Stampa questa pagina

La lotta per la scuola pubblica quale lotta per il salario e la democrazia

Per una ricostruzione storico-filosofica dei motivi per cui tutti i lavoratori salariati, la forza lavoro in formazione e i sinceri democratici dovrebbero battersi contro il resistibile tentativo del governo di portare a compimento l’ormai ventennale processo di dequalificazione della scuola pubblica statale.


La lotta per la scuola pubblica quale lotta per il salario e la democrazia

Per una ricostruzione storico-filosofica dei motivi per cui tutti i lavoratori salariati, la forza lavoro in formazione e i sinceri democratici dovrebbero battersi contro il resistibile tentativo del governo di portare a compimento l’ormai ventennale processo di dequalificazione della scuola pubblica statale. In effetti, tanto più il sistema formativo sarà privatizzato e finanziato con la tassazione indiretta, tanto meno ci sarà mobilità sociale, requisito fondamentale della democrazia moderna. 

di Renato Caputo

La mattina del 5 maggio, al termine della rassegna stampa, sulla radio pubblica una serie di interventi di esponenti della società (in)civile attaccavano i lavoratori della scuola che si apprestavano a partecipare alla più notevole giornata di sciopero degli ultimi anni. In tale canea di luoghi comuni reazionari, volta a (dis)informare l’opinione pubblica, spiccavano al solito gli attacchi contro gli intellettuali, nel caso specifico gli insegnanti. Al punto che un ascoltatore rivendicava la necessità di uno sciopero dei genitori contro il basso livello degli insegnanti. 

Tale argomentazione, improntata apparentemente al sano buon senso umano, è in realtà in contraddizione con se stessa. In effetti la crescente dequalificazione della scuola pubblica è proprio il risultato di una serie di (contro)riforme dell’istruzione statale, volte a favorire le scuole private, contro cui i lavoratori della scuola, in primo luogo gli insegnanti si apprestavano a scioperare. Ciò che appariva invece dalla trasmissione era la “giusta” ira dei produttori nei confronti dei faux frais, ossia dei costi improduttivi della produzione, in questo caso rappresentati dagli insegnanti, i quali addirittura si concedevano il lusso di scioperare. Il messaggio veicolato dai mezzi di (dis)informazione di massa, del servizio pubblico (sempre più orientato a interessi privati), era rivolto a separare i lavoratori veri, produttivi, che faticavano per sostenere quei fannulloni degli intellettuali, ossia in questo caso degli insegnanti. Se ne deduceva che l’insoddisfacente livello dei salari sarebbe dovuto alle alte tasse necessarie per finanziare quel costo improduttivo rappresentato dall’istruzione pubblica che, in quanto tale, è inefficace, in particolare a confronto della privata. Niente paura, a difesa del consumatore, tartassato dalle tasse, interveniva il nuovo uomo della provvidenza, pronto a rottamare i costi improduttivi, applicando il modello privato alla scuola statale. Per far ciò è, però, necessario superare tutti i lacci e lacciuoli burocratici degli organi democratici della scuola pubblica, altri costi improduttivi e inefficaci, dando pieni poteri di azione all’esecutivo, ossia al preside manager. Quest’ultimo potrà finalmente cacciare i fannulloni, costringendo chi vuole insegnare a faticare quanto faticano i lavoratori del privato, in nome dell’uguaglianza (al ribasso) naturalmente. Alla base di questi argomenti capziosi e sofistici vi è ovviamente una completa mistificazione della realtà, che però sfugge del tutto all’opinione pubblica anestetizzata dal pensiero unico dominante. 

Del resto, ne Il capitale Marx sottolineava che «ogni scienza sarebbe superflua, se la forma fenomenica e l’essenza delle cose coincidessero immediatamente» [1]. Tanto più che già Francis Bacon, per altro rielaborando il mito della caverna platonico, aveva insistito sulla necessità propedeutica a una visione del mondo scientifica, di liberarsi dagli idòla, ossia dai pregiudizi, in particolare da quei idòla tribus comuni a tutti gli uomini, che corrispondono al cattivo senso comune. 

Apparentemente, ossia dal punto di vista del cattivo senso comune, le riforme della scuola realizzate dai governi succedutisi in Italia, e più in generale nell’Unione europea, negli ultimi venti anni non c’entrano nulla con la questione salariale. Questo perché si tende a confondere l’apparenza fenomenica del salario come busta paga con la sua essenza sociale. In tal modo si perde di vista la necessità di distinguere analiticamente, accecati dall’immediatezza empirica dello stipendio, i tre momenti fondamentali in cui si articola il salario. Quest’ultimo, in effetti, è in quanto tale sociale in quanto corrisponde alla quantità di valore che, in una determinata epoca storica, la classe dominante rende alla classe dei lavoratori, nel suo complesso, per consentirgli di riprodursi come merce forza lavoro. Di tale misura sociale fanno parte a pieno titolo oltre al salario diretto, la forma fenomenica e immediata della busta paga, il salario differito, ossia quella componente data a chi non è più funzionale alla valorizzazione del capitale, e il salario indiretto. Quest’ultimo corrisponde ai servizi necessari alla riproduzione della forza lavoro, di cui fa parte a pieno titolo l’istruzione dei futuri appartenenti alla classe dei salariati. Dunque è evidente che il processo di dequalificazione della scuola pubblica non solo non comporta, come si vorrebbe dare a intendere, un guadagno per i produttori (di valore), ma implica per loro una perdita netta. 

Facendo astrazione dalle oscillazioni dovute ai rapporti di forza fra le classi sociali, il livello medio del salario corrisponde alla quota di valore destinato alla riproduzione della forza lavoro, ossia al suo valore di scambio. Quest’ultimo però, come ogni valore di scambio, muta sensibilmente a seconda del suo livello, quanto più è di qualità, tanto più è necessario tempo per produrlo e riprodurlo, tanto più vale. Quindi i livelli delle componenti diretta, indiretta e differita del salario variano da paese capitalista a paese capitalista a seconda di che tipo di merce lavoro si intende mediamente produrre e riprodurre. Se si ha di mira competere sul mercato mondiale dal punto di vista della produttività del lavoro, sarà necessario disporre di forza lavoro qualificata, che ha necessariamente alti costi di produzione. Se si intende competere puntando tutto sul livello di sfruttamento della forza lavoro, aumentando il plusvalore assoluto (l’orario di lavoro) e relativo (i ritmi di lavoro), mantenendo al livello minimo indispensabile il salario, si produrranno working poors poco qualificati e, dunque, prodotti a costi limitati e destinati a svolgere lavoretti (Jobs) sempre più dequalificanti e precari. 

Tale è la direzione perseguita dalla classe dominante italiana negli ultimi decenni, realizzata nel modo più efficace dalla classe dirigente di centro-sinistra (borghese), in quanto mediamente più raffinata e consapevole. Tale consapevolezza è stata apertamente, ossia spudoratamente, teorizzata da un presidente del consiglio sedicente di sinistra che ha sostenuto la necessità di fare dell’Italia un paese normale. Con il che intendeva un paese simile alla maggioranza dei paesi dell’Unione (imperialista) europea in cui la lotta di classe era condotta in modo consapevole soltanto dall’alto verso il basso, ossia dalle classi dominanti. Per far ciò era necessario sgominare, non solo dal punto di vista della coscienza, la classe che oggettivamente aveva potuto mettere in discussione il dominio della borghesia negli anni Sessanta e Settanta, ossia la classe operaia e più in generale il proletariato urbano. A tale fine è stato lanciato un programma organico di deindustrializzazione del paese, attraverso un processo di nanificazione dell’apparato produttivo, che al contrario per poter competere, in particolare in momenti di crisi, ha bisogno di concentrarsi. 

Tale opzione alle lunghe suicida – ma la classe dominante dovendo seguire la logica del profitto è incapace di pianificare il futuro non immediato – è dovuta al grande terrore suscitato negli anni Sessanta e Settanta dal fantasma del comunismo. Quest’ultimo ha mantenuto tale forma poco consistente, per la sua incapacità, fra gli anni Sessanta e Settanta, di sfruttare la favorevole congiuntura economica al fine di sviluppare le imponenti lotte di classe condotte sul piano sociale sul piano politico della conquista del potere. Responsabile di tale fallimento storico è stato al solito il riformismo (sempre di destra) – dei sostenitori della vita italiana (riformista) al socialismo – e l’opportunismo (sempre di sinistra) dell’operaismo, anch’esso malato di tradeunionismo. Piuttosto isolato nel mondo occidentale e non intenzionato a sfidare la borghesia sul piano del potere politico, il movimento dei lavoratori ha finito, secondo quanto anticipato già oltre un secolo prima da Marx, per favorire l’esportazione delle grandi attività produttive all’estero. 

Abbiamo assistito così all’effimero boom del nano capitalismo degli anni Ottanta, drogato dall’evasione fiscale (fondamento dell’attuale debito pubblico) e dalla mancata applicazione dello statuto dei lavoratori nelle piccole imprese. Negli anni Novanta non solo non si è cercato di rilanciare la produzione sviluppando la produttività mediante lo sviluppo scientifico-tecnologico – in quanto una classe lavoratrice istruita rischia di essere meno manipolabile – ma si è puntato tutto sulla terziarizzazione dell’economia, a partire dal turismo. 

Per produrre camerieri, bagnini, nani e ballerine da destinare a tale settore una scuola pubblica relativamente di qualità, che la classe del proletariato urbano si era conquistata nei decenni precedenti, era certamente un costo improduttivo. Andava, dunque, smantellata, facendo da cavia e battistrada nel processo di dequalificazione dell’istruzione pubblica a vantaggio della privata pianificato all’interno dell’Unione (imperialista) europea. 

Principale artefice di tale dequalificazione dell’istruzione pubblica è stato il primo governo di centro- sinistra (borghese) degli anni Novanta, che sfruttando a pieno l’insegnamento gramsciano, non a caso il protagonista di tale processo portava lo stesso nome di un importante dirigente del PCI, ha realizzato una vera e propria rivoluzione passiva. Giocando sugli evidenti limiti di una scuola ancora improntata al modello liberale dei grandi esponenti (della controriforma) dell’idealismo Croce e Gentile, e sul modello centralistico ereditato dal fascismo, si è puntato sull’autonomia in primo luogo finanziaria degli istituti, per arrivare oggi all’autonomia dei singoli presidi manager nella selezione, nell’uso e nell’allontanamento (anticamera del licenziamento) della forza lavoro. 

Dunque l’attuale (contro)riforma che il governo sta imponendo in parlamento rappresenta il naturale e organico compimento di tale processo di dequalificazione dell’istruzione destinata alla classe dei lavoratori in formazione nelle scuole pubbliche. Tale processo è stato realizzato essenzialmente mediante una rivoluzione passiva da governi di centro-sinistra (borghese), che hanno così realizzato i sogni – incapaci di tradursi in realtà – dei governi del centro-destra (borghese). Ciò è stato reso possibile in primo luogo grazie alla egemonia quasi incontrastata del centro-sinistra (borghese) sulla dirigenza del sindacato confederale e dall’assoluta impotenza del sindacalismo rivoluzionario (di matrice sorelliana). 

Il piano di (contro)riforma della scuola è organico non solo al processo di centralizzazione del potere – secondo un modello autoritario bonapartista, realizzato paradossalmente da un partito chiamato democratico (ossia potere dei demos, ovvero dei molti) che si definisce liberale (teoria politica anti- assolutista fondata sulla divisione del potere) – ma altresì al Jobs act. Non solo in quanto la dequalificazione della scuola pubblica è funzionale a preparare i figli delle classi meno abbienti a garantire il ricambio generazionale della precaria moltitudine impiegata nei lavoretti (Jobs), ma perché applica il modello del Jobs act, fondato sulla cancellazione dello Statuto dei lavoratori, a partire dall’articolo 18, agli insegnanti. 

Tanto più che la loro costante ricattabilità, da parte dei presidi manager, che stabiliranno arbitrariamente chi far lavorare, su quali mansioni e con quale retribuzione, renderà i docenti sempre più acritici trasmettitori del pensiero unico dominante, alla faccia della libertà di insegnamento iscritta in una Costituzione resa sempre più lettera morta dall’incapacità delle forze sinceramente democratiche di farla applicare. In tal modo il sapere trasmesso alla forza lavoro in formazione sarà un sapere non critico, volto unicamente alla trasmissione dell’ideologia dominante, ossia l’ideologia delle classi dominanti, per poter continuare a far marciare il nemico alla testa del proletariato. 

In tal modo si vuole portare a compimento il processo di cancellazione della democrazia in questo paese, conquistata in particolare dalla resistenza e dalle lotte sociali degli anni Sessanta e Settanta, in nome del modello liberale puro (ossia a-democratico) dominante nel mondo anglosassone. Tale modello, dal punto di vista dell’istruzione, offre una formazione di qualità nelle scuole private, che danno accesso alle funzione sociali dominanti, dirigenti e intellettuali, e una formazione di scarsa qualità garantita alla forza lavoro manuale in formazione. Così più si è in grado di pagare più si ha una formazione di qualità, mentre chi non è in grado sarà formato da lavoratori poco motivati dalle pessime retribuzioni e dallo scarsissimo riconoscimento sociale. Un po’ come già avviene con gli avvocati, dove i ricchi possono disporre degli avocati più prestigiosi e motivati, mentre i poveri devono accontentarsi di avvocati di ufficio poco pagati e ancora meno motivati. Il ceto medio per poter studiare, come per avere diritto a una difesa non troppo scadente in tribunale, dovrà indebitarsi pesantemente, ricevendo così nei fatti per lo stesso impiego una retribuzione notevolmente inferiore di quella di cui gode un rampollo delle classi dominanti. 

Dunque, l’attuale crisi strutturale, innescata dal contrasto fra sviluppo delle forze produttive e rapporti sociali di produzione, si traduce in quella che Gramsci definiva una «crisi profonda della tradizione culturale e della concezione della vita e dell’uomo» [2]. In altri termini, la tendenza economica a ridurre la libera concorrenza fra individui alla concorrenza fra monopoli procede in parallelo con la limitazione della concorrenza fra chi aspira a svolgere funzioni direttive. La società capitalistica diviene così sempre meno capace d’espansione, in quanto progressivamente i membri della classe dirigente non sono più selezionati nell’intero corpo sociale, ma all’interno delle classi sociali dominanti. In tal modo tende a scomparire la differenza fra le moderne classi sociali – permeabili al passaggio molecolare dall’una all’altra da parte degli individui più intraprendenti – e la rigida distinzione degli uomini in ceti naturalizzati, in ordini cristallizzati propria del medioevo [3]. Del resto nelle fasi di crisi economica anche l’istruzione di massa diviene un problema sociale, in primo luogo per la disoccupazione crescente degli strati medi intellettuali e la frustrazione delle aspirazioni dei giovani studenti. Così, in assenza di una forte opposizione di classe, la classe dominante tenderà a ristrutturare il sistema formativo per renderlo funzionale ai propri obiettivi corporativi immediati. La scuola pubblica, dunque, non mirerà più a formare cittadini tendenzialmente in grado di divenire classe dirigente, ma nella maggior parte dei casi si limiterà a una formazione tecnica e professionale legata a interessi economici di corto respiro (si pensi alla tendenza dell’attuale governo di limitare pesantemente il diritto allo studio nella scuola pubblica, sostituendolo con ore di lavoro prestate gratuitamente presso privati) [4]. 

Possiamo, dunque, sostenere con Gramsci che «esiste democrazia tra il gruppo dirigente e i gruppi diretti, nella misura in cui [lo sviluppo dell’economia e quindi] la legislazione [che esprime tale sviluppo] favorisce il passaggio [molecolare] dai gruppi diretti al gruppo dirigente» [5]. È, quindi, dirimente la funzione del sistema istruttivo e formativo. Quanto più esso sarà pubblico e aperto a tutti, tanto più sarà possibile il passaggio «molecolare» degli individui più meritevoli e capaci delle classi dominate nelle classi dominanti. Tanto più il sistema formativo sarà privatizzato e finanziato con la tassazione indiretta, tanto meno ci sarà mobilità sociale e, quindi, verrà meno un requisito decisivo della democrazia moderna. 

Tale attacco alla democrazia, per difendere un modo di produzione agonizzante, è reso possibile in primo luogo da una irrazionale e favorevole alla classe dominante frammentazione dei lavoratori, a partire dal sindacato e dal loro partito. Abbiamo così da una parte la massa dei lavoratori generalmente più arretrati egemonizzati dalle burocrazie legate allo stesso partito di governo, dall’altra un significativo numero dei pochi lavoratori con un briciolo di coscienza di classe organizzati da un sindacalismo rivoluzionario sempre più corporativo e determinato unicamente a rafforzale il proprio orticello attaccando il sindacato confederale. 

È, dunque, indispensabile lavorare nel sindacato e partito più rappresentativo che si dice dalla parte dei lavoratori salariati, per contrastarne le burocrazie in massima parte guidate da intellettuali presi in prestito dalla classe dominante o comunque da esse egemonizzate. Al contempo è indispensabile lavorare alla costruzione e al rafforzamento di strutture consiliari, di base, volte a organizzare su una piattaforma comune e radicale i lavoratori combattivi indipendentemente dalla sigla sindacale di appartenenza. 

In mancanza di ciò il grande movimento sceso in campo per contrastare la (contro)riforma della scuola pubblica, che ha dato vita a un grandioso sciopero e a imponenti manifestazioni, sarà guidato ancora una volta da burocrazie pronte a tradirlo in cambio di qualche poltrona all’interno degli apparati dello Stato borghese. 

Sarà infine necessario da una parte legare la lotta dei lavoratori della scuola alla lotta dei lavoratori degli altri settori, dall’altra sviluppare la lotta economica sul piano della lotta politica per rovesciare da sinistra l’attuale governo espressione della classe borghese dominante. 

Note 

[1] Karl Marx, Il capitale, vol. 3, ed. Riuniti, Roma 1965, p. 953.

[2] Antonio Gramsci, Quaderni del carcere, edizione critica dell’Istituto Gramsci, a cura di V. Gerratana, 4 voll., Torino 1975, Quaderno 12, § 2, p. 1547, d’ora in poi citato con la sigla Q seguita dal numero di quaderno di paragrafo e di pagina.

[3] Per dirla ancora con Gramsci: La classe dirigente è, dunque, «“saturata”: non solo non si diffonde, ma si disgrega» (ivi Q 8 2 937), si riduce ad «una consorteria angusta che tende a perpetrare i suoi gretti privilegi regolando o anche soffocando il nascere di forze contrastanti, anche se queste forze sono omogenee agli interessi dominanti fondamentali» (ivi 13 36 1634).

[4] Per salvaguardare la piramide sociale esistente, la classe dominante tende a differenziare l’educazione per classi sociali e a restringere la formazione universale storico-critica, affinché si restringa «la base del ceto governante tecnicamente preparato (…) in modo che si ritorni alle divisioni di “ordini” giuridicamente fissati e cristallizzati più che al superamento delle divisioni in gruppi», ivi Q 12 2 1548. La riduzione della formazione generale a una specializzazione volta a inserire l’individuo in una funzione specifica dell’apparato produttivo, sin dai primi anni scolastici, è la manifestazione più evidente della restrizione degli spazi di democrazia. Nella misura in cui le differenze di classe si irrigidiscono, l’egemonia diviene tendenzialmente insufficiente alla salvaguardia di assetti sociali da cui parte crescente della popolazione viene estromessa e in cui, dunque, non può riconoscersi. Non solo le funzioni separate dello Stato non sono più progressivamente demandate alla società civile, ma i suoi istituti – volti a favorire la partecipazione attiva degli individui alla vita politica – divengono sempre più prerogativa della sola classe al potere. Nel momento in cui tale classe è satura, non essendo in grado di assimilare gli elementi più intraprendenti dei ceti subalterni, ma anzi respingendo da sé le classi intermedie, il «centralismo burocratico» si afferma incontrastato negli apparati statuali. Ciò comporta l’incremento delle funzioni intellettuali improduttive e parassitarie, volte a rafforzare il potere politico della classe dominante mediante la superfetazione della burocrazia, impermeabile, nella sua selezione, a ogni rappresentatività democratica. Su questi temi mi permetto di rinviare alla mia relazione al VII Congresso della Internazionale Gesellschaft Hegel-Marx für dialektisches Denken, Dialettica storia e conflitto. Il proprio tempo appreso con il pensiero, tenutosi a Palazzo Albani, a Urbino dal 18-20 novembre 2011. La relazione è stata poi pubblicata con il titolo Ripensando con Gramsci la democrazia e il suo rapporto con il socialismo, in Dialettica, storia e conflitto il proprio tempo appreso nel pensiero. Festschrift in onore di Domenico Losurdo, a cura di Stefano G. Azzarà, Paolo Ercolani, Emanuela Susca, La Scuola di Pitagora Editrice, Napoli 2011, pp. 339-63.

[5] A. Gramsci, op. cit. Q 8 191 1056. 

 

 

09/05/2015 | Copyleft © Tutto il materiale è liberamente riproducibile ed è richiesta soltanto la menzione della fonte.

Condividi

L'Autore

Renato
<< Articolo precedente
Articolo successivo >>