati Uniti in particolare, ha raggiunto dei livelli preoccupanti.

Un’occupazione precaria favorisce, quando non provoca, inoltre, una “destrutturazione” spaziale e relazionale, con lo sgretolamento della percezione temporale, che rende arduo allacciare rapporti interpersonali non frammentari e discontinui e di stabile solidarietà [2]. Ciò impedisce di strutturare quella narrazione di sé e che è alla base del processo di acquisizione identitaria che si costruisce (ormai è assodato) anche attraverso il lavoro e il riconoscimento degli altri, all’interno di determinate etichette sociali. Ne consegue una difficoltà "narrativa" che, se può essere non avvertita, o superata con facilità nei momenti di benessere, rende il soggetto estremamente vulnerabile in corrispondenza dei momenti di crisi. Le implicazioni di tale problematica sono molteplici, ingenerando, ad esempio, la difficoltà di costituirsi in "noi" a favore di un "io", peraltro sempre più debole.

La soggettività divenuta estremamente vulnerabile per uscire da tale impasse ricorre sempre più all’autonarrazione quale forma terapeutica, come mostra il proliferare di reality book, reportages, blog e interviste sulla vita da precario, a partire dal successo internazionale di Generazione mille euro [3]. Al di là del tono scelto che va dal tragico all’ironico e all’autoironico, al centro di queste storie vi sono generalmente l'incertezza del futuro e la conseguente impossibilità di fare progetti a lungo termine e la sproporzione fra potenzialità, aspirazioni e le mansioni effettivamente svolte. E se nei reportages e interviste di Aldo Nove pubblicati da Einaudi (Mi chiamo Roberta, ho quarant'anni....) si impone l’ampio ventaglio di tipologie contrattuali e nel diario di un call-center di Michela Murgia (Il mondo deve sapere, Isbn) e di Katrin Röggla sui precari di “successo” (Noi non dormiamo, Isbn) emerge con limpidezza il sentimento amaro di chi quotidianamente sperimenta sulla propria pelle il peso del precariato. Esperienze analoghe si trovano d'altronde anche nei tanti blog presenti su Internet che raccolgono racconti in prima persona di ordinaria precarietà. Ma il rischio di questa proliferazione editoriale e di diari digitali è di restituire un'immagine tutto sommato “rassicurante” della precarietà, perché se gran parte dei “giovani” svolge un lavoro precario vuol dire che questa è ormai la regola.

Occorre, infine, menzionare l’immaginario simbolico della comunicazione socio-politica. A essa si è legata l’estetizzazione delle lotte contro la precarietà, che ha rinnovato profondamente l’“estetica della contestazione”. In altri termini, negli ultimi anni si è assistito al tentativo di dare una veste estetica – in chiave ironica e autoironica – alla condizione di precarietà, per farne emergere gli aspetti contraddittori e negativi, a opera di giovani precari che denunziano la propria condizione di vita. Si è parlato a questo proposito di un’autorappresentazione estetizzante della precarietà che si è espressa nelle processioni per la Beata Assunzione (riconquistare le condizioni precedenti di sfruttamento) e nell’iconologia di San Precario, patrono dei lavoratori atipici, invocato contro caporalato, infortuni e mobbing. Tali forme creative di protesta hanno trovato espressione nelle forme più diverse, dalle più estreme dei riots nelle banlieu, alle sfilate delle may day – che rivaleggiano in creatività con i Gay pride – e hanno iniziato a diffondersi in Europa. In tal modo, si esprime anche, contraddittoriamente, il proprio orgoglio di status sociale, in quanto si fa una tale fatica ad arrivare a fine mese, che si finisce con l’essere fieri di riuscirci.

Note:

[1] Le agenzie per il lavoro interinale sottolineano due fattori indispensabili per essere “collocati” in una impresa: la duttilità, pardon, la flessibilità degli aspiranti “interinali”, dal momento che la disoccupazione sarebbe una faccenda dovuta alla poco intraprendenza di chi è senza lavoro. Poco conta se le offerte sono dieci giorni in un posto, una settimana in un altro, il periodo natalizio a tagliare prosciutto in un altro ancora. Questo è solo l'inizio, poi con l'esperienza fatta si può aspirare a qualcosa di meglio. E se poi manca la formazione, basta frequentare un bel master offerto alla modica cifra di mille, due, tre mila euro che rilascia un bell'attestato da mettere nel proprio curriculum.

[2] Il grande serraglio-azienda diviene, così, il luogo supremo dell'incomunicabilità.

[3] Incorvaia, A., Rimassa, A., Generazione mille euro, Rizzoli, Milano 2006. Le storie dei protagonisti del romanzo continuano nel loro blog www.generazione1000.blogspot.com/). È stato, prima di essere pubblicato, il primo “reality book” distribuito gratuitamente on line. Dal 13 dicembre 2005 al 13 marzo 2006, in soli 3 mesi, è stato scaricato ben 23.397 volte, suscitando l'interesse non soltanto di tutti i “milleuristi” che ci si sono identificati, ma anche – inaspettatamente – dei più prestigiosi media italiani e internazionali.

 

08/07/2022 | Copyleft © Tutto il materiale è liberamente riproducibile ed è richiesta soltanto la menzione della fonte.
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L'Autore

Renato Caputo
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