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Bilancio del 2021

Il bilancio del 2021 è positivo dal punto di vista internazionale, con la crescente crisi dei tre grandi poli imperialisti: Stati Uniti, Unione europea e Giappone. Mentre cresce il peso di Cina e Russia, sempre più vicine fra di loro e alleate con i paesi antimperialisti. Il bilancio è, invece, negativo per quanto riguarda l’Italia, mai come ora, infatti, la campagna per l’elezione del presidente della Repubblica è egemonizzata dalla destra, con la sinistra incapace di proporre un proprio candidato.


Bilancio del 2021

Il 2021 è stato un anno tutto sommato positivo, in quanto è stato caratterizzato da una pesante battuta d’arresto dell’imperialismo statunitense, il più aggressivo e guerrafondaio a livello internazionale. L’anno si è aperto con il clamoroso tentativo dei repubblicani guidati da Trump di rovesciare, con un vero e proprio colpo di Stato, la chiara e inequivocabile vittoria dei democratici nelle elezioni presidenziali. La fine, quanto mai ingloriosa, della presidenza di Trump – forse la più apertamente reazionaria della storia degli Stati Uniti – ha avuto un grande valore simbolico a livello internazionale. L’avanzata delle forze sovraniste, scioviniste e reazionarie a livello globale ha subito, con la sconfitta del suo ariete, una significativa battuta di arresto. Lo stravolgimento nel senso di un bonapartismo regressivo della liberaldemocrazia ha egualmente avuto una battuta d’arresto sul piano internazionale. D’altra parte, proprio il paese impostosi come campione della liberaldemocrazia sul piano internazionale, cioè gli Stati Uniti d’America, hanno subito un evidente scacco alla sua capacità di egemonia sul piano internazionale, con l’attitudine golpista della destra repubblicana che non ha accettato la sconfitta a livello elettorale e ha tentato, sino all’ultimo, di sabotare l’inequivocabile risultato delle presidenziali. Per un paese che da anni ha la pretesa di esportare la democrazia persino con la guerra, che pretende di ingerirsi nella selezione della leadership in ogni angolo del mondo – fomentando contro rivoluzioni colorate ogni qualvolta non vengono rispettati i canoni del sistema liberal democratico – l’assalto al Campidoglio dei seguaci golpisti della destra repubblicana ha comportato una decisiva lesione all’immagine internazionale del paese.

Altrettanto catastrofica per la capacità di egemonia dell’imperialismo statunitense è stata la disordinata fuga dall’Afghanistan, nonostante che i campioni dell’esportazione dei diritti umani su scala globale avessero concordato con gli ultrafondamentalisti talebani una ritirata ordinata e “onorevole”. La guerra infinita al terrore, che era iniziata proprio con la scusa di estromettere dal potere i talebani – considerato il governo più vicino al terrorismo internazionale – si è conclusa con una vergognosa disfatta, analoga sotto diversi aspetti da quella subita in Vietnam. Così gli Stati Uniti, da tempo in crisi dal punto di vista economico, hanno subito due autentiche disfatte dal punto di vista della capacità di egemonia e dello strapotere militare con cui avevano, negli ultimi anni, cercato di compensare la crescita sempre più incontrollata del proprio debito internazionale.

Più in generale, il 2021 ha segnato il complessivo ritiro dell’imperialismo statunitense dal Medio Oriente su cui aveva concentrato la propria aggressività dopo la fine della guerra fredda. Tale abbandono del controllo diretto di questa area decisiva dal punto di vista energetico è dovuto, in primo luogo, alla resistenza incontrata sul terreno – che ha reso antieconomico mantenere l’occupazione militare – in secondo luogo al conseguente venir meno del sostegno interno alla politica di escalation dell’aggressività militare statunitense, che aveva raggiunto il suo apice dopo l’attacco alle Torri Gemelle. Infine, terzo elemento decisivo, che ha comportato il sostanziale ritiro delle truppe di occupazione statunitense dallo scacchiere mediorientale è stata la rinascita dell’alleanza tra Russia, Repubblica popolare cinese e i principali paesi antimperialisti a livello internazionale, dall’Iran al Venezuela. Si è venuto così a creare uno schieramento antimperialista sul piano globale in grado di limitare lo strapotere della più grande alleanza imperialista della storia, la Nato, dopo la dissoluzione dell’Unione sovietica. 

La nuova presidenza statunitense democratica non ha segnato, come era avvenuto in modo clamoroso con Obama, una netta ripresa della capacità di egemonia degli Stati Uniti a livello internazionale. Il vecchio conservatore Biden, anche per il suo continuismo sul piano internazionale con le politiche imperialiste aggressive della destra repubblicana, non ha potuto in nessun modo spacciarsi come un politico giovane e dinamico, in grado di rappresentare la capacità di rigenerarsi dell’imperialismo statunitense per quanto in crisi. 

Certo, dopo i disastri di Trump, Biden è riuscito a ricucire molte delle contraddizioni che si erano venute a creare all’interno della Nato e a attenuare la conflittualità inter imperialistica con l’Unione europea. Ciò ha, d’altro canto, favorito la ricomposizione delle forze prese di mira dalla superpotenza della Nato. Inoltre le pressioni statunitensi non sono riusciti a mettere in discussione gli accordi economici ed energetici tra Russia e Germania. Il ritiro unilaterale dall’Afghanistan, senza nemmeno avvisare i propri partner europei nella Nato, ha fatto riprendere, dopo un periodo di stasi, l’interesse dell’imperialismo europeo a dotarsi di un esercito indipendente dal predominio statunitense esercitato attraverso l’alleanza atlantica. Più recentemente lo sgarbo degli imperialismi statunitense e britannico, che ha fatto saltare la cooperazione militare fra Australia e Francia, ha ulteriormente spinto quest’ultima a farsi nuovamente principale portavoce delle esigenze dell’imperialismo europeo di dotarsi di una autonoma capacità di intervento militare. Tanto più che le deludenti politiche di Biden rischiano sempre più di riportare al governo del paese le forze della destra repubblicana, sempre più egemonizzata da Trump, che – con la sua politica tradizionalmente isolazionista – potrebbe sviluppare ulteriormente le contraddizioni inter imperialiste. 

Infine, tanto l’imperialismo statunitense, quanto quello europeo hanno ulteriormente perduto la capacità di egemonia internazionale nei confronti del proprio concorrente cinese per la gestione catastrofica della pandemia. La completa soggezione dello Stato e delle politica dell’imperialismo occidentale, agli interessi immediati delle grandi imprese, ha portato questi paesi a rinunciare alla efficacissima campagna Covid zero portata avanti dalla Repubblica popolare cinese, divenendo nuovamente il centro di massima diffusione e irradiazione del virus su scala mondiale. L’imperialismo occidentale – per non ostacolare la bramosia di profitti immediati delle grandi imprese monopolistiche – ha puntato esclusivamente sui vaccini. In tal modo non ha fatto nessuna concessione alle classi subalterne, dal punto di vista del salario indiretto, potenziando sanità, istruzione e trasporti “pubblici” e non ha dovuto minimamente limitare il tasso di sfruttamento, riducendo al minimo le spese per garantire la sicurezza sul lavoro ai lavoratori salariati. Peraltro la politica di puntare tutto sui vaccini, ha portato l’imperialismo occidentale a sabotare ogni tentativo da parte dell’Organizzazione mondiale della sanità di una distribuzione, un minimo più equa, dei vaccini anche nei paesi in via di sviluppo. Anche in questo caso le esigenze delle multinazionali dei farmaci occidentali hanno avuto il completo sopravvento sulle necessità di mantenere la capacità egemonica a livello internazionale dell’imperialismo occidentale, spingendo sempre più paesi in “via di sviluppo” a chiedere aiuto agli Stati oggettivamente antimperialisti per tenere testa alla diffusione del Covid.

Da questo punto di vista l’imperialismo europeo è riuscito a dimostrarsi sul piano internazionale ancora più ciecamente egoista e cinico dell’imperialismo statunitense, che ha almeno cercato di salvare la faccia, da un punto di vista essenzialmente formale. Peraltro l’imperialismo europeo non si è ancora ripreso dalla Brexit. La rottura con una delle maggiori potenze imperialiste europee, che ha ancora più stretto la propria alleanza con gli Stati Uniti, non ha favorito nemmeno una maggiore integrazione fra potenze imperialiste e filo imperialiste all’interno dell’Unione Europea. All’ormai consueto doppio gioco della “nuova Europa”, cioè dei paesi ex socialisti, con gli Stati Uniti, si è aggiunto l’aggravarsi del contrasto fra “paesi frugali” e il nuovo asse fra Italia e Francia. Molto dipenderà dal nuovo governo tedesco che – dopo anni di dominio dei conservatori guidati da Merkel – potrebbe riposizionarsi su posizioni meno austere.

La Russia, dopo l’ennesima vittoria elettorale di Putin (anche se, la maggiore forza di opposizione, il Partito comunista, ha avuto una significativa crescita), è riuscita a stabilire buoni rapporti con la Turchia, paese chiave della Nato, ha conquistato posizioni importanti nello scacchiere mediorientale tanto in Siria quanto in Libia e sta mettendo in difficoltà lo stesso dominio francese sulla ex colonia africana del Mali. La Russia continua a portare avanti una politica estera estremamente disinvolta, stringendo alleanze a 360 gradi, tanto con paesi antimperialisti e di sinistra, quanto con grandi partner dell’imperialismo statunitense o con forze politiche dell’estrema destra. Lo scontro decisivo con la Nato riguarda l’Ucraina, uno dei fronti più caldi e pericolosi a livello internazionale. La Russia ha posto come linea rossa il non ingresso anche dell’Ucraina nella Nato.

La Cina ha avuto un enorme successo nella politica di contrasto al Covid e dal punto di vista economico la sua lungimiranza fa sì che, praticamente da sola, consente all’economia internazionale di continuare a crescere. La sua capacità di egemonia sui paesi in via di sviluppo si è ulteriormente rafforzata e ormai è in grado di contendere quasi ogni paese all’influenza degli Stati della Nato. In politica interna si afferma sempre di più una linea tesa a recuperare alcuni aspetti dell’epoca maoista e volta a contrastare e a porre dei precisi limiti al peso delle grandi imprese.

In America latina sono in ripresa le forze della sinistra, in modo speciale nei paesi che erano – sino ad ora – rimasti fortemente legati all’imperialismo statunitense. Nelle prossime elezioni tanto in Brasile quanto in Colombia sono favorite le forze della sinistra, ora all’opposizione di governi di destra filoimperialisti. D’altra parte la sinistra al governo o che si accinge ad andare al governo ha perso le posizioni radicalmente antimperialiste assunte sotto l’influenza del governo Chavez. Il rischio è che i governi di “sinistra” – come si è visto in Argentina, Messico e Bolivia – tradendo le aspettative delle classi subalterne, possano favorire una progressiva ripresa delle forze della destra filoimperialista.

Per quanto riguarda l’Italia, il governo Draghi, con il pieno appoggio di praticamente tutto l’arco parlamentare e dei mezzi di comunicazione di massa, ha gettato la maschera portando avanti politiche decisamente e sfacciatamente classiste tanto da costringere dopo anni Cgil e Uil a proclamare uno sciopero quasi generale. Inoltre Draghi ha anche reso noto il suo progetto ascrivibile al cesarismo regressivo, che porterebbe, di fatto, al compimento del piano della loggia massonica P2, con la controriforma in senso presidenzialista della repubblica “democratica”. Si è, in effetti, proposto come nuovo capo dello Stato, svuotando di valore dopo il parlamento lo stesso governo, che ora potrebbe procedere con il pilota automatico lungo la strada, già tracciata, delle controriforme liberiste.

Dinanzi a questo scenario bonapartista, il Pd, ancora una volta, fa di tutto per dimostrare la propria completa subalternità alla classe economica dominante, presentandosi come il partito di Draghi. Senza contare che il segretario del Pd Letta è riuscito a scavalcare a destra e in cinismo lo stesso Renzi, intento a trattare con Forza Italia e Salvini, cercando di spartirsi il potere con i postfascisti di Fratelli d’Italia, in nome del bipolarismo volto a seppellire il sistema “democratico” proporzionale. Anche i Cinque stelle non hanno di meglio che proporre come presidente della Repubblica Draghi, Mattarella o una donna. Più in generale, tutta la sinistra non ha da proporre una sola candidatura alternativa a quelle della destra, cioè l’ultra liberista Draghi o il populista di destra Berlusconi.

07/01/2022 | Copyleft © Tutto il materiale è liberamente riproducibile ed è richiesta soltanto la menzione della fonte.

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L'Autore

Renato Caputo
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