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La lotta di classe nel movimento contro il genocidio

Dopo due settimane di mobilitazione massiva il governo italiano è in difficoltà. Come colpire nel segno nell’interesse del popolo palestinese e di quello italiano?


La lotta di classe nel movimento contro il genocidio

Dopo almeno 15 anni di silenzio l’Italia torna ad essere un paese di mobilitazione sociale. Basta leggere gli articoli delle testate internazionali, vedere le valutazioni dei gruppi politici esteri, scorrere i social: ovunque si parla dell’Italia e della grandiosa mobilitazione che, partendo apparentemente dal nulla, ha infiammato per due settimane il nostro paese. Il momento culminante è stato indubbiamente la manifestazione nazionale a Roma di sabato 4 ottobre, dove ha partecipato più di un milione di persone.

La questione che si pone ora, tuttavia, è come poter andare avanti. Come in ogni contesto, la battaglia contro il nemico politico è di resistenza, più che di scontro immediato; ecco perché si rende necessario rallentare, ristrutturare il movimento, trovare uno sbocco al caos dei primi giorni, evitare di cadere nella trappola di esaurire le energie contro un muro. A questo scopo, si rende necessario organizzare i comitati di base nati dalla mobilitazione rendendoli spazi di discussione, formazione, democrazia diretta della popolazione, combattendo ogni tendenza burocratica o avventurista del ceto politico al fine di allargare il più possibile l’influenza del movimento.

Di pari passo al lavoro rivolto alla totalità della popolazione bisogna porsi anche la questione di come avvicinare alla protesta, che è di fatto una rivolta contro il governo come attore fondamentale che può intervenire contro il genocidio in Palestina, quei segmenti della popolazione che hanno meno tempo libero e che sono più ricattabili in caso di sciopero. Non è un segreto, infatti, che nel sindacato l’adesione maggiore agli scioperi si sia registrata nel settore pubblico, tipicamente più garantito; allo stesso modo nelle università la più alta partecipazione si è riscontrata tra le studentesse e gli studenti di ceti più abbienti o, comunque, non impegnati lavorativamente. In questo senso diventa fondamentale, per permettere di fatto la partecipazione di questi segmenti sociali alla mobilitazione e per porre seriamente in difficoltà il governo Meloni, legare le questioni internazionali, che spesso muovono sulla base di un’adesione morale, alle questioni politiche e sociali interne al paese. Lo sciopero e la protesta devono essere politici, ma per essere davvero politici devono essere concreti, ovvero minacciare seriamente l’organizzazione della produzione e la distribuzione delle risorse nel paese.

Nel sindacato, in questo senso, è ottima la convocazione di una manifestazione nazionale al 25 ottobre, che ci auguriamo venga preparata con l’agitazione di tutto il mondo del lavoro, che ha un’ampia piattaforma rivendicativa. Nelle scuole e nelle università questo elemento del risvolto sociale della protesta ancora fatica ad emergere, ma la sua necessità si fa ogni giorno più impellente pena la sconfitta della mobilitazione ed una nuova disillusione della popolazione. È necessario più che mai battersi per la democrazia assembleare, la formazione collettiva, l’organizzazione e l’articolazione del gruppo politico; bisogna mostrare che con l’unità si vince più che con l’estremismo di individui o piccoli gruppi.

Finché la Palestina non sarà libera dal fiume al mare. Finché chiunque nel mondo non sarà libero.

10/10/2025 | Copyleft © Tutto il materiale è liberamente riproducibile ed è richiesta soltanto la menzione della fonte.

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L'Autore

Levin
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