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Trump, Maduro e la “formula Noriega” contro il socialismo bolivariano

La pandemia da Coronavirus non ferma gli imperialisti che vogliono rovesciare il governo bolivariano. Il piano del Pentagono in due mosse che rischia di creare un nuovo Vietnam.


Trump, Maduro e la “formula Noriega” contro il socialismo bolivariano

Molte volte, soprattutto dopo la morte di Hugo Chávez, è capitato di chiedersi se gli Stati Uniti avrebbero invaso il Venezuela. I grandi media hanno assecondato le veline del Pentagono, esercitandosi in un gioco di allarmi e smentite, lanciando il sasso e ritirando la mano. Sta succedendo anche ora che, in piena pandemia da coronavirus, l’amministrazione Trump ha messo una taglia di 15 milioni di dollari sulla testa del presidente venezuelano Nicolas Maduro, e ha annunciato l’intenzione di applicargli la “formula Noriega”.

Quello bolivariano – ha detto il cowboy del Pentagono – sarebbe uno stato narcotrafficante e patrocinatore del terrorismo. Da qui, l’annuncio dell’invio di una flotta davanti alle coste messicane e venezuelane a cui starebbero partecipando anche l’Olanda e la Gran Bretagna. Si tratta del più grande dispiegamento militare che gli Usa hanno organizzato nella regione da trent’anni. La nuova misura coercitiva unilaterale, evidentemente falsa e evidentemente criminale in questo momento di pandemia mondiale, è stata immediatamente accolta dai governi capitalisti al soldo degli USA, dentro e fuori il continente latinoamericano, Unione Europea inclusa.

Come interpretare questa nuova discesa in campo, diretta e sfacciata, dell’imperialismo nordamericano contro il socialismo bolivariano? Intanto, come la pericolosa chiusura del cerchio di una catena di aggressioni – economiche, finanziarie, politiche, diplomatiche e anche militari – per asfissiare il paese e spingere il popolo venezuelano a rivoltarsi contro il governo socialista diretto da Nicolas Maduro.

Dall’attentato alle Torri gemelle negli Stati Uniti, dell’11 settembre del 2001, quello della “lotta al terrorismo” è stato l’argomento principe per consolidare il ruolo degli USA (il più grande patrocinatore del terrorismo) come gendarme mondiale, e per giustificare l’erogazione miliardaria di finanziamenti ai veri “stati canaglia” affinché potessero reprimere senza freni l’opposizione di classe. Ogni anno, supportati dalle grandi multinazionali dell’umanitarismo, gli USA stilano una lista di stati “che finanziano il terrorismo” nella quale, fino al processo di “distensione” di Obama, è stata sempre inclusa anche Cuba.

A partire dal 2019, soprattutto dopo l’autoproclamazione di Juan Guaidó come “presidente a interim”, l’obiettivo è stato quello di togliere al governo bolivariano la possibilità di commerciare sul mercato mondiale i proventi delle straordinarie risorse naturali che possiede il Venezuela (petrolio, oro, diamante, ferro, coltan eccetera). Proventi che, in questi vent’anni di rivoluzione, sono stati utilizzati per garantire politiche pubbliche a favore dei settori popolari alle quali viene dedicato ogni anno oltre il 73% delle entrate.

Gran parte del denaro venezuelano sequestrato nelle banche nordamericane, latinoamericane e europee, è finito nelle tasche di quella banda di criminali truffatori rappresentata dalla destra golpista venezuelana. La stessa amministrazione USA, che ha erogato milioni di dollari attraverso la sua agenzia USAID per “riportare la democrazia in Venezuela” ha chiesto recentemente conto all’autoproclamato dei 467 milioni di dollari ricevuti.

Le dichiarazioni ondivaghe della stessa amministrazione USA indicano che non vi è accordo tra i falchi del Pentagono sulla strategia da impiegare contro il Venezuela. L’ultima volta che hanno cercato di scatenare una guerra per procura, attraverso il Brasile o la Colombia, non hanno avuto esito. L’Unione civico-militare, il popolo in armi del Venezuela, la posizione del paese nel quadro geostrategico internazionale, hanno evidentemente fatto valutare i costi di un’invasione.

L’ultimo coniglio tirato fuori dal cilindro dal segretario di Stato Mike Pompeo, il “governo di transizione” che Trump vorrebbe imporre al Venezuela in cambio della fine delle “sanzioni”, prevede “l’esclusione sia di Maduro che di Guaidó”. Tutto indica, dunque, che l’autoproclamato sia ormai considerato un cavallo perdente, nonostante si continui a erogargli – come lo stesso Guaidó ha dichiarato in questi giorni – milioni di dollari sottratti al popolo venezuelano, da usare evidentemente a fini destabilizzanti.

Che la Colombia del burattino Duke sia un attore attivo nella destabilizzazione del Venezuela non è un segreto. Sul suo territorio, dove ogni giorno vengono impunemente assassinati militanti di opposizione, si allenano forze d’invasione legate all’estrema destra venezuelana, che hanno provato varie volte a rovesciare Chávez e continuano a provarci con Maduro. Lo ha confermato anche recentemente la confessione di un ex ufficiale venezuelano, Cliver Alcalà, che ha coinvolto direttamente l’autoproclamato nell’acquisto di un formidabile quantitativo di armi e esplosivi.

L’estrema destra venezuelana ha già tentato varie volte di uccidere Maduro: con i droni, con un golpe fallito l’anno scorso, con l’incursione di paramilitari che, anche adesso, cercano di approfittare della mano tesa del governo bolivariano nei confronti delle migliaia di venezuelani che cercano di rientrare nel paese via terra dalla frontiera, lunga oltre 2.500 km.

La taglia degli USA è di sicuro un ulteriore invito all’“omicidio mirato”, a cui gli Stati Uniti (e Israele) continuano a ricorrere, come ha dimostrato di recente l’eliminazione del generale iraniano Soleimani. I personaggi di opposizione, accusati o condannati per gravi delitti, che hanno trovato rifugio negli USA, hanno infatti più volte minacciato “Maduro e Cabello” e invitato apertamente Trump ad agire contro di loro come hanno fatto con il generale iraniano.

Il nuovo piano del Pentagono si è articolato in due mosse. La prima, che si stava preparando da tempo, è stata quella di dichiarare quello venezuelano uno stato “narcotrafficante e terrorista”. Il cowboy della Casa Bianca si è spinto fino a mettere una taglia di 15 milioni di dollari sulla testa di Maduro e di altri dirigenti bolivariani. I dati mostrati dal presidente Maduro e dal presidente dell’Assemblea Nazionale Costituente, Diosdado Cabello, hanno ricordato quale sia la reale rotta del narcotraffico, che non passa per il Venezuela.

Persino l’ultimo rapporto del 2019 dell’agenzia antidroga nordamericana, la DEA, ha indicato il Messico, il Guatemala e l’Ecuador come i punti di transito della droga verso gli Stati Uniti, il principale consumatore mondiale di stupefacenti, che si rifornisce dal principale produttore mondiale, la Colombia. Vale, inoltre, ricordare, come e chi e perché abbia creato i grandi cartelli del narcotraffico, unificando le bande che fino ad allora agivano in modo “artigianale” nei paesi come il Messico, dove la povertà spingeva e spinge molte famiglie contadine a volgersi verso il narcotraffico per sopravvivere.

Dalla guerra contro l’Unione Sovietica in Afghanistan nel secolo scorso, a quella contro il sandinismo, alle operazioni di destabilizzazione attuali, la CIA si è servita del narcotraffico a fini tutt’altro che umanitari, e la DEA ha fatto da paravento. Basta leggere i rapporti del governo bolivariano in merito ai sequestri di droga, effettuati dopo la cacciata della DEA dal paese.

Tuttavia, Trump e il suo segretario alla Difesa, Mark Esper, arrivano a dichiarare che non permetteranno ai cartelli della droga di approfittare della pandemia “per minacciare la vita dei cittadini statunitensi”, e che a Maduro potrebbero applicare la “formula Noriega”. Un argomento che può consentire diverse forme di aggressione militare al paese bolivariano: dagli “omicidi mirati” dei dirigenti chavisti indicati a bersaglio, all’invasione del territorio attraverso paramilitari, al blocco navale.

Richiamando esplicitamente l’aggressione di Panama, iniziata il 20 dicembre del 1989, l’amministrazione nordamericana evoca un preciso scenario. Quella operazione viene infatti considerata come il primo atto di un copione che gli Stati Uniti avrebbero poi riattivato altre volte.

Emerge il ruolo dei media nel costruire un nemico odioso da abbattere con tutti i mezzi, e i pretesti usati per giustificare l’aggressione: il “ripristino della democrazia” contro un “dittatore narcotrafficante”, e la “necessità di proteggere i cittadini statunitensi presenti nell’area del Canale di Panama”, il cui controllo costituiva il motivo principale dell’intervento militare. E gli scenari che si aprono sono altrettanto inquietanti di quelli già visti in tutte le situazioni in cui il gendarme nordamericano ha voluto “ripristinare la democrazia”.

Ci sarà un’aggressione armata al Venezuela? Intanto, emergono alcuni elementi di riflessione, che possono tornare utili anche in casa nostra, nel momento in cui i centri del grande capitale internazionale cercheranno di riprendere il controllo a fronte delle contraddizioni aperte dal Covid-19 a livello globale.

Di fronte a una tragedia planetaria che mette a nudo i meccanismi dello sfruttamento capitalista e le sue conseguenze per i settori popolari. Di fronte al cinismo di quei governanti che, come Trump, considerano i morti come “vittime collaterali”. Di fronte al fallimento della globalizzazione capitalista e della sua falsa “integrazione” europea, ecco risorgere il mai sopito “pericolo rosso”, incarnato oggi nella persona di Nicolas Maduro.

Come hanno riconosciuto sia l’ONU che l’OMS, il Venezuela bolivariano, pur duramente provato da anni di “sanzioni” criminali, sta lottando efficacemente contro la pandemia. Ha immediatamente messo in campo una “quarantena sociale e radicalebasata sulla partecipazione consapevole e organizzata della popolazione, e su un controllo radicale del contagio mediante l’applicazione gratuita e di massa dei tamponi.

Ha messo in atto misure di protezione radicale prima di tutto per i lavoratori e le lavoratrici e per il settore “informale”. Ha bloccato gli affitti, azzerato i debiti nei confronti delle banche, diffidato gli imprenditori dal licenziare i dipendenti, e imposto la totale gratuità dei servizi di telecomunicazione, che già – come tutti gli altri servizi – si pagano con cifre irrisorie.

Lo ha fatto senza tentennamenti, perché non è ostaggio degli industriali come nei paesi capitalisti. Ancora una volta, quindi, è un esempio da occultare. E a questo pensano gli apparati ideologici di controllo, per dirla con Althusser.

A un lettore europeo che non si interessi alla politica internazionale e si limiti a scorrere i titoli del giornale, del Venezuela restano infatti in testa due chiodi fissi: che “Maduro è un dittatore”, e che il governo bolivariano è un “regime dittatoriale”. Le cose vanno ancora peggio se si tratta di radio o di televisione, dove l’informazione è ancora più rapida, ma rimane più impressa perché associata a un’immagine.

Tanto meno un lettore giovane intenderà immediatamente cosa significhi la “formula Noriega” che Trump vorrebbe applicare al Venezuela, ma di sicuro nella sua testa la definizione di “narco-dittatura” s’incastrerà perfettamente con il ritornello mediatico che è abituato a sentire, anche se la figura cristallina del presidente venezuelano Nicolas Maduro non consente accostamenti con quella ambigua di Noriega.

Seminare disorientamento e confusione è parte integrante della strategia imperialista, della moderna comunicazione di guerra che ha perfezionato antichi meccanismi di propaganda. La politica degli allarmi è peraltro un elemento intrinseco delle società complesse, che serve per testare e ridefinire nuovi livelli di consenso a favore delle classi dominanti.

L’Italia è, a questo riguardo, un elemento paradigmatico, che ha fatto scuola prima con la politica dell’emergenza “antiterrorismo” contro il conflitto di classe degli anni 1970-’80, poi con quella “antimafia”, un meccanismo attraverso il quale il grande capitale ha cambiato cavallo, e le classi dominanti hanno fatto la muta, istituzionalizzando il riflesso d’ordine di risolvere i conflitti sociali attraverso i tribunali. Un meccanismo antesignano del lawfare, che vediamo imperversare da tempo nel nuovo scontro di potere nel continente latinoamericano.

La più grande vittoria della democrazia borghese è quella di far interiorizzare ai dominati la legalità dello sfruttamento capitalista, occultando la cruda realtà dei rapporti tra capitale e lavoro. La forza dell’imperialismo è quella di presentare come “giusta e umanitaria” l’aggressione contro paesi ricchi di risorse che non vogliano farsi sottomettere.

E così diventa accettabile che un capitano di industria o un banchiere guadagni in Italia 6 milioni all’anno e che un salario minimo non basti per arrivare alla fine del mese. E così, diventa accettabile che, in questa Europa devastata, la NATO chieda alla Ue di aumentare le spese militari e che si impedisca di chiedere il conto agli sfruttatori con il circo delle emozioni e delle “donazioni”.

L’11 aprile del 2002, l’oligarchia venezuelana, i media privati e quei personaggi dell’estrema destra che vediamo ancora agire nello stesso modo agli ordini di Washington, hanno organizzato un colpo di stato in Venezuela. Il popolo ha però reagito riportando a Miraflores il presidente che aveva eletto, Hugo Chávez. Da allora, il socialismo bolivariano ha coniato il seguente slogan: “A ogni 11 segue il suo 13”, ricordando che il golpe del capo della Confindustria venezuelana Pedio Carmona Estanga, allora durò 48 ore. Un’invasione del Venezuela, oggi, s’incontrerebbe con quella che Maduro ha definito “la furia bolivariana”, e incendierebbe il continente, trasformandolo in un nuovo Vietnam.

11/04/2020 | Copyleft © Tutto il materiale è liberamente riproducibile ed è richiesta soltanto la menzione della fonte.

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