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Come rilanciare la prospettiva comunista in Italia?

A livello internazionale la classe operaia è in grande espansione rispetto ai tempi non solo di Marx, ma anche di Lenin e di Gramsci. Serve ora un grande partito comunista di quadri che possa condurre con successo la lotta per la conquista della società civile, superando le attuali piccole sette.


Come rilanciare la prospettiva comunista in Italia?

Innanzitutto i comunisti possono essere, a rigore, considerati realmente tali solo se organizzati in un effettivo Partito comunista, ovvero rivoluzionario, da non confondere con le litigiose caricature settarie oggi esistenti in Italia. Perciò, è prima di tutto necessario operare in funzione della costruzione di un reale Partito comunista nel nostro paese, da troppi anni assente. Il partito dovrebbe essere unito innanzitutto dal punto di vista ideologico – dal momento che senza teoria rivoluzionaria non vi può essere prassi rivoluzionaria – sulla base in primis del pensiero di Marx, Engels, Lenin e Gramsci. Perciò, il partito comunista da ricostruire non può che essere un partito in cui ogni militante aspiri, quantomeno, a divenire un quadro comunista, ovvero un’avanguardia riconosciuta come tale dal proletariato e in grado di esercitare – almeno tendenzialmente – la propria egemonia sui ceti intermedi, in primis intellettuali. 

A tale scopo è essenziale un lavoro costante di formazione dei futuri intellettuali organici alla classe proletaria, dato che gli intellettuali tradizionali, di estrazione borghese – che generalmente hanno diretto le organizzazioni proletarie – tendono nei momenti in cui il conflitto si fa duro, a tornare nelle loro classi d’origine, ossia nel blocco sociale dominante, come denunciava già Gramsci. 

Altrettanto importante, come ci insegna la storia della nascita sia del partito di Lenin che del partito di Gramsci è il ruolo che può svolgere un giornale comunista, che riesca a favorire la riorganizzazione delle forze marxiste rivoluzionarie irrazionalmente divise e – anche perciò – impotenti.

A tale scopo occorrerebbe lottare per superare le tendenze settarie e ricostruire un vero e unico Partito comunista all’altezza delle sfide del XXI secolo. A tale fine sarebbe necessario che il processo di ricostruzione del Partito non proceda unilateralmente dall’alto, come è avvenuto, in modo decisamente fallimentare negli ultimi anni. Il più delle volte il presunto e pomposamente definito processo costituente si è risolto nella cooptazione di un gruppo più o meno organizzato di compagni in una micro organizzazione; compagni, peraltro, a loro volta provenienti da un’altra micro organizzazione. In altri casi il processo di riunificazione dei comunisti ha dato vita alla formazione di un ennesimo e – di fatto, scarsamente produttivo – inter-gruppi. Al punto che più di un gruppuscolo, oggi, facendo di necessità virtù ha abdicato all’idea stessa di ricomposizione dei comunisti, mirando direttamente alla costruzione dell’ennesimo e poco produttivo inter-gruppi.

Proprio facendo tesoro di tutti questi abortiti processo costituenti – che hanno contribuito in questi ultimi anni a rendere inaffidabili i comunisti o sedicenti tali agli occhi di oppressi e sfruttati – bisognerebbe invertire il processo di ricomposizione, dando la priorità all’unità d’azione dal basso, piuttosto che all’ennesimo appello con raccolta firme “calato dall’alto”.

Quantomeno, per fare tesoro degli errori del passato, senza autocondannarsi diabolicamente a ripeterli, Il processo di ricostruzione del Partito andrebbe condotto non solo dall’alto – ovvero a partire dagli intellettuali che svolgono funzioni dirigenziali – ma al contempo dal basso, ovvero unificando i comunisti impegnati nel primo e decisivo momento della lotta di classe, quella che si sviluppa nel necessario scontro fra capitalisti e forza lavoro.

Lo stesso processo di unificazione dall’alto deve essere portato avanti senza riproporre forzature organizzativistiche, che si sono rilevate decisamente controproducenti, ma piuttosto attraverso un’ampia fase costituente in cui gli intellettuali comunisti abbiano di mira, in primo luogo, l’unificazione dei decisivi momenti della formazione dei futuri quadri e della stampa comunista.

A questo punto appare però necessario anticipare l’obiezione che lo scettico moderno non potrebbe che porre a chi, come noi, guarda al modello di partito di Lenin, riadattato da Gramsci per i paesi occidentali a capitalismo maturo, ossia l’apparentemente ovvia obiezione che tale modello di partito, incentrato sulla classe operaia come soggetto rivoluzionario, sarebbe oggi inesorabilmente superata considerato il carattere ormai residuale della classe operaia e – ancora di più – del suo classico alleato storico: il piccolo contadino.

Tale obiezione appare di senso comune, proprio in quanto proviene direttamente dall’ideologia dominante che vuole far passare come inevitabilmente superati, storicamente, i grandi classici del marxismo.

Anche in questo caso, sarebbe controproducente porsi sulla difensiva e far proprie, in qualche modo, le obiezioni del nemico di classe. In effetti, non si può tacere che – come l’analisi di Marx e di Engels è sicuramente più attuale oggi, piuttosto che ai loro tempi – le linee fondamentali del soggetto rivoluzionario delineato da Lenin, e trasposto nel contesto occidentale da Gramsci, restano più che mai valide ai nostri giorni. 

Del resto la previsione – data così tante volte per fallita – di Marx si è, proprio al contrario, sempre più avverata. Di contro alle molteplici classi caratterizzanti i sistemi precapitalistici dominanti ai tempi di Marx, nelle società a capitalismo avanzato, allora inesistenti, le classi tendono – proprio secondo la previsione marxiana – sempre più a ridursi a due grandi blocchi sociali contrapposti: la massa degli sfruttati e la sempre più esigua minoranza degli sfruttatori. Il mito ideologico reazionario, per cui non ci sarebbero più – se non in modo residuale – capitalisti e proletari, ma solo ceto medio è stato completamente falsificato al giorno d’oggi. È, in effetti, sotto gli occhi di tutti che buona parte del ceto medio è destinato – almeno nel medio termine – alla progressiva proletarizzazione

Peraltro il partito di quadri, radicato e organizzato in cellule in primis nei posti di lavoro, si è dimostrato – con i necessari riadattamenti ai differenti contesti – la struttura indispensabile per la rivoluzione tanto nei paesi arretrati quanto nei paesi imperialisti.

Come abbiamo esperito – anche direttamente, sulla nostra pelle – in tutti i paesi in cui si è ceduto all’ideologia dominante e si è abbandonato il partito di quadri – ossia di avanguardie riconosciute nei posti di lavoro – in nome di un partito di massa, non omogeneo ideologicamente e organizzato in circoli territoriali, la carica rivoluzionaria è progressivamente venuta meno. Tanto che, con il passare degli anni, abbiamo assistito a quella inesorabile metamorfosi seguendo la quale, come ha recentemente osservato Luciano Canfora, il Partito comunista, sezione italiana del Partito mondiale della rivoluzione, si è progressivamente trasformato in un partito socialdemocratico. Gettando così le basi per la sua deriva socialiberale dopo la Bolognina, sino alla forma liberaldemocratica assunta ai nostri giorni.

Anche le più recenti riproposizioni di tale formula – ovvero di un partito di massa privo di unità ideologica e di radicamento nei luoghi di lavoro – a partire da Rifondazione comunista, la più significativa esperienza post Pci, ha favorito, nei fatti, la ricostruzione di un “partito” a tutti gli effetti socialdemocratico.

Tornando alla questione del presunto necessario superamento del soggetto rivoluzionario, che sarebbe stato individuato dai classici del marxismo nella classe operaia occupata nelle grandi fabbriche, occorre innanzitutto evidenziare come la questione è in realtà mal posta. Al di là del dato di fatto che a livello internazionale – piano sul quale necessariamente ragionano i comunisti – la classe operaia, anche se ci limitassimo a quella impiegata nelle grandi fabbriche, è in grande espansione rispetto ai tempi non solo di Marx, ma di Lenin e Gramsci, bisogna ricordare che il soggetto rivoluzionario per i classici del marxismo è il proletariato, ovvero la grande massa, in continua espansione anche nei paesi a capitalismo maturo, degli sfruttati che non possiedono altro per riprodursi che la propria forza lavoro. Tanto più che lo stesso termine tedesco – utilizzato dai fondatori del marxismo – ossia Arbeiter, significa in senso lato lavoratore, in senso più specifico lavoratore salariato, rappresentato in modo esemplare dal moderno proletariato urbano, la cui componente più significativa è costituita dagli operai. La riduzione della ricchezza semantica di questo concetto alla sola classe operaia delle grandi fabbriche è in realtà una cattiva semplificazione realizzata dagli operaisti, che non possono essere confusi con i grandi classici del marxismo.

Peraltro, il numero dei proletari, dei lavoratori salariati, della massa degli sfruttati è in costante aumento a livello internazionale, in misura enormemente superiore rispetto alla situazione dell’impero zarista ai tempi di Lenin o al Regno d’Italia ai tempi di Gramsci. Senza contare che, proprio per la limitata incidenza ai loro tempi non solo della classe operaia, ma dell’intero proletariato moderno, Lenin e Gramsci avevano posto come decisiva per la rivoluzione la questione delle alleanze di classe, ovvero la capacità di egemonia del proletariato sulle classi intermedie, al loro tempo composte principalmente dai piccoli proprietari agricoli. Anche al giorno d’oggi a livello internazionale solo da questa alleanza fra proletariato moderno (urbano), proletariato agricolo e classi intermedie (piccola borghesia, intellettuali e ceti medi) – oggi più urbane che contadine – si può costituire un blocco sociale in grado di mettere in discussione il blocco dominante borghese. 

Peraltro, ai tempi di tutte le grandi rivoluzioni socialiste – dalla Russia, alla Cina, dalla Corea al Vietnam a Cuba ecc. – la classe operaia era decisamente molto più minoritaria di quanto lo sia oggi in alcuni paesi a capitalismo avanzato. Anche in Italia, al tempo di Gramsci, persino i metalmeccanici erano decisamente meno degli odierni, per non parlare della Russia di Lenin. Infine, anche in paesi più arretrati, dove la classe operaia era ancora più marginale, il partito rivoluzionario ha sempre avuto, di fatto, la struttura del partito leninista, anche se naturalmente riadattato ai contesti specifici dove era tenuto a operare.

A tal proposito possiamo aggiungere che un autentico Partito comunista – che non rinunci in partenza alla sua ragione di essere, la conquista del potere economico, sociale, politico e culturale – non può che ripartire aggiornando le essenziali indicazione di Gramsci sui tratti peculiari della Rivoluzione in occidente.

Gramsci resta ancora oggi un punto di riferimento centrale per chi intenda evitare, nei paesi a capitalismo maturo, quella “comune rovina delle classi in lotta”, unica reale alternativa alla realizzazione della rivoluzione socialista. Gramsci, del resto, ha portato a termine la traduzione e il riadattamento del marxismo rivoluzionario di Lenin – che costituisce il più importante aggiornamento del pensiero di Marx ed Engels nell’ambito, ancora oggi attuale, dell’imperialismo quale fase suprema di sviluppo del capitalismo – al contesto italiano e, più in generale, al contesto dei paesi occidentali a capitalismo più o meno sviluppato. L’aspetto, allora come oggi, particolarmente attuale del pensiero di Gramsci è proprio la sua originale riflessione sulla Rivoluzione in occidente, ovvero in un contesto sociale ed economico molto diverso da quello dell’impero zarista prima della Rivoluzione di ottobre. 

La preziosissima analisi gramsciana nasce dalla riflessione sulla sconfitta della rivoluzione socialista in occidente, dopo il successo della rivoluzione in Russia che, però, doveva essere funzionale proprio a favorire il successo del processo rivoluzionario nei paesi a capitalismo maturo, ossia in quei paesi in cui vi erano e vi sono condizioni strutturali e sovrastrutturali che rendono possibile la realizzazione della transizione al socialismo, quale superamento dialettico delle società a capitalismo maturo. 

Ora questi tentativi rivoluzionari in occidente sono falliti proprio in quanto avevano creduto possibile realizzare la rivoluzione in paesi decisamente meno arcaici con gli strumenti che erano stati necessari per il successo della rivoluzione in contesti meno avanzati

Perciò Gramsci – che non intende rinunciare, come faranno i socialdemocratici occidentali, alla strategia rivoluzionaria – ne ripensa la tattica, ancora oggi punto di partenza di chi intenda riconsiderare i compiti del partito rivoluzionario nel contesto del mondo contemporaneo, in paesi a capitalismo maturo. Per quanto sia oggi necessaria una nuova traduzione e riadattamento al contesto attuale delle riflessioni di Gramsci sviluppate quasi un secolo fa, alcune indicazioni di fondo restano, fino a prova contraria, ancora oggi valide per la loro attualità.

Dunque, ancora oggi si rende necessaria – prima di poter ambire a una guerra di movimento in campo aperto contro il blocco sociale borghese dominante, senza ripetere le pratiche dannosamente avventuriste di qualche decennio orsono – attrezzarsi per una non breve guerra di logoramento per la conquista delle casematte della società civile. In altri termini, si tratterà di portare avanti una dura e prolungata guerra di trincea per conquistare l’egemonia sui decisivi ceti intermedi, mettendo in discussione il controllo della grande borghesia sui mezzi d’informazione, sugli intellettuali, sui luoghi di formazione – dalle scuole alle università – sui sindacati, i partiti e le chiese. Solo in tal modo si potranno accumulare le forze necessarie per accettare e arrischiare un irreversibile scontro in campo aperto con il nemico di classe.

30/07/2021 | Copyleft © Tutto il materiale è liberamente riproducibile ed è richiesta soltanto la menzione della fonte.

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L'Autore

Renato Caputo
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