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Perché non facciamo come in Francia?

In Italia manca un sindacato che, come in Francia, faccia il proprio mestiere, manca un movimento politico sinceramente riformista e, quindi, non succube come da noi alle compatibilità neoliberiste, manca la capacità di assumere un’attitudine critica nei riguardi della logica ordoliberista imposta dall’Unione Europea, infine, nel nostro paese, si sono sprecate tutte le opportunità per una inversione di rotta rispetto alla sinistra governista.


Perché non facciamo come in Francia?

In Francia il tentativo del governo di alzare a 64 anni l’età pensionabile, dagli attuali 62 – per mantenere il sistema retributivo e non passare al sistema contributivo, che darà pensioni da fame agli italiani a oltre 67 anni – ha prodotto una serie impressionante di scioperi e di oceaniche manifestazioni in tutte le città del paese da oltre due mesi. In Italia la scellerata proposta di passare al sistema contributivo, che comporta una catastrofica riduzione della pensione e le sostanziale impossibilità di goderne per i lavoratori precari, è passata con il pieno appoggio dei sindacati maggiormente rappresentativi in quanto proposta da un governo tecnico sostenuto dal centrosinistra, nonostante quest’ultimo e i confederali si fossero strenuamente opposti a tale controriforma quando era stata, pochissimo tempo prima, proposta dal governo di centrodestra. Tutto ciò nonostante l’artefice di tale proposta – per contro del grande capitale finanziario transnazionale, per il quale aveva sempre lavorato – fosse lo stesso Lamberto Dini, ministro del governo Berlusconi e poi presidente del Consiglio di un governo fortemente voluto e sostenuto dal centrosinistra e dai sindacati maggiormente rappresentativi. Questi ultimi, nonostante la tragedia sociale provocata dalla loro complicità con i poteri forti, non hanno mai dato il minimo segno di ravvedimento anche perché continuano a lucrare sui fondi pensione imposti a lavoratori privati di una quota decisiva del salario differito, cioè della pensione. La lotta per riconquistare la pensione retributiva è stata da molti anni completamente abbandonata, anche come semplice slogan, dai sindacati di base e dalle forze della sinistra radicale, comunisti compresi. L’ultimo attacco al salario differito, che ha portato l’età pensionabile italiana al record negativo fra i paesi europei – record che continuerà a superare costantemente se stesso, visto il meccanismo di adeguamento automatico della pensione all’età media di vita, caso unico al mondo – è stato condotto a termine da un nuovo governo tecnico appoggiato dal centrosinistra. Di contro vi è stato uno sciopero di appena tre ore dei sindacati maggiormente rappresentativi, senza che questa volta i sindacati di base e le forze della sinistra radicale riuscissero a creare una mobilitazione alternativa. Anzi, da quel momento in poi la battaglia politica contro tale misura iniqua è stata lasciata alla Lega di Salvini, che grazie a essa ha costruito le sue fortune elettorali anche fra le classi subalterne e persino all’interno della classe operaia.

Oggi, nonostante il governo più di destra dal ventennio fascista e nonostante un pesantissimo attacco al salario mediante l’inflazione a doppia cifra provocata dalla politica imperialista dello Stato, i sindacati più rappresentativi non sono in grado di mettere in campo altro che la promessa di assemblee unitarie che dovrebbero portare a manifestazioni regionali senza prevedere nemmeno un minuto di sciopero. Tutto ciò nonostante il governo miri a portare a termine il piano eversivo antidemocratico della loggia massonica P2 con il presidenzialismo e punti a cancellare i diritti economici e sociali conquistati dalle forze della sinistra in un secolo e mezzo di lotte, mediante la secessione dei ricchi e la flat tax. Nonostante l’attuale governo sia del tutto complice, in funzione subalterna, dell’imperialismo più aggressivo statunitense, né i sindacati di base, né le forze della sinistra antagonista appaiono minimamente in grado di occupare, anche in piccola parte, l’enorme vuoto che si è creato a sinistra.

Anche i motivi di questa incredibile differenza appaiono, a prima vista, sconcertanti. Innanzitutto le tipiche spiegazioni della sinistra radicale sono di fatto incapaci di dar conto della realtà. La prima e più semplicistica spiegazione, l’assenza in Italia di un vero partito comunista e la frammentazione delle forze comuniste, appare inadeguata. Purtroppo nemmeno in Francia vi è un reale partito comunista e anche lì le forze comuniste sono frammentate e tendono a procedere in ordine sparso. L’estrema sinistra alle ultime elezioni ha rifiutato di far parte del blocco delle forze della sinistra, per quanto egemonizzata dalle forze radicali. I comunisti hanno voluto per forza presentare un loro calendario di bandiera, che però ha tolto a Mélenchon quella piccola percentuale di voti che gli ha impedito di battere l’estrema destra e andare al ballottaggio con discrete possibilità di successo. Anche oggi è proprio il partito comunista a minare, con posizioni opportuniste di destra, l’alleanza tra le forze di sinistra egemonizzata dai radicali.

Anche la seconda tipica spiegazione della sinistra radicale non coglie nel segno. Si potrebbe dire che il problema in Italia dipenda dall’egemonia dei sindacati confederali e dalla mancanza di un sindacato realmente di classe o dalla mancanza di un forte sindacato di base. In realtà in Francia non solo i sindacati di base di fatto non esistono, ma la grande mobilitazione radicale e di massa è quasi completamente egemonizzata dalla triplice confederale francese. Certo i confederali francesi sono più combattivi di quelli italiani, ma hanno anche molti meno iscritti.

La terza spiegazione generalmente addotta, nello stesso modo non coglie nel segno. Si potrebbe pensare che la differenza dipenda dal fatto che in Francia ci sarebbe una forza di sinistra radicale di massa, assente in Italia. Tuttavia, per quanto protagonista nella battaglia parlamentare, la France insoumise di Mélenchon è stata del tutto sconfitta nella lotta per l’egemonia su questo imponente movimento di lotta dalla Cgt. Inoltre, in Italia si ha una percezione non corretta della France insoumise, che si tende a considerare l’equivalente di massa della nostra Unità Popolare. In realtà, per quanto gemellate, si tratta di realtà profondamente diverse. Nonostante il nome, in Up in Italia hanno finora prevalso le forze opportuniste di sinistra, che hanno impedito a tale formazione di occupare almeno in parte la prateria che si è creata per l’assenza di una reale forza di sinistra. Mentre la France insoumise è una forza sinceramente riformista con posizioni, sul piano della politica internazionale, ancora più moderate di quelle dello stesso De Magistris. Tanto è vero che quando Mélenchon è venuto in Italia per sostenere, in vista delle imminenti elezioni, Unità Popolare, i mezzi di comunicazione gli hanno dato spazio per fargli esprimere le sue posizioni sulla guerra in Ucraina di fatto assimilabili a quelle della Cgil, cioè a metà strada fra quelle del Pd e di De Magistris. 

Dunque anche l’ipotesi secondo la quale cui il movimento di lotta francese sia molto più avanzato di quello italiano, perché avrebbe una posizione più radicale sul piano della politica internazionale, non corrisponde al vero. In Francia la sinistra più radicale è per inviare armi alla resistenza ucraina e, del resto, anche la popolazione, compreso il “popolo di sinistra”, è più marcatamente filoccidentale e guerrafondaia dell’italiana.

Infine un’altra spiegazione semplicistica è che ci sarebbe una differenza sostanziale, quasi antropologica, fra il popolo francese, sorto da una grande rivoluzione e quello italiano. Tanto che la Francia sarebbe stata quasi sempre all’avanguardia nei movimenti rivoluzionari. In realtà tale rappresentazione, valida certamente per quanto riguarda i secoli diciottesimo e diciannovesimo, non è più vera se si pensa al ventesimo secolo. La lotta contro la prima guerra imperialista in Italia è stata molto più ampia che in Francia e il Partito Socialista Italiano è rimasto, al contrario di quello francese, contrario alla guerra. In Italia, a differenza che in Francia, c’è stato il movimento potenzialmente rivoluzionario che ha dato vita al Biennio rosso. Il movimento partigiano è stato quasi certamente più significativo in Italia che in Francia. In Italia la Costituzione nata da quel movimento ancora regge, mentre in Francia da decenni è stata messa da parte è si è affermato il presidenzialismo. In Italia vi è stato un partito comunista molto più ampio e influente di quello francese. Anche il movimento extraparlamentare in Italia è stato più significativo di quello francese. Il Sessantotto, che in Francia è durato un anno, in Italia si è sviluppato lungo un intero decennio. Persino il movimento contro la globalizzazione e contro la Seconda guerra del Golfo in Italia è stato più significativo e di massa che in Francia.

Certo, tutto questo non significa che le differenze fra l’attuale situazione in Francia e quella in Italia non debbano essere spiegate in termini storici, mentre va evitata un’interpretazione in chiave deterministica per cui il popolo francese sarebbe antropologicamente più rivoluzionario di quello italiano. La prima grande differenza storica riguarda le divergenti reazioni dinanzi alla sconfitta storica delle sinistre radicali a causa della disfatta nella guerra fredda. Per quanto anche il Pcf, come il Pci, era stato protagonista della sciagurata vicenda dell’eurocomunismo, mentre il Partito Comunista Italiano ha quasi interamente abiurato e rinnegato il suo passato nel 1990, i comunisti francesi non hanno rotto drasticamente con la propria storia. Così mentre il maggiore sindacato italiano sotto la guida di iscritti al Pds, poi ai Ds e, infine, al Pd, è divenuto essenzialmente un sindacato di servizi, la Cgt è rimasta un sindacato, cioè un’organizzazione che cerca di vendere il più cara possibile la pelle dei lavoratori. Perciò, proprio perché non si sono ridotti a sindacati di servizi e avendo, quindi, molti meno iscritti, i confederali francesi sono decisamente più credibili, popolari e in grado di incidere rispetto a quelli italiani.

In secondo luogo, mentre in Italia la sinistra ha perso qualsiasi credibilità governando il paese a tutti i livelli sempre in senso subalterno al neoliberismo, in Francia una parte della sinistra di governo subalterna al liberismo, è tornata a fare opposizione, riconquistando rapidamente popolarità fra le masse popolari. Così, mentre in Francia vi è un partito credibile che porta avanti una politica riformista, in Italia i sedicenti riformisti sono succubi del neoliberismo e hanno perso qualsiasi credibilità fra le masse popolari.

Certo, anche in Italia si era creata la possibilità che una parte della sinistra abbandonasse il governismo e la subalternità al neoliberismo, più o meno quando con Mélenchon una parte della sinistra riformista francese ritrovava la propria identità e Lafontaine rilanciava una presenza di sinistra in quella che era stata la Germania occidentale. Tuttavia, al contrario di Mélenchon e Lafontaine, Landini ha tradito completamente le aspettative che si erano create, abbandonando la potenzialità di ricostruire un partito di sinistra riformista, per scendere a patti con Camusso e prendere la guida della Cgil con posizioni a tal punto moderate da farsi, di fatto, scavalcare a “sinistra” dalla Uil.

Inoltre, anche la possibilità di creare un movimento di massa antiliberista dal basso – come si è formato, sfruttando il nuovo esplodere della crisi strutturale del capitalismo nel 2008, non solo in Spagna, ma persino negli Stati uniti e nel Regno Unito – in Italia è sfumata in quanto ha prevalso l’opportunismo di sinistra che, pur di impedire la rinascita di un movimento riformista, ha preferito secondo l’assurda logica del tanto meglio tanto peggio, il “muoia Sansone con tutti i filistei”.

Infine c’è un ultimo aspetto che ha prodotto dei destini così diversi per la sinistra francese e la sinistra italiana, e cioè che, nel nostro paese, prevale la logica sottoproletaria, da lazzarone, per cui si spera – in modo del tutto irrazionale – che seguire l’Unione Europea possa portare delle ricchezze che aiutino la “nostra” economia. Così, dopo che con tanto sforzo anche in Italia si era creato un movimento di massa di opposizione alle politiche ultraliberiste imposte dall’Unione Europea, è bastato il miraggio degli investimenti del Pnr, interpretato come un nuovo piano Marshall, per ricadere nella assurda logica di acritica subalternità alle politiche ordoliberiste dell’Ue.

06/05/2023 | Copyleft © Tutto il materiale è liberamente riproducibile ed è richiesta soltanto la menzione della fonte.

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L'Autore

Renato Caputo
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