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Il mercato del lavoro ai tempi del Jobs Act

Dalle rilevazioni Istat, Inps e Ministero del Lavoro emerge come dall’attuazione del Jobs Act la segmentazione del mercato del lavoro e con essa il precariato si siano accentuate.


Il mercato del lavoro ai tempi del Jobs Act

Difronte alle contradditorie informazioni sull’andamento dell’occupazione che giungono dalle diverse fonti (Istat, Inps, Mdl, Ocse etc.) sembra sempre più complicato formarsi una chiara opinione sugli effetti del Jobs Act. E certo non aiutano le sistematiche strumentalizzazioni governative nella lettura dei dati.

Nonostante la confusione sul tema, tuttavia, non è il caso di disperare né di abbandonarsi a un fatalismo rassegnato o, peggio, alla tentazione di pensare che “qualcosa di buono starà pure accadendo”.

Una volta eliminate le distorsioni del governo e della grancassa mediatica al suo seguito, dai dati emergono infatti alcune chiare indicazioni. Vediamo di sintetizzarle: nell’insieme si tratta di sottolineare nuovamente i modesti effetti sulla dinamica dei nuovi occupati e, per altro verso, il ruolo giocato dal Jobs Act, dopo diversi anni di crisi, nell’ulteriore deterioramento della qualità dell’occupazione.

Sul primo punto c’è poco da dire. In effetti, il governo è rimasto solo a magnificare i risultati della riforma. Dall’UE, all’Ocse e fino alla BCE sono arrivati nelle ultime settimane chiari segnali di un netto ridimensionamento della capacità di stimolo alla crescita occupazionale: l’incremento dei posti di lavoro in Italia, nel bel mezzo della presunta “rivoluzione copernicana”, è stato debole e inferiore a quello degli altri paesi dell’UE, deludendo così le attese.

Beninteso, nessuno degli organismi e istituzioni citate manca mai di rinnovare l’appoggio al Jobs Act. Anzi! Ma questo è piuttosto ovvio: è perlomeno dagli inizi degli anni novanta che nella loro agenda di riforma del mercato del lavoro italiano e europeo l’Ue, la BCE e l’OCSE promuovono molte delle iniziative centrali nella riforma del governo Renzi, prima fra tutte la definitiva eliminazione di qualsiasi protezione contro i licenziamenti. Com’è noto, peraltro, le ricette in questione nel tempo non hanno dato alcuna prova della loro efficacia.

Passando al secondo punto, è opportuno soffermarsi su alcuni dati che evidenziano le macroscopiche responsabilità del Jobs Act rispetto alla perdurante perdita di qualità dell’occupazione: da tutte le rilevazioni – Istat, Inps e Ministero del Lavoro – emerge come dall’attuazione della riforma la segmentazione del mercato del lavoro e con essa il precariato si siano accentuate. È cresciuta cioè la quota di lavoratori a tempo determinato; il lavoro si precarizza sempre più anche in virtù del massiccio utilizzo del lavoro accessorio. In tal senso, l’esplosione del fenomeno è documentata dalla inarrestabile crescita nell’utilizzo dei voucher; è cresciuto il lavoro part time, per sua natura lavoro poco qualificato e una delle principali cause della segregazione di genere nel mercato del lavoro; la disoccupazione giovanile rimane a livelli impressionanti e, come emerge dagli ultimi dati Istat relativi ad agosto, la nuova occupazione nei primi otto mesi del 2016 continua a essere concentrata quasi per intero sugli over 50.

Un fenomeno recentemente registrato dai dati del Ministero del lavoro merita una particolare attenzione. Secondo i dati ministeriali relativi al II trimestre 2016, rispetto allo stesso periodo del 2015, c’è stata una riduzione delle nuove attivazioni di rapporti di lavoro pari al 12%. Le attivazioni a tempo indeterminato – volendo classificare così i contratti a tutele crescenti – dal II trimestre del 2015 diminuiscono invece del 29% (del 30% rispetto al I trimestre del 2015, quando prende avvio la riforma). Le attivazioni si riducono anche rispetto al 2014 (-5% rispetto al II trimestre).

I dati del Ministero forniscono poi ulteriori spunti. In primo luogo, nel secondo semestre aumentano significativamente su base annua (+7,4%) i licenziamenti tra le cause di cessazione dei rapporti di lavoro. Mentre diminuiscono le cessazioni per richiesta del lavoratore (-25%). A ciò si aggiunga che, in parallelo con la diminuzione dell’utilizzo di contratti a tempo indeterminato, si assiste a una sensibile crescita delle attivazioni in apprendistato (+26%) che, in virtù delle misure di incentivo previste – tra l’altro - dal programma Garanzia Giovani, godono di sostanziosi bonus per le assunzioni. Il collegamento tra i due fenomeni appare chiaro: si tratta di una strategia di risparmio (salariale e contributivo) da parte delle imprese, con un effetto di sostituzione dei contratti a ‘tutele crescenti’ in una fase in cui gli sgravi per le assunzioni si sono notevolmente ridotti.

Il riferimento al programma GG ci consente di approfondire alcuni interessanti aspetti. Com’è noto GG è il più importante (e costoso) esempio di politica attiva del lavoro; ossia un esempio di quelle politiche che dovrebbero puntare a formare, aggiornare e rendere “occupabile” il lavoratore disoccupato. È altrettanto noto come la forte enfasi sulle politiche attive, al pari della già citata richiesta di eliminazione delle protezioni contro i licenziamenti ingiustificati, sia ormai da decenni un cavallo di battaglia delle politiche dell’Ue e dell’Ocse. La stessa enfasi è andata di pari passo con la richiesta, che purtroppo ha trovato anch’essa puntuale riscontro nei governi europei, di riduzione delle “politiche passive”. Insomma, più politiche attive e meno sussidi di disoccupazione.

Inutile dire – perché esperienza comune di chiunque si sia trovato inserito in percorsi di “attivazione” – che le politiche attive, in particolar modo in una fase di elevata disoccupazione come l’attuale, non hanno avuto alcuna capacità di migliorare la condizione dei milioni di disoccupati italiani. E ciò è facilmente comprensibile: quando il numero di posti vacanti rappresenta una percentuale irrisoria rispetto al numero di disoccupati le politiche attive a poco servono. O meglio, date tali condizioni, la qualificazione dell’offerta per una domanda di lavoro inesistente finisce per essere utile solo alle agenzie di formazione che ricevono enormi flussi di finanziamento pubblico.

A vedere i risultati di GG dopo più di due anni dalla sua attuazione questo quadro viene confermato in toto: i contratti di lavoro – spesso precari e che permettono alle imprese che assumono di godere di un bonus occupazionale - raggiungono appena il 5% degli iscritti al programma, mentre una quota assai più elevata di «misure» erogate ai partecipanti si concretizza in tirocini extracurriculari e altre forme di lavoro sottopagato – ovviamente precario - e sovvenzionato con fondi pubblici.

Tirando le somme, non è difficile vedere quali siano le principali implicazioni del Jobs Act: un mercato del lavoro in cui si generalizza la ricattabilità e con essa la disciplina e il controllo sul lavoro. In cui si restringono per i lavoratori i margini di organizzazione e mobilitazione e aumentano sensibilmente, al contrario, i margini per il dispotismo delle imprese. Insomma un quadro caratterizzato dalla chiara volontà di imporre riduzioni salariali, aumenti dei carichi e dell’intensità del lavoro.

D’altra parte è chiaro come tale autoritarismo trovi una sua espressione più propriamente politica (nel senso di statuale) nella riforma costituzionale su cui il referendum del 4 dicembre prossimo ci chiamerà ad esprimerci. Una riforma che non a caso trova il sostegno dell’Ue, dell’Ocse, della BCE etc. etc. Insomma, una riforma che “tutti ci chiedono”.

08/10/2016 | Copyleft © Tutto il materiale è liberamente riproducibile ed è richiesta soltanto la menzione della fonte.

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L'Autore

Marco Elia
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