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Qual è la reale posta delle presidenziali negli U.S.A.

Per quanto nelle elezioni presidenziali statunitensi sembra ci si sia ridotti a dover scegliere se è meglio morire di peste o di colera, non è da sottovalutare se non si dovesse tener conto della volontà “democraticamente” espressa dagli elettori, come ormai avviene di consueto nelle elezioni in paesi fuori dal controllo dell’imperialismo


Qual è la reale posta delle presidenziali negli U.S.A. Credits: https://officinadeisaperi.it/materiali/la-seconda-guerra-civile-americana-da-il-manifesto/

Per quanto abbiamo fatto di tutto per evitare il tema delle presidenziali statunitensi, impostosi a livello internazionale – a ulteriore dimostrazione della capacità di egemonia che tale paese, nonostante tutto, detiene – è giunto il momento di dire la nostra. La prima cosa che colpisce è la campagna elettorale permanente e infinita che caratterizza la vita politica e il dibattito politico negli Stati Uniti.

 Ciò comporta il dare credito alle libere elezioni democratiche che caratterizzerebbero i paesi capitalistici, in cui anche le cariche più importanti sarebbero liberamente scelte dalla maggioranza, garantendo la sovranità popolare. D’altra parte, sebbene in teoria chiunque possa presentarsi alle elezioni presidenziali, tutto il dibattito a livello internazionale tende a focalizzarsi sui due contendenti principali. In tal modo sarebbe garantito il bipolarismo e l’alternarsi al governo della destra e della sinistra.

 Tutto ciò concerne, però, esclusivamente il piano dell’opinione, delle apparenze, in cui sguazzano a pieno titolo i giornalisti, candidati naturali a orientare – appunto – l’opinione pubblica. Un piano che, come sapevano già gli antichi sapienti greci, è necessariamente separato dal piano scientifico-filosofico in cui è possibile conoscere la verità, in primo luogo nella sua contrapposizione al piano dell’esperienza quotidiana dominato dal senso comune conformista, in secondo luogo in grado di dare senso anche al piano dell’apparenza. Ora è quanto mai evidente che a scontrarsi, in quello che viene proposto sul piano dell’opinione come il derby politico decisivo, sono praticamente sempre due candidati dello stesso partito della classe sociale dominante, ossia il partito dell’ordine della grande borghesia.

 Per cui buona parte del dibattito politico nazionale e internazionale statunitense gravita su chi dovrà dirigere politicamente la macchina dello Stato borghese, ovvero chi rappresenterà sul piano dell’opinione il dirigente, democraticamente eletto, della dittatura della borghesia. Anche perché, come è sempre più evidente, e come sottolineava Marx sin dalla sua prima opera giovanile, nella società capitalista il potere reale è della classe economica dominante e il potere politico è sostanzialmente al suo servizio. Peraltro, come notava già un secolo e mezzo fa ancora Marx, il potere reale del governo è sempre più limitato dal debito pubblico, che rende lo Stato creditore del grande capitale finanziario. In tal modo è evidente che sarà quest’ultimo a prendere le decisioni significative di politica economica. Per cui, già da questo primo decisivo punto di vista, quale dei due concorrenti del partito dell’ordine vinca le elezioni è dal punto di vista sostanziale praticamente indifferente.

 Anche dal punto di vista altrettanto decisivo – in particolare per il resto del mondo – della politica estera la vittoria di un candidato piuttosto che dell’altro è decisamente scarsamente influente. Anche qui è la scienza economica che ci insegna che lo “sviluppo” in senso imperialista del capitalismo in crisi è necessario.  Perciò, visto che a contendersi il posto sono due politicanti espressione dello stesso partito la loro politica estera sarà inevitabilmente imperialista. Tanto che durante l’infinita e perenne campagna elettorale gli attacchi al presidente forse più sfacciatamente reazionario della storia degli Stati uniti, da parte dell’opposizione politica “democratica” e dell’opinione pubblica “democratica”, sono stati condotti quasi sempre da destra. Secondo i suoi critici “democratici” Trump e il suo governo sarebbero stati troppo morbidi e troppo poco guerrafondai verso terribili “dittatori” come Kim Jong-un e Putin e avrebbero indebolito la più micidiale alleanza militare mondiale – nata con l’esplicito compito di impedire un superamento da sinistra del modo di produzione capitalistico – ossia la Nato. Allo stesso modo, l’amministrazione Trump è pesantemente attaccata anche dalla “sinistra radicale” per essere scesa a patti con i Talebani in funzione di un ritiro delle truppe d’occupazione dall’Afghanistan e ha subito attacchi talmente compatti da parte dell’opposizione di “sinistra” internazionale, di fronte alla sua intenzione di ritirare le truppe di occupazione dalla Siria, che è stato costretta a fare marcia indietro fino a incrementarle. L’unica accusa sensata rivoltagli dall’opposizione di sinistra è, per altro, la solita accusa rivolta dai democratici ai repubblicani, ovvero di mantenere il predominio dell’imperialismo statunitense a livello mondiale puntando più sulla forza che sulla capacità di egemonia. Infine, per quanto dopo tanti anni sia finalmente presente all’interno del bipolarismo borghese statunitense una componente realmente di “sinistra” (borghese), quest’ultima è particolarmente inconsistente proprio sulle tematiche di politica estera. A dimostrazione appunto che si tratti di una sinistra comunque interna al campo imperialista, quasi senza eccezioni che confermino la regola.

 Certo, vi sono delle differenze anche significative per quanto riguarda i diritti civili a livello di politica interna. Da questo punto di vista è evidente che, chi non ha fiducia nel meccanicistico tanto peggio tanto meglio, farà bene a prendere decisamente posizione per il voto a favore dei democratici. Più o meno come in Italia è praticamente sempre meglio votare contro i candidati della destra radicale, dai leghisti, ai fascisti e post-fascisti. D’altra parte, esattamente come avviene in Italia, sono generalmente proprio quei candidati liberali che si votano nei ballottaggi in nome del meno peggio, a favorire il ritorno al governo delle forze della destra radicale. Come i governi di centrosinistra in Italia non hanno fatto altro che preparare il terreno a governi di destra sempre più radicale, così i presidenti statunitensi democratici negli ultimi anni non hanno fatto altro che favorire il ritorno al governo di una destra sempre più impresentabile.

 In realtà, proprio come avviene in Italia – da quando abbiamo iniziato a imitare i liberali anglosassoni – democratici e repubblicani, esattamente come i nostri centrosinistra e centrodestra portano avanti il consueto gioco del poliziotto buono e del poliziotto cattivo. Il che significa ridurre l’alternanza garantita dal bipolarismo liberal-democratico alla possibilità di scegliere ogni tot anni, un candidato che rappresenti principalmente la conservazione di un esistente assolutamente inaccettabile dalle classi subalterne e un candidato che offra come alternativa la reazione, ossia una soluzione improntata al bonapartismo regressivo; in entrambi i casi, senza mettere in discussione i princìpi fondamentali del pensiero unico volto alla restaurazione neoliberista. Anzi, generalmente sono i candidati democratici, di centrosinistra a dimostrarsi i più ortodossi sacerdoti del culto del pensiero unico in nome dell’ormai classico T.I.N.A., ossia del preconcetto per cui non esisterebbero alternative all’ideologia dominante e alla corrente restaurazione neoliberista.

 Da questo punto di vita è sostanzialmente infantile continuare a prendersela con i candidati dell’ala conservatrice o reazionaria del partito del (dis)ordine grande borghese, che alla fine fanno più o meno bene il loro mestiere, di rappresentanti del comitato di affari volto a salvaguardare gli interessi della grande borghesia nel suo complesso. Decisamente più intelligente e proficuo sarebbe, invece, prendere il più possibile le distanze da questo teatrino della politica “politicante” borghese e operare in funzione di una radicale alternativa di sistema, di modo di produzione.

 Detto questo, però, non ci si può limitare a rifiutare aristocraticamente come fanno i dottrinari il piano delle apparenze, dell’opinione, del senso comune. Anche perché in una prospettiva dialettica l’apparenza e l’essenza non solo si corrispondono, ma contribuiscono egualmente alla definizione della realtà concreta. Inoltre, per quanto sia prioritario saper distinguere i nemici di classe, dai possibili e temporanei alleati e dai membri del nostro stesso blocco sociale, non si può nemmeno sottovalutare l’assoluta necessità di saper sfruttare e approfondire le contraddizioni all’interno del fronte avverso, all’interno del campo imperialista.

 Contraddizioni che appaiono in modo sempre più lampante se si ragiona in modo scientifico su quanto sta avvenendo all’interno del partito unico dell’ordine imperialista statunitense e che si riverbera anche negli apparati dello Stato, compresi quelli repressivi, quali organi essenziali della dittatura della borghesia. Anche perché all’ordine del giorno vi è ormai la questione se accettare i risultati, per quanto manipolati, del suffragio almeno teoricamente universale, o rifiutarli a priori nel caso in cui non si adeguassero alla propria volontà di potenza. Si tratta di una questione estremamente delicata, in quanto non solo è in gioco la principale forma di legittimazione popolare della dittatura della borghesia, su cui si fonda in modo significativo la propria capacità di egemonia, ma in quanto a essere messa in gioco è l’opportunità di conservare l’attuale dittatura democratica del capitale finanziario o riprendere forme di dittatura più o meno aperta e antidemocratica.

 Come è noto, la destra repubblicana non solo si è imposta nelle ultime elezioni presidenziali pur totalizzando quasi tre milioni di voti in meno dei democratici, ma nel passato recente si è imposta, anche dinanzi a palesi brogli, grazie al potere giudiziario, che ha impedito il riconteggio dei voti che avrebbe certificato, quasi certamente, l’affermazione del candidato democratico. Ora il governo degli Stati uniti sembra ormai talmente assuefatto a considerare valide le elezioni nei paesi non alleati o dipendenti, esclusivamente se i risultati vanno a favore dei propri candidati, da essere tentati a usare tale stratagemma anche nelle elezioni presidenziali nazionali. Tanto che l’attuale governo, rischiando di non essere confermato, da tempo allude al fatto che la sua eventuale sconfitta non possa che essere il frutto di brogli. Perciò si rifiuta, a un mese dal voto, di riconoscere l’eventuale vittoria del concorrente cedendogli, come vuole la prassi, il ruolo di governo.

 A tale scopo l’attuale governo sembra pronto a utilizzare due stratagemmi già sperimentati recentemente per rovesciare a proprio favore i risultati elettorali. Il primo, che abbiamo visto ancora una volta all’opera nel caso delle elezioni in Bolivia, consiste nel proclamarsi vincitori sulla base dei risultati dei primi seggi in cui è avvenuto lo spoglio, considerando un evidente broglio elettorale l’eventualità che le schede successivamente scrutinate possano legittimamente modificare il risultato elettorale. In secondo luogo, come nel sopra citato caso dell’elezione di Bush Junior, sfruttare il controllo esercitato dall’esecutivo sul potere giudiziario per impedire il legittimo riconteggio dei voti nel caso ci siano seri e credibili dubbi sulla possibilità che sia stata rovesciata, arbitrariamente, la volontà popolare espressasi nelle urne.  

12/10/2020 | Copyleft © Tutto il materiale è liberamente riproducibile ed è richiesta soltanto la menzione della fonte.
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L'Autore

Renato Caputo
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