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Dalla Cina con clamore

Le recenti notizie provenienti dai mercati cinesi, azionario e monetario, stanno suscitando un certo clamore e riacceso il mai sopito dibattito sullo stato della seconda economia al mondo, sulla sua capacità di mantenere gli attuali tassi di crescita e sulla natura di classe del suo sviluppo.


Dalla Cina con clamore

Le recenti notizie provenienti dai mercati cinesi, azionario e monetario, stanno suscitando un certo clamore e riacceso il mai sopito dibattito sullo stato della seconda economia al mondo, sulla sua capacità di mantenere gli attuali tassi di crescita e sulla natura di classe del suo sviluppo.

di Alessandro Bartoloni

Al netto del sensazionalismo tipico di gran parte della stampa borghese nostrana, è sempre più chiaro che l’economia mondiale è di fronte all’ennesimo rallentamento – crescerà del 3,3 per cento secondo l’Fmi, rivedendo al ribasso di 0,2 punti le stima di aprile – e le notizie provenienti da oriente sembrano confermare il progressivo peggioramento della situazione. Effettivamente, una correzione dei listini a Shangai di circa il 30 per cento tra giugno e luglio non può lasciare indifferenti, dato che si tratta del secondo mercato azionario al mondo dopo quello di New York. Vedere in così poco tempo un indice passare da oltre 5 mila punti a 3.500 fa un certo effetto, soprattutto se se ne contabilizza il valore (meramente fittizio), pari a circa 4.000 miliardi di dollari. E anche la recente svalutazione della moneta, per il leader mondiale nelle esportazioni, incrementa le preoccupazioni per il futuro dell’economia mondiale, dato che oramai oltre un terzo del tasso di crescita globale si deve alla Cina.

Ma in economia, soprattutto in borsa, tutto ciò che crolla fragorosamente ha verosimilmente subito un incremento altrettanto spettacolare. E infatti, ad agosto dell’anno scorso, l’indice borsistico viaggiava attorno ai 2.200 punti e a gennaio era ancora abbondantemente sotto i 3.500. Per tanto, fatti i conti, il principale indice della borsa di Shangai è cresciuto di quasi il 50 per cento nel corso dell’ultimo semestre del 2014 e di un ulteriore 60 per cento nel semestre successivo, prima di iniziare il crollo. E che la borsa stesse viaggiando a una velocità potenzialmente pericolosa era cosa risaputa tra gli addetti ai lavori, tant’è che ad aprile le competenti autorità avevano iniziato un giro di vite su alcuni tipi di transazioni al fine di raffreddare i bollenti spiriti delle bestie che normalmente popolano le borse. Inoltre, come si vede dal grafico, non si tratta del primo grande crollo, né del più importante, se non fosse che oggi sono quasi 90 milioni i cinesi coinvolti e, seppure ancora bassa rispetto a quanto avviene in occidente, anche laggiù la borsa acquista un crescente peso economico (il valore degli scambi non arriva al 40 per cento del Pil mentre nelle maggiori economie occidentali supera il 100 per cento).

La svalutazione della moneta, invece, non era stata prevista dagli esperti occidentali, che ne prospettavano stabilità come mossa per convincere il Fmi a inserire lo Yuan tra il paniere di valute di riserva insieme a dollaro, euro, yen e sterlina. La mossa, tuttavia, si inserisce nel solco del progressivo passaggio alla “nuova normalità”, fatta di ancora maggior attenzione ai desiderata dei finanzieri e una crescita economica meno impetuosa, meno dipendente dagli investimenti e dal mercato estero. Non a caso, il Fondo monetario internazionale saluta con favore le recenti svalutazioni, dal momento che segnano l’inizio di una politica monetaria maggiormente accomodante nei confronti degli speculatori di borsa che da mesi acquistano dollari in cambio di yuan, in previsione di un probabile aumento dei tassi di interesse Usa e dell’ulteriore, progressivo, rallentamento della crescita mondiale e in particolare cinese. E qui sta il punto.

Vale la pena ricordare che l'economia cinese, in una ventina d’anni, si è trasformata come nessun altra nazione ha mai fatto nella storia del capitalismo. Secondo i dati di Banca mondiale, negli anni Novanta il Pil cresceva annualmente tra il 7 e il 14 per cento. Nei cinque anni seguenti faceva anche meglio, arrivando, nel 2007, alla vigilia dell’ultimo scoppio della crisi, a incrementarsi del 14,2 per cento. Il valore del totale delle esportazioni cinesi è passato da 249 miliardi dollari nel 2000 (anno che precede l’adesione della Cina all’Organizzazione mondiale del commercio) a 2.343 miliardi l’anno scorso. Fatto cento il valore dell’export cinese nell’anno 2000, significa esser passati a 886 in soli 14 anni.

La creazione di capitale fisso, al lordo degli ammortamenti, che tra il 1980 e il 1984 viaggiava tra il 33 e il 35 per cento del Pil (per capirci, in Italia oscillava tra il 22 e il 26 per cento), nel 2003 era già al 41 per cento per continuare a salire costantemente fino ad arrivare al 48 per cento del Pil nel 2013 (in Italia al 17 per cento). Sulla base dei dati ufficiali cinesi, inoltre, nel 2001 gli investimenti in progetti immobiliari portati a termine, sia commerciali che residenziali, valevano poco più di 4 miliardi di Yuan. Nel 2010 erano 48 miliardi per arrivare a 86 miliardi nel 2014. Il settore manifatturiero ci racconta una storia molto simile. Secondo i dati della associazione mondiale dell’acciaio, nel 2000 la produzione di acciaio grezzo era di 128,5 milioni di tonnellate; nel 2014, ha raggiunto 822,7 milioni di tonnellate, 10 volte quella degli Stati Uniti, la metà dell’intera produzione mondiale.

Tutti questi successi hanno permesso alla Cina di centrare quasi tutti gli obiettivi di sviluppo del millennio fissati dalle Nazioni Unite e di conquistare importanti primati commerciali, industriali e finanziari, non ultimo quello di paese detentore delle maggiori riserve valutarie al mondo. A partire dal 2008, tuttavia, i tassi di crescita non sono più quelli di una volta. Ad eccezione del 2010, il Pil cresce ogni anno sempre meno, e nel 2014 si è fermato ad un più 7,4 per cento. Una crescita, poi, che in tutti questi anni si è largamente basata sull’indebitamento privato. A tal proposito, la società di consulenza McKinsey & Co stima che dal 2000 al 2014 il rapporto tra debito (pubblico e privato) e Pil è passato dal 121 per cento al 282 per cento. Dato assai significativo se si considera che il debito pubblico ammonta, adoggi, a circa il 64 per cento del Pil, due terzi del quale creato dalle autorità locali.

La stragrande maggioranza del debito, dunque, è privato. Come privati sono oramai la maggior parte degli investimenti. Stando alle statistiche ufficiali, ancora nel 1999, il 68 per cento degli investimenti non finanziari era effettuato da imprese statali o collettive. Nel 2013, questa percentuale era scesa al 23 per cento. E privati sono pure i padroni della maggior parte dei lavoratori. Nel 2009, dei 333 milioni di lavoratori urbani, 64 lavoravano per imprese statali e quasi 8 milioni per cooperative o simili, a fronte di 42 milioni che lavorano in proprio, 55 milioni impiegati da società di persone e 26 milioni da società di capitali. Nel 2013, con una popolazione lavatrice urbana salita a 382 milioni, mentre gli impiegati delle imprese statati e cooperative sono rimasti sostanzialmente stabili, gli individui in proprio sono saliti a 61 milioni, 82 milioni quelli impiegati da società di persone e 78 milioni da società di capitali.

Certo, ci sono le joint venture tra stato e privati, il governo mantiene il controllo dei settori strategici e rappresenta un’indispensabile fonte di guadagno per molte aziende private attraverso appalti e forniture. Ma la tendenza è quella di una progressiva privatizzazione dell’economia cinese. Per ora sembra che le autorità di Pechino tengano la situazione sotto controllo, tant’è che sono riuscite ad arginare il crollo borsistico. Il governo ha chiesto ai fondi comuni di investimento (inclusi i fondi pensione) di acquistare azioni e ha sospeso ogni offerta pubblica iniziale di nuove società che intendono quotarsi. Tramite la banca centrale è stato fornito denaro ai broker per acquistare azioni e la Consob cinese ha imposto a chi possiede più del 5 per cento delle azioni di una compagnia il divieto di vendita per sei mesi. Inoltre, circa 1.300 imprese, che rappresentano il 45 per cento del mercato azionario, sono state sospese dai listini. Infine, stando a quanto riporta il magazine Forbes, sono state limitate le vendite allo scoperto (quelle che riguardano titoli che il venditore non possiede) sotto la minaccia di arresto.

Ma per quanto tempo ancora le autorità cinesi saranno in grado di gestire la situazione è difficile dirlo. Quel che è certo è che la crisi mondiale è ancora lunga e pesanti nubi si addensano all’orizzonte. Per quanto riguarda la Cina, nella misura in cui si apre al resto del mondo capitalista e la produzione viene sempre più organizzata sulla base del tasso di rendimento e non delle esigenze sociali, gli interventi di regolazione e controllo saranno sempre meno efficaci e presto o tardi sarà necessario aggiungere all’agenda delle riforme la programmata distruzione di cose e persone, in patria o all’estero. E allora vedremo quali saranno le caratteristiche cinesi del capitalismo.

 

14/08/2015 | Copyleft © Tutto il materiale è liberamente riproducibile ed è richiesta soltanto la menzione della fonte.

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