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Con la buona scuola cambia il verso?

Con la buona scuola cambia il verso? Dipende. Non lo cambia nei confronti delle vecchie politiche. Lo cambia invece nei confronti del programma elettorale del partito di Renzi che prometteva di invertirle. Secondo la matematica cambiare verso a un vettore già invertito di segno equivale a mantenere il verso primitivo, non cambiare niente. Così come nella logica formale la doppia negazione coincide con l'affermazione.


Con la buona scuola cambia il verso? Credits: "La scuola è finita", Chiara de Giovanni

Le mistificazioni nascondono la realtà di una scuola sempre più al servizio del capitale. Una spiegazione di carattere non solo sovrastrutturale delle scelte governative. Per la comprensione del movente del DDL scuola dal punto di vista del capitale, considerato che nei momenti sacri tutti testimoniano il ruolo della scuola e della ricerca per lo sviluppo del paese e poi, santificata la festa, nei giorni feriali peccano.

di Ascanio Bernardeschi

“La scuola non ha bisogno di grandi riforme, ha bisogno di certezze, stabilità e soprattutto di fiducia. Fiducia dopo i tagli di Berlusconi-Tremonti-Gelmini, dopo gli insulti ricevuti, dopo le stagioni Moratti-Gelmini la cui direzione ideologica è stata quella di smantellare il sistema di istruzione pubblico […] Il dirigente scolastico non può rimanere senza un controllo efficace da parte del consiglio di istituto” (dal programma del PD alle ultime elezioni politiche).

Con la buona scuola cambia il verso? Dipende. Non lo cambia nei confronti delle vecchie politiche. Lo cambia invece nei confronti del programma elettorale del partito di Renzi che prometteva di invertirle. Secondo la matematica cambiare verso a un vettore già invertito di segno equivale a mantenere il verso primitivo, non cambiare niente. Così come nella logica formale la doppia negazione coincide con l'affermazione.

Sono state presentate come novità vecchie pratiche: i tagli alle spese e al personale e alla manutenzione degli edifici scolastici fatiscenti, l'aggravamento degli orari, della flessibilità e della precarietà, il finanziamento alle scuole private, l'invadente finanziamento da parte dei privati, la conferma dei test INVALSI e della meritocrazia senza validi presupposti, la falcidia al tempo pieno e al sostegno per l'integrazione.

I dati allarmanti sulla dispersione scolastica, sull'analfabetismo di ritorno – stimato intorno al 70 per cento per quanto riguarda l'attitudine a leggere e capire un testo di media complessità –, la mancata realizzazione dei princìpi costituzionali che prevedono la funzione basilare della scuola pubblica e per tutti per formare i cittadini e quindi per la stessa democrazia, avrebbero dovuto ispirare qualsiasi riforma. Sono rimasti inascoltati i numerosi documenti prodotti in merito dal meglio della nostra cultura. Non si è posto rimedio alla falcidia del tempo pieno e del supporto per gli svantaggiati. In compenso si è sostituita una ciocca di finanziamenti pubblici con il 5 per mille dell'Irpef, penalizzando evidentemente i territori più svantaggiati che già stentano a mantenere i livelli di servizio, si sono dati poteri dispotici al preside che sarà determinante per l'inserimento lavorativo degli insegnanti, per le loro retribuzioni e per la loro carriera, si pretende una delega in bianco al governo “per il riordino” delle leggi vigenti, che potrà introdurre ulteriori danni.

Sappiamo bene – dal jobs act e dalle riforme istituzionali – che Renzi non muove foglia che il padronato non voglia. Allora sarebbe utile capire il movente di questo disegno di legge dal punto di vista del capitale, visto che nei momenti sacri tutti testimoniano il ruolo della scuola e della ricerca per lo sviluppo del paese e poi, santificata la festa, nei giorni feriali peccano.

L'istruzione e la formazione dei lavoratori, sia pure con i limiti dell'epoca, fu già un obiettivo delle prime fasi di egemonia del capitalismo. Al vate di questa fase progressiva, Adam Smith, che pur credeva ciecamente nella “mano invisibile del mercato”, non sfuggì che il carattere sempre più alienante del lavoro in serie, da lui descritto in modo esemplare, imponeva un ruolo dello stato nell'educazione dei lavoratori, onde evitare il loro abbrutimento e quindi la diminuzione della loro capacità di produrre.

L'introduzione delle macchine – ci raccontò successivamente Marx – permette di incorporare il sapere degli artigiani nelle macchine stesse che, nell'ambito dei rapporti di produzione capitalistici, assumono la forma di capitale costante; in una prima fase con le fattezze di utensili innovati idonei a sostituire le abilità lavorative e poi, con lo sviluppo della forza motrice, in forma di sistemi sempre più complessi che riescono a svolgere velocemente attività che avrebbero richiesto molti artigiani per essere svolte. Espropriati così delle loro abilità, gli operai si riducono ad appendice delle macchine. Un crescente grado di istruzione è richiesto comunque per controllarle, anche se non sfuggì già allora al maggiore teorico del comunismo che la graduale sostituzione dei lavoratori con le macchine avrebbe via via diminuito l'importanza del “lavoro vivo” nella produzione di ricchezza.

Certamente per incorporare i saperi e la scienza negli apparati produttivi occorre che questo sapere e questa scienza vengano in qualche luogo prodotti. E quindi, per la classe capitalista nel suo complesso la formazione e la ricerca sono una necessità ineludibile. Ma non lo sono altrettanto per i singoli capitalisti. Si potrebbe fare, per la formazione, un ragionamento analogo a quello che Marx propose per la vendita e il consumo dei prodotti: secondo lui il sogno massimo di ogni capitalista sarebbe che fosse elevato il salario dei lavoratori delle altre imprese e nel contempo fosse pari a zero il salario dei propri dipendenti. Traslando questa battuta si potrebbe dire che il sogno massimo per il singolo capitalista sia che il sistema formi lavoratori sempre più qualificati e istruiti, ma che egli non debba scucire una lira per questa formazione. Da qui la necessità che dell'istruzione si occupi prevalentemente lo stato.

Ma con questo non siamo ancora alla fase attuale del capitalismo, caratterizzata dall'egemonia dei monopoli, dall'introduzione dell'informatica, dalla globalizzazione e dalla finanziarizzazione.

I monopoli, per le loro dimensioni, sono maggiormente in grado di contribuire in proprio alla formazione. Purché sia limitata alle abilità strettamente utili per i propri scopi, non avendo certamente motivo di preoccuparsi della formazione di un cittadino consapevole e in grado di leggere criticamente la realtà che lo circonda. Anzi tutto ciò costituirebbe un grosso guaio per la classe dei capitalisti. Si deve però considerare che sono i risultati di breve periodo che assillano oggi le grandi società per azioni. Il management deve praticare la massima armonia con gli interessi degli azionisti che sono sensibili solo ai dividendi e alle quotazioni in borsa delle loro azioni. Spesso gli stessi manager sono azionisti e una parte della loro retribuzione – per assicurare questa conformità – consiste in azioni. Nel breve termine il sapere già incorporato basta e avanza, mentre imprenditori “innovativi” alla Shumpeter non sono una merce tanto diffusa quanto gli speculatori.

L'introduzione dell'informatica permette di incorporare agevolmente nel software anche le mansioni di tipo “cognitivo”, e di replicare senza limiti e a costi pressoché nulli queste conoscenze. Col che un'altra parte importante del sapere dei lavoratori viene espropriata e “venduta”come merce.

Con la globalizzazione e la finanziarizzazione, mentre i capitali e le merci possono vagare liberamente e celermente da un continente all'altro, avviene una sorta di assoggettamento delle politiche statali al feticcio del mercato, o quanto meno l'autonomia della politica ne è fortemente condizionata. È come se si riproducessero a livello di rapporti tra stati le contraddizioni insite nei rapporti tra imprese o tra monopoli. Per esempio ogni nazione ha interesse a diventare competitiva abbassando per legge il salario sociale e le tutele dei lavoratori, in modo da attrarre, nell'ambito della spietata concorrenza mondiale, maggiori capitali in cerca di maggiori prospettive di profitto. Ma ogni nazione dovrebbe sperare che nelle altre realtà del mondo ci siano lavoratori in grado di assorbire la sovrapproduzione di merci. Avviene invece che così facendo si generalizza l'impoverimento di massa, a meno che un sistema economico autocentrato di dimensioni considerevoli – continuando nell'analogia si potrebbe dire con le caratteristiche paragonabili all'impresa che gode di un certo grado di monopolio – non riesca ad esercitare una maggiore autonomia rispetto alle leggi della concorrenza internazionale. L'Europa, per esempio, avrebbe i requisiti dimensionali per una simile prospettiva. Peccato che manchino altri requisiti: istituzioni adeguate e volontà politica.

Nella logica del capitale, la spesa per l'istruzione è parte integrante del salario sociale, cioè dei costi di riproduzione della forza-lavoro e quindi deve essere falcidiata al pari degli servizi pubblici e del salario differito (pensioni). L'abbassamento del salario sociale è un formidabile antidoto alla caduta tendenziale del saggio del profitto e una buona parte delle spiegazioni sulla crisi delle politiche keynesiane sta proprio in questa circostanza.

Per questo, oltre che per l'esaurirsi della spinta in direzione opposta da parte del movimento dei lavoratori, assistiamo a un rilancio della selezione di classe e dell'idea di una formazione finalizzata solo all'immediato uso produttivo della forza-lavoro e non alla promozione di una coscienza scientifica critica. Si spiega così anche la possibilità di sostituire una parte del percorso scolastico con la formazione professionale, sostituzione del tutto opposta allo spirito della costituzione. Si spiega così la possibilità di devolvere il 5 per mille alla scuola come strumento per condizionarne l'attività in direzione degli interessi delle imprese.

Certo, così facendo si blocca anche il potenziale sapere e il potenziale progresso scientifico da incorporare nel capitale ma, così come ogni capitalista spera che la soluzione si possa trovare all'esterno della sua attività, anche le nazioni meno avvedute, di fronte ai vincoli di bilancio, alzano le spalle e si adeguano. In Italia la nostra inetta classe padronale ha pensato che questa debba essere la strada da seguire e il nostro statista fiorentino al suo servizio ha pensato che ciò potesse essere facilitato grazie agli strumenti comunicativi che possiede per fare un gran polverone e venderci questa robaccia, la “buona scuola”, come una rivoluzione. Forse non aveva previsto una reazione così determinata da parte del mondo della scuola, quale si sta concretizzando in questi giorni.

 

15/05/2015 | Copyleft © Tutto il materiale è liberamente riproducibile ed è richiesta soltanto la menzione della fonte.
Credits: "La scuola è finita", Chiara de Giovanni

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