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Un mondo senza cielo

Viaggio nei campi profughi palestinesi in Libano.


Un mondo senza cielo

Ogniqualvolta venivo a contatto con la realtà dei rifugiati mi sentivo diminuito, diminuito come uomo perché non avevo fatto nulla per impedirla. Sapevo che non avrei potuto più ignorare. Dovevo ribellarmi, non potevo accettare ciò che vedevo come realtà "normale", come condizione "naturale". La maggioranza silenziosa quanti crimini commette? (Bruno Breguet, La scuola dell'odio. Redstarpress ed.)

Al popolo palestinese che è stato e continua ad essere: espulso, torturato, schiacciato, imprigionato, bombardato, diffamato, ingiuriato, decimato, da un invasore assassino, senza scrupoli e senz’anima, dedichiamo questo piccolo contributo.

di Laboratorio Libano

Beirut, novembre 2015

Odori che ci avvolgono.

Odori che tornano di nuovo nei nostri nasi dopo un anno di assenza, odori di spezie, frutta, rifiuti, smog; odore di carne appesa penzolante e mosche che la circondano, odori che cambiano ad ogni passo, che si mischiano: acri, dolci, a volte indefinibili e, per chi non è qui, difficili da descrivere.

Poi rumori.

Rumori di gente che parla e che si accalca, chi strilla per vendere merci di ogni genere perché, spesso, questa è una delle pochissime forme di sostentamento insieme alla manovalanza a basso costo ed in nero; clacson di piccoli, improbabili scooter riassemblati da vecchie moto, auto stanche di passare di mano in mano che cercano un varco impossibile tra la folla, indifferenti alle voragini del terreno sempre più profonde ed impossibili. Impossibile, come sembra impossibile, a noi, pur avvezzi da anni, poter vivere qui.

Quello che schiaccio innavertitamente, scivolandoci un po’ sopra, non è un escremento come pensavo in un primo momento e nemmeno una buccia di banana, ma un grosso ratto, morto in decomposizione in mezzo alla via

La via è quella del mercato. Il mercato vicino alla moschea che ti inghiotte e ti espelle direttamente all'interno del campo profughi palestinese di Chatila, a Beirut.

Il campo profughi di Sabra e Chatila che nel 1982 subì una delle tante, troppe violenze da parte di Israele: lo stupro, il massacro da parte dei fascisti delle Falangi libanesi, movimento nazionalista e cristiano maronita, appoggiato e coperto dall'esercito capeggiato da Ariel Sharon, costò la vita ad oltre tremila palestinesi. Tremila persone. Tremila innocenti.

Per arrivare a tremila, provate a fare così: contate fino a 100 ed immaginatevi la massa di persone, son tante. Ora continuate fino a 200, 500, 6, 7, 8, 900, e poi 1000, e ancora non è finita, 1100 morti.

Non smettete, 1200, 3, 4… 1600.

2500… ecco che ci siamo quasi.

Immaginateli ora distesi, uno dopo l'altro, quanti chilometri fanno 3000 morti, 3000 cadaveri?

E poi immaginate il disegno che può fare questa distesa di corpi inermi, che ora si stringe e diventa piccola e stretta come la sagoma di un bimbo o come quella di un anziano, provate a volgere lo sguardo verso vostro figlio di 5, 8, 10 anni e via discorrendo, o provate ad osservare la curva dell'esile corpo di un vecchio genitore, o di un nonno. Ecco che avrete molto ben presente come possa diventare una lunga fila di corpi di tutte le età.

Una distesa innocente.

Già, quante volte capita di sentirlo sui media occidentali questo termine?

“Innocente”, letteralmente: colui che non ha nuociuto a nessuno e dunque è incolpevole.

Allora, quanto siamo “innocenti” se abitiamo a nord del mondo e quanto lo siamo se abitiamo a sud? Quanto ancora cambia di significato se ci ritroviamo ad abitare in Medio Oriente, per esempio? È bene ricordare che nessun monumento si è mai spento per onorare queste vittime altrettanto innocenti, così come le tante altre vittime di macabri, lucidi, efferati gesti dettati da malcelati disegni “divini”.

Ancora piangiamo queste innocenti vittime, ancora piangiamo quelle di Sabra e Chatila. Ancora la terra sanguina e chiede giustizia per questo, ma nessuna notizia in prima pagina, nessuna maratona televisiva, nessuna compassione cristiana per chi ha la sfortuna di stare al di là dell’occidente pulito. Dove erano i timorati di dio, dove le tante persone che oggi si accalcano per stare in prima fila con un lumino in mano per dire “io c'ero”?

Non rubate il dolore che viene da zone forse nemmeno segnate sulle mappe di “Google Earth”, non appropriatevi dello status di Innocenti con la I maiuscola.

Ancora oggi, a distanza di tanti anni dalla prima volta che andammo in Libano, è difficile sostenere lo sguardo delle mamme che hanno perso un bambino, un figlio, un marito. Di un anziano che è rimasto solo perché l'intera famiglia è stata sterminata, annientata. Ti guardano solo con dignitoso silenzio, perché a parlare sono rimasti i loro profondi, asciutti occhi innocenti.

E noi siamo ancora una volta qui, in Libano. Oggi è 21 novembre e stiamo andando al centro di Beit Atfal Al- Assomoud (BAS), ovvero la Casa Dei Bambini Della Resistenza, un’associazione palestinese e libanese nata nel 1976 a seguito di un altro massacro, quello di Taal Al-Zaatar, un campo profughi alla periferia di Beirut.

Questo campo subì l’invasione da parte delle milizie cristiane. Anche qui furono circa tremila i profughi palestinesi trucidati.

Perché se non sei morto lì, in Palestina, nella terra del tuo trisavolo, di tuo nonno e di tuo padre, se sei sopravvissuto, è bene che tu sappia che non ci tornerai, né da vivo né da morto.

Beit Atfal Assomoud dopo il massacro si diede una missione, un dovere: la prima cosa urgente da fare era quella di soccorrere ed assistere i tanti bambini di T. A. Zaatar rimasti orfani, senza distinzione di nazionalità o religione. Ed è infatti rimasta così: un’associazione laica ed indipendente.

Da allora, grazie all’impegno di chi l’ha fondata e di chi ci lavora, BAS è riuscita ad aprire dieci centri in tutto il Libano, ed ogni centro è una meta segnata, un gol fatto ed un numero terribile alla stesso tempo, se si pensa che sono dodici i campi profughi palestinesi in tutto il Libano, a significare che un’umanità di più d’una generazione è incarcerata in queste prigioni a cielo aperto.

“L’umanità nel sottosuolo”, come la definisce l’amico e compagno Kassem Aina.

Kassem è il direttore gnerale di Beit Atfal Assomoud, lo stiamo raggiungendo per un ‘intervista sulla situazione attuale dei campi profughi a pochi giorni dalla strage del 12 novembre a Burj Al Barajneh.

La strage che è costata la vita a 43 persone, innocenti, e oltre 200 feriti, è stata rivendicata dallo Stato islamico. Nel suo comunicato l’organizzazione jihadista sunnita scrive che “soldati del Califfato” hanno compiuto l’attentato a Beirut contro un “raggruppamento di sciiti” e “apostati”, tradotto: contro Hezbollah (Partito di Dio).

L’esplosione è stata la prima a colpire la periferia meridionale di Beirut dal giugno 2014. Tra il luglio 2013 e il febbraio 2014 ci sono stati 9 attacchi rivendicati da estremisti sunniti. Le vittime sono state molte decine, quasi sempre civili e, dunque, sempre innocenti.

Il Libano - da sempre fragile e in perenne equilibrio per non far esplodere con le sue complessità e contraddizioni la polveriera insita nella sua stessa anima - è stato segnato nei mesi scorsi da forti proteste sociali, resta politicamente spaccato a metà tra il Fronte “14 marzo” filo occidentale e anti Bashar Assad e lo schieramento “8 marzo” guidato da Hezbollah che invece appoggia il presidente siriano. Da più di due anni dunque questa rottura tra i due schieramenti ha impedito l’elezione del nuovo capo dello Stato mentre Hezbollah ha comunque confermato, attraverso il suo segretario generale Hassan Nasrallah, che continuerà a combattere in Siria.

Siamo arrivati, entriamo nell’ufficio di Kassem Aina che, come sempre, ci attende col suo incredibile e indescrivibile sorriso. Cominciamo l’intervista e a prendere i nostri appunti che pubblicheremo sul prossimo numero.

27/11/2015 | Copyleft © Tutto il materiale è liberamente riproducibile ed è richiesta soltanto la menzione della fonte.

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