ROMA. L’invito del gruppo di lavoro Libertà delle donne nel XXI secolo in partnership con la Casa internazionale delle donne di Roma e Transform!Europe – network della  sinistra europea che riunisce 34 organizzazioni da 22 Paesi attive nella  educazione politica e nella analisi scientifico-critica
  – ci aveva coinvolte e  interessate e, come femministe, grande era l’aspettativa per questa edizione  2019 che intendeva fare il punto sulle molte questioni e contraddizioni attuali  che ruotano intorno al lavoro e al lavoro delle donne oggi e di cui daremo  conto in un prossimo articolo.
Ma tutte noi partecipanti – qualche centinaio da svariati ambiti della  società e da vari Paesi del mondo – accademiche e studiose di economia,  giornaliste e attiviste delle più diverse associazioni della galassia  femminista di formazione marxiana e con militanze diverse che spaziano  generazionalmente dagli anni Settanta ad oggi, ci siamo ritrovate ad affrontare  le tre intense giornate di riflessione e dibattito in uno stato psicologico di  distopia e quasi sdoppiamento, provocato dalle notizie sempre più incalzanti  della nuova  guerra in Siria. Se la  nostra mente e l’attenzione erano lì a Roma in via della Lungara, tutte  concentrate su dati e argomenti dibattuti nei vari panel del convegno, i nostri  sentimenti e la nostra grave preoccupazione erano rivolti al popolo curdo e a tutti i civili nel nordest della Siria, fatti  oggetto dei primi raid aerei e bombardamenti a colpi di mortaio sferrati dalla Turchia  di Erdogan che stava muovendo le truppe lungo il confine di 460 km per  unirle alle milizie locali dell'Esercito siriano, cooptate da Ankara per la  creazione di una “zona cuscinetto”  di 30 km sul confine. 
  
  Nelle ore in cui il ministero della difesa turco giocando sulla scarsa  vigilanza dell’ONU e sul sostanziale semaforo verde dato dall’Amministrazione  USA annunciava il via all'offensiva  militare “Primavera di pace”, con angoscia contavamo le prime decine di  vittime e la fuga dei profughi dai villaggi bombardati. Apprendevamo nel  frattempo con forte sconcerto del disimpegno americano unilaterale, motivato  sarcasticamente da Trump davanti alle telecamere col fatto che i Curdi “non  hanno partecipato allo sbarco in Normandia” (sic!). E questo nonostante la  presenza Nato con l’operazione “Active Fence” a difesa della Turchia da  possibili missili siriani non sia mai stata revocata dal Dicembre 2012 a oggi. 
  
  Nei giorni seguenti, nelle ore precedenti la decisione di Putin di interporre  le sue truppe sul territorio, abbiamo vissuto con rabbia le dichiarazioni e i  balbettii inconcludenti dei governi UE, mentre noi a Roma non potevamo fare  altro - seppur con un profondo sentimento di vergogna e impotenza - che stringerci  attorno alle due giovani curde presenti al convegno, Hazal e Dilar, e ascoltare  dalla loro viva voce l’accorato appello diffuso nelle stesse ore da vari media  con il nome di “Lettera delle donne  Curde a tutte le donne e ai popoli del mondo che amano la libertà” e che si  trova ben argomentato all’interno del sito  dell’associazione Women Defend Rojava.
Tra queste donne curde che si appellano al mondo per la salvezza del loro popolo e delle loro scelte di vita, molte si sono arruolate nell Yekîneyên Parastina Jin (YPJ), l’organizzazione militare fondata nel 2013 come brigata femminile dell'YPG, l’esercito che ha lottato strenuamente e ha sconfitto l’Isis diventando il simbolo della resistenza curda nel nord della Siria.
“Come donne di varie culture e fedi delle terre antiche della Mesopotamia vi mandiamo i più calorosi saluti. (…) Vi stiamo scrivendo nel mezzo della guerra nella Siria del Nord-Est. Abbiamo assistito a come le madri nei loro quartieri sono prese di mira dai bombardamenti quando escono di casa per prendere il pane per le loro famiglie. (…) Stiamo assistendo a come quartieri, villaggi, scuole, ospedali, il patrimonio culturale dei curdi, degli yazidi, degli arabi, dei siriaci, degli armeni, dei ceceni, dei circassi e dei turcomanni e di altre culture che qui vivono comunitariamente, vengono presi di mira dagli attacchi aerei e dal fuoco dell’artiglieria. (…) Come donne siamo determinate a combattere fino a quando non otterremo la vittoria della pace, della libertà e della giustizia. Per ottenere il nostro obiettivo contiamo sulla solidarietà internazionale e la lotta comune di tutte le donne e della gente che ama la libertà”.
Hazal e Dilar ci hanno poi riportato le richieste delle donne curde  alla comunità internazionale, al Congresso americano e all’ONU di porre fine all’invasione della Siria del  nord da parte della Turchia – un’invasione perpetrata con il pretesto della  sicurezza nonostante l’Amministrazione autonoma di Rojava avesse accettato  l’accordo Usa-Turchia sulla zona cuscinetto – insieme con l’appello a istituire  una No-Fly zone per la protezione della vita della popolazione civile e delle  famiglie siriane ormai costrette a una fuga rischiosa e senza meta lungo un  confine di 460 km bombardato nei suoi gangli vitali: le reti idriche ed  elettriche, le scuole e gli ospedali dei villaggi curdi e degli insediamenti  arabi e cristiani soprattutto nella zona di Qamishli, la capitale morale del  territorio.
  
  Chiedendo di tutelare quell’utopia concreta internazionalista e democratica  rappresentata oggi dal Rojava, le parole accorate e determinate di Hazal e  Dilar erano per noi quelle di tutte le donne curde che ci mettono in guardia  contro l’istituzione da parte della  Turchia di un nuovo Califfato nel nord della Siria, appellandosi alla  comunità internazionale affinché prevenga ulteriori crimini di guerra e la  pulizia e sostituzione etnica nella regione del kurdistan siriano da parte  delle forze armate turche, che a tale scopo si servono anche di cellule  jihadiste dell’Isis/Daesh, i cui militanti sono stati nell’ultimo periodo  rilasciati dalle prigioni.
Le Curde di Siria invocano oggi garanzie per la condanna di tutti i criminali di guerra secondo il diritto internazionale, e l’isolamento della Turchia che è oggi l’aggressore; serve dunque il blocco della vendita di armi alla Turchia insieme a sanzioni economiche, oltre a provvedimenti immediati per la rapida soluzione della crisi politica siriana con la partecipazione e la rappresentanza di tutte le differenti comunità nazionali del Paese, di tutte le sue culture e religioni, mutuando per il futuro della Siria proprio il modello del Confederalismo democratico di stampo internazionalista sperimentato con successo in questi anni nel Rojava e dimostratosi capace di sostenere la convivenza pacifica, libera e democratica di queste comunità nella regione, oltre che in grado di garantire la volontà e i diritti delle donne. Un modello che, come ha scritto Chiara Cruciati sul Manifesto, “non danneggia nessuno, non minaccia i confini internazionalmente riconosciuti né la sovranità della Siria. È un contributo alla sua democratizzazione. Nessuno, arabi, curdi, cristiani, musulmani, intende rinunciarci: hanno sperimentato la libertà”.
Da sempre le donne pagano il prezzo più alto nelle guerre, e  sconvolgente è stato per noi apprendere che la trentacinquenne curda Hevrin Khalaf, ingegnera civile e  leader del Future Syria Party oltre  che paladina dei diritti delle donne siriane anche presso il Parlamento  Europeo, era stata trucidata brutalmente nella giornata di sabato 12 ottobre  insieme ad altri 8 civili in un agguato teso nella zona di Suruc da miliziani  mercenari arabi filo-turchi. L’umore della nostra assemblea romana si è aperto  a una timida speranza domenica 13 ottobre apprendendo che le Forze democratiche  siriane che sostengono l’amministrazione autonoma del Rojava – le cosiddette  SDF cioè un'alleanza di milizie curde, arabe e assiro-siriache costituitasi  formalmente nell'ottobre 2015 durante la guerra civile e che riunisce anche  minoranze turkmene, armene e cecene e una brigata internazionale – avevano  raggiunto un accordo militare che stante il “via libera” venuto nei giorni  successivi dalla Russia può essere la premessa di un accordo politico con  Damasco. 
  
  La risposta a quest’ennesima guerra da parte dell’assemblea del nostro convegno  è innanzitutto la rinnovata e dolorosa consapevolezza che le efferatezze, i conflitti e la violenza sono l’inevitabile  portato di un modello patriarcale e  militarizzato del mondo, che sa solo imporre rivendicazioni egemoniche,  colonialismi e subalternità ai popoli e alle donne. Una risposta che il  convegno Libertà delle donne nel XXI secolo - 2019 ha affidato a un comunicato  e al video girato dalle ragazze curde in cui tutte insieme abbiamo gridato  nelle diverse lingue la  nostra solidarietà e la promessa del nostro impegno quotidiano affinché le donne curde non siano lasciate sole nella battaglia per  la libertà e l’autodeterminazione personale e politica sulle loro vite.
 
													  
							