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Green Book vs La favorita

Una commedia brillante che diverte e al contempo invita lo spettatore a riflettere sullo stato di apartheid vigente negli Stati Uniti ancora negli anni sessanta, di contro a un film tutto teso a naturalizzare il cinismo imperante nella società capitalistica.


Green Book vs La favorita Credits: https://www.youtube.com/watch?v=GmqdPdCC5CQ

Green Book di Peter Farrelly è un ottimo prodotto dell’industria culturale, non a caso Il film ha ottenuto 5 candidature e vinto 3 Golden Globes – tra cui il premio per la migliore commedia – 4 candidature a BAFTA ed era tra i favoriti ai premi Oscar, dopo esser scelto come miglior film dai produttori, anche se poi ha ricevuto 5 candidature (miglior film, miglior attore protagonista, migliore sceneggiatura originale, migliore attore non protagonista e miglior montaggio). Il film è indubbiamente ben confezionato, è brillante, divertente e al tempo stesso capace di toccare temi indubbiamente sostanziali: dalla discriminazione degli afro-americani e, in secondo luogo, degli stessi italo-americani, alla persecuzione nei confronti degli omosessuali, sino alle profonde differenze di classe fra i lavoratori manuali e intellettuali. Tutte queste contraddizioni sociali, economiche e culturali sono squadernate, a partire da una storia realmente accaduta, ma sono in qualche modo ricomprese e risanate dal genere commedia di cui il film rispetta tutti i canoni essenzialmente conservatori. Da questo punto di vista mostra tutta la potenza dell’egemonia dell’industria culturale a stelle e strisce che è in grado di esporre tutte le proprie storiche contraddizioni in modo tutto sommato realistico, senza mai scadere nell’ideologico, nel postmoderno, senza perciò mettere mai seriamente in questione il proprio modello sociale e culturale. Ciò dimostra quanto è forte e sicuro il sistema ideologicamente dominante a livello internazionale, proprio perché riesce a ricomprendere al suo interno tutte le proprie contraddizioni.

Al centro del film, a ulteriore dimostrazione della capacità di incidere che ha avuto il grande movimento Black Lives Matter, abbiamo ancora la discriminazione razziale, in particolare nei riguardi degli afroamericani, che è stata posta giustamente al centro di diversi validi film americani nell’ultimo biennio. Anche se, in questo caso, tale discriminazione è in qualche modo riequilibrata nel rapporto fra servo e padrone, posto al centro del film, dalla discriminazione di classe. Nel ruolo del padrone abbiamo, infatti, un colto e raffinatissimo artista afro-americano, mentre nel ruolo del suo servo abbiamo il tipico esponente della plebe americana, piena di pregiudizi razziali, che gli impediscono di prendere coscienza del proprio ruolo potenzialmente rivoluzionario, in quanto sentendosi comunque superiore ai non “bianchi”, non comprende che lottando contro il proprio imperialismo non avrebbe altro da perdere che le proprie catene. Inoltre a rendere ancora più plebe larghi strati del proletariato statunitense vi è l’ideologia nazionalista, che li porta generalmente a considerare del tutto naturale il ruolo imperialistico del proprio paese, considerato il “destino manifesto” e la missione di imporre i propri superiori valori a livello internazionale.

Questo incrociarsi di due contraddizioni sostanziali della società statunitense rende divertente e interessante la commedia grazie alla costante inversione dei ruoli, per cui dal punto di vista della discriminazione razziale è il servo bianco a essere riconosciuto socialmente come il padrone, mentre al signore nero tocca la parte del servo. Tale costante inversione dei ruoli indubbiamente spassosa e interessante, in quanto consente di vedere in termini stranianti e comunque relativi i rapporti sociali, d’altra parte finisce con l’essere più o meno consapevolmente responsabile del fatto che si finisce con il perdere di vista qual è la contraddizione principale e quale la secondaria. Allo stesso modo, queste continue inversioni finiscono con il rendere comico il rapporto servo padrone ponendo così in secondo piano l’aspetto tragico che in esso è preponderante. Infine, rischiano di rovesciare anche il necessario rapporto fra l’eccezione e la regola, visto che nel film l’eccezione del padrone nero diviene la regola, come il prevalere della discriminazione razziale nei riguardi di quella socio-economica e culturale. Infine le differenti forme di discriminazione di cui i due protagonisti, ben interpretati da Viggo Mortensen e Mahershala Ali (entrambi candidati agli Oscar), sono soggetti li porta a solidarizzare e a contrastare insieme le discriminazioni razziali. Ancora una volta vediamo posta in primo piano la cooperazione interclassista fra servo e padrone contro le discriminazioni razziali, ovvero quella che si potrebbe definire l’eccezione che conferma la regola. Altrettanto eccezionale è la condizione che ha permesso al co-protagonista afro-americano di poter studiare in modo approfondito la musica classica, non a caso all’università di Leningrado, dal momento che al tempo erano essenzialmente i comunisti a battersi contro le discriminazioni razziali.

Certo è indubbiamente significativo il percorso di formazione dei due protagonisti che, partendo da una serie di pregiudizi razziali e di classe che impediscono il riconoscimento dell’altro, imparano a poco a poco a relativizzare e a cogliere i propri limiti, l’unilateralità della propria posizione, imparando così a riconoscere quanto di valido vi è nella posizione dell’altro, per quanto si presenti come il proprio opposto. Ecco allora che l’intellettuale radical chic riconosce la significatività della cultura nazional-popolare che tendeva in modo snobistico a denigrare, mentre il lavoratore manuale impara ad apprezzare le capacità intellettuali del grande artista.

Al contrario è stato assurdamente sopravvalutato il film dell’insopportabile regista greco Yorgos Lanthimos La favorita, che insieme a Roma – per altro anch’esso decisamente sopravvalutato – è il film che ha totalizzato il massimo di nomination ai premi oscar, addirittura dieci. Per altro ha ricevuto del tutto immeritatamente nomination ai premi più ambiti, da miglior film (???), a migliore regia (??), a migliore attrice protagonista (???), migliore sceneggiatura originale (???), migliore scenografia, miglior fotografia (?), ben due premi alla migliore attrice non protagonista, oltre a migliori costumi e montaggio. Segno ovviamente dei tempi, in quanto il film è una pedissequa espressione dell’ideologia dominante, in un’epoca in cui l’alta borghesia mantiene salda l’egemonia, sebbene il suo modo economico di produzione sia ormai, in tutti i paesi a capitalismo avanzato, in uno stadio avanzato di putrescenza. Il film, per altro, è assolutamente incapace di provocare ciò che a ragione ci si aspetta da ogni opera d’arte, ovvero il godimento estetico nella sua fruizione, essendo una pellicola piatta, noiosa e monocorde fino al parossismo. Secondo la pessima moda dominante in molto cinema europeo, a partire dall’italiano, il film è tutto incentrato sul tema omnipervasivo del cinismo, spacciato quale unico reale movente dell’azione umana. Da una parte si tratta indubbiamente di un’apologia indiretta della società capitalistica, dal momento che se ne naturalizza uno dei peggiori e più evidenti difetti: l’esasperato individualismo egoista, la voglia di affermarsi a ogni costo vendendo se stessi e strumentalizzando, sfruttando, opprimendo tutti gli altri. A essere così del tutto normalizzato è l’individuo sempre pronto, con la più sfacciata ipocrisia, ad adulare chi detiene la ricchezza e il potere, sempre egualmente pronto a schiacciare e umiliare nel modo più crudele il più debole. Senza contare che tutti i personaggi sono costantemente protesi a saltare sul carro del vincitore e a bastonare senza pietà il can che affoga.

Certo si potrebbe sostenere, a parziale difesa del film, che raffigurando la corte inglese e i rappresentanti dei più importanti partiti del tempo, conservatori e liberali, il film ha un valore veritativo e di denuncia della assurdamente osannata monarchia liberale britannica. Ma anche in tal caso, caricando troppo gli aspetti negativi e grotteschi dei personaggi, rende la rappresentazione non solo irrealistica, ma del tutto inverosimile. Inoltre nel film sono totalmente condannati tutti i personaggi, dai più altolocati, a chi sta in fondo alla piramide sociale, mettendo dunque sullo stesso identico piano sfruttati e sfruttatori, servi e padroni, oppressi e oppressori. In tal modo, in questa inverosimile condanna generalizzata, nessuno è veramente colpevole. Infatti in un mondo in cui si può soltanto essere carnefice o vittima è evidente che si è spinti ad ammirare e a impersonarsi, mancando del tutto l’effetto di straniamento, con chi riesce a scalare la piramide sociale nel modo più spietato. In effetti, in un universo dove sembra valere la sola legge della giungla, la legge del più forte, dove il pesce grande mangia necessariamente il pesce più piccolo, non solo un tale spaccato sociale viene normalizzato, ma non si può che considerare inevitabilmente giusto che, piuttosto che rimanere vittime, si cerchi di divenire oppressori.

La visione del mondo trasmessa dal film è del tutto improntata alla vecchia ideologia positivista, da sempre funzionale all’apologetica indiretta del capitalismo. In effetti, secondo questa visione ideologica il mondo umano sarebbe dominato dalle stesse leggi assolutamente necessarie del mondo naturale, per cui la libertà dell’uomo sarebbe a priori negata. Ognuno sarebbe necessitato ad agire, mosso esclusivamente dalla propria volontà di potenza e sopraffazione, per emergere a spese degli altri, considerati o pericolosi competitori o meri strumenti dei propri individualistici fini. In tal modo, si torna alla vecchia ideologia reazionaria del darwinismo sociale, sempre cara a chi intende difendere una società fondata su rapporti di produzione e di proprietà sempre più ingiusti e irrazionali. Secondo tale concezione – non a caso divenuta subito dominante negli Stati Uniti d’America – come nel mondo animale, anche nel mondo umano l’evoluzione della specie sarebbe resa possibile dal fatto che solo i più capaci ad adattarsi all’ambiente sono in grado di sopravvivere, accoppiarsi e riprodursi, mentre i più deboli e meno capaci di adattarsi alla legge della giungla, non solo sono necessariamente sopraffatti, ma la loro soppressione è indispensabile all’ulteriore sviluppo della specie.

In tal modo, il regista finisce con il giustificare anche il suo spietato cinismo, il suo arrivismo e conformismo, al solito naturalizzandolo. Del resto, non solo il film e la sceneggiatura sono alla lunga insopportabili, ma la stessa fotografia e regia finiscono con l’essere, con il loro secentismo programmatico, irritanti. Il regista appare solo interessato ad autoincensarsi e sembra girare solo per potersi mettere in mostra e autocompiacersi delle proprie capacità formali, non avendo nulla di sostanziale o di significativo da comunicare.

Infine il film non ha nulla della reale opera d’arte, in quanto è un’opera tipicamente manierista, girata appunto alla maniera dei film d’autore europei, un po’ come il film Roma, altrettanto ingiustamente pluripremiato. È, infine, significativo che la maggioranza degli esponenti di successo del mondo del cinema abbiano assegnato così tante importanti nomination a un film del genere. Segno che i maggiori esponenti dell’attuale industria dello spettacolo si riconoscono in pieno nel regista e nel suo modo di interpretare tanto il cinema quanto il mondo.

26/01/2019 | Copyleft © Tutto il materiale è liberamente riproducibile ed è richiesta soltanto la menzione della fonte.
Credits: https://www.youtube.com/watch?v=GmqdPdCC5CQ

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L'Autore

Renato Caputo
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