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La Turchia invade la Siria e minaccia la Rivoluzione del Rojava

Il 24 agosto l'esercito turco ha varcato il confine con la Siria nell'ambito dell'operazione “Scudo dell'Eufrate”


La Turchia invade la Siria e minaccia la Rivoluzione del Rojava

L’operazione mira formalmente a ripulire la zona dai terroristi dell'Isis, ma in realtà è rivolta contro l'avanzata delle Forze Democratiche Siriane di cui fanno parte i combattenti curdi. Con l'avallo degli Stati Uniti e il silenzio di Damasco. Necessaria più che mai una mobilitazione internazionale a favore dell'unica causa democratica nell'ambito del terribile conflitto siriano.


di Stefano Paterna

Türk Ordusu, l'esercito turco, sta scrivendo l'ennesimo capitolo sanguinoso nell'ampio volume delle guerre siriane. E' più corretto in effetti utilizzare il plurale per descrivere ormai il terribile conflitto esploso nel 2011 e che ora si è frammentato in distinti confronti armati con alleanze a geometrie variabili che cambiano repentinamente e il cui significato è spesso di difficile interpretazione.

In questi giorni, tuttavia, si scorge chiaramente la posta in gioco: la Rivoluzione democratica, femminista, laica ed ecologista della regione autonoma della Rojava è in grave pericolo. Con il pretesto di far sloggiare lo Stato Islamico dalla cittadina di Jarabulus, il 24 agosto le truppe di Ankara hanno varcato il confine con la Siria, trascinandosi dietro una masnada di fondamentalisti appartenenti alle più variopinte sigle: dall'ex Al Nusra (al Qaeda in Siria) ora rinominata Jabhat Fatah al-Sham a quella specie di contenitore utile per nascondere qualsiasi cosa che è divenuto il cosiddetto Esercito Libero Siriano. L'operazione denominata “Scudo dell'Eufrate” ha lo scopo dichiarato di ricacciare le forze curde delle YPG-YPJ e i loro alleati delle Forze Democratiche Siriane oltre il fiume Eufrate, impedendo così il congiungimento dei tre cantoni della Rojava: Cezire, Kobane e Afrin. Peraltro, questa porta spalancata sulla Siria probabilmente consentirà di mantenere permeabile il confine settentrionale siriano all'entrata di jihadisti come è avvenuto in larga scala negli anni passati, anche a favore del famigerato Isis che per molto tempo il governo di Erdogan e soci si è solo limitato a insultare verbalmente e sul quale ha quantomeno chiuso entrambi gli occhi nella pratica.

Al 30 agosto l'offensiva turca si era spinta a sud di Jarabulus e in tre villaggi nella zona di Al-Rai. Nei giorni precedenti, secondo fonti curde, le operazioni militari di Ankara erano costate la vita a 45 persone, mentre continuavano peraltro i bombardamenti di artiglieria nelle vicinanze della città di Manbij, recentemente sottratta dai compagni delle YPG-YPJ ai tagliagole dell'Isis.

Sia chiaro: tutto ciò non è potuto accadere senza un preventivo, ancorché tacito, consenso statunitense. Nei mesi passati, le forze curde sono state supportate nelle loro operazioni militari dall'appoggio aereo e terrestre degli Usa. Varcata la sponda dell'Eufrate questo appoggio si è di fatto arrestato. Bisognerà vedere se nei prossimi giorni Washington sarà di nuovo in grado di mettere la museruola all'indisciplinato alleato turco.

Erdogan negli ultimi tre mesi ha compiuto una sua personale “rivoluzione” di 360 gradi con una spregiudicata politica estera: avvicinamento a Russia e Iran e quindi, per interposta persona, al regime siriano di Assad. Il golpe del 15 luglio è “molto opportunamente” intervenuto per consentire al presidente turco di pagare il prezzo più basso a questo voltafaccia radicale che di fatto costituisce un'ammissione del fallimento della precedente politica filosaudita e antirussa.

Questo cambiamento di atteggiamento per certi versi sembra aver ricevuto un avvallo positivo da Damasco il 16 agosto scorso ad Hasaka, quando per la prima volta si sono verificati scontri tra le truppe fedeli ad Assad e le forze della Rojava. Scontri che sono cessati grazie all'intervento e alla mediazione di Russia e Stati Uniti.

Si possono trarre alcune evidenze dall'inestricabile gomitolo di sangue, violenza e cinismo che ha avvolto la Siria: innanzitutto un grande movimento di liberazione nazionale come quello della Rojava (che non è esclusivamente opera dei curdi, ma ha dichiaratamente una natura siriana e coinvolge per questo popolazioni arabe, assire, ecc.) non può contare indefinitamente sull'aiuto di nessuna potenza imperialistica straniera (soprattutto Usa, ma anche Russia). Questo punto è certamente ben chiaro ai dirigenti del Partito dell'Unione Democratica curdo (PYD) e ai suoi alleati, fin dai tempi dell'assedio di Kobane e pertanto non è il più importante.

Ben più rilevante è l'atteggiamento di Damasco. Il regime siriano, nonostante il poderoso intervento russo, non può realisticamente pensare di porre fine a cinque anni di guerra civile, semplicemente ritornando alla situazione precedente. I rapporti di forza non saranno più quelli di prima: è sufficiente considerare che i combattenti che in vario modo fanno riferimento all'esperienza della Rojava si aggirano intorno ai 40-50mila. Ad Hasaka il regime di Assad ha deciso di scontrarsi con questa realtà e qualche settimana dopo Erdogan si è sentito legittimato a varcare i confini della Siria: forse a Damasco bisognerebbe riflettere su cosa costituisce il maggior pericolo per l'integrità territoriale e la sovranità siriana.

L'altro elemento che spicca è il ruolo ambiguo che continuano a giocare nello scacchiere mediorientale gli Stati Uniti. La mancanza di inibizioni di Washington sul versante delle alleanze è testimoniata nel corso degli anni dal loro appoggio alle più svariate politiche settarie: ad esempio subito dopo la seconda guerra del Golfo con lo scioglimento dell'esercito di Saddam e del Baath iracheno, in sostegno alle aspirazioni degli sciiti di quel paese. Qualche anno dopo, al contrario, gli Usa saranno contro quelle stesse politiche che insieme al loro intervento militare hanno provocato la nascita e il rafforzamento dell'Isis. Un gruppo, quest'ultimo, che ha ricevuto certamente finanziamenti provenienti da paesi alleati degli Stati Uniti, come Arabia Saudita e Turchia, Qatar e Kuwait. Ma due anni fa finalmente l'amministrazione Obama è sembrata accorgersi del pericolo rappresentato dal Califfato ed è passata a dare una mano ai difensori di Kobane fino ad aggregare truppe di terra alle YPG curde. Ora, però, da Washington si spendono solo caute parole di rimprovero dinanzi all'aggressione turca in territorio siriano, in attesa del prossimo incontro tra Obama ed Erdogan in programma per questo fine settimana. Permane il sospetto che gli Stati Uniti si spendano per rinfocolare i conflitti nell'area e in seguito si impegnino (relativamente) per contenerli, legittimando così un loro ruolo di presenza e mediazione internazionale nella strategica area della storica Mesopotamia.

Per la Sinistra internazionalista è invece vitale che l'esperienza democratica e di ispirazione socialista della Rojava prosegua e si estenda, sconfiggendo gli autoritarismi e i settarismi di varia natura prevalenti in tutta la Regione. Per questo urge che si mobiliti al più presto una coalizione popolare internazionale di movimenti, partiti e associazioni in favore della causa dei tre cantoni autogovernati nel nord della Siria. Oggi più che mai deve risuonare la consegna di “Lunga vita alla resistenza di Kobane!”.

Note:

http://www.retekurdistan.it/2016/08/lesercito-turco-commette-un-massacro-a-manbij-civili-massacrati/

http://www.lacittafutura.it/giornale/siria-al-bivio-assad-avanza-la-turchia-minaccia.html

http://www.swissinfo.ch/ita/assad-si-riavvicina-a-erdogan-e-bombarda-i-curdi/42386978

http://www.analisidifesa.it/

03/09/2016 | Copyleft © Tutto il materiale è liberamente riproducibile ed è richiesta soltanto la menzione della fonte.

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Stefano Paterna
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