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Il Platone di Vegetti

Sulla traccia di Aristotele si sarebbero mossi per secoli i critici della grande utopia platonica, fino a considerarla, come si è visto, indegna del suo stesso autore; per contro, in ogni tempo i platonici si mostravano pronti a intraprendere il lungo viaggio, nel tempo e nello spazio, verso la meta indicata nella Repubblica.


Il Platone di Vegetti

Mario Vegetti – alla fine della settima delle sue Quindici lezioni su Platone – sottolinea con il consueto acume che, al di là delle concezioni che tendono a ridurre la teoria rivoluzionaria della società di Platone a mera utopia, al contrario in questo autore c’è una strettissima dialettica fra teoria e prassi, che non era presente né nei suoi grandi predecessori né sarà rinvenibile nei suoi altrettanto grandi successori. L’efficacia anche immediata della teoria politico-sociale ed economica rivoluzionaria consiste nel fatto che, per Platone, “si diventa giusti e si riforma il proprio profilo di vita in ordine al desiderio della città giusta, e questa a sua volta comincia a esistere là dove esistano uomini giusti che la intenzionano come propria finalità” [1].

Più tardi, nelle Leggi Platone – pur considerando ancora il modello di società comunista il migliore possibile – considererà la realtà della propria epoca storica oramai troppo arretrata per realizzare un tale grandioso ideale. Pur consapevole dello iato fra ideale e realtà, Platone non perde mai la spinta etica alla lotta per la razionalizzazione dell’esistente. Al contrario, Aristotele da uomo del corso del mondo, ha l’attitudine a considerare “ciò che è attuale e «normale» nella condizione umana come naturale e perciò anche normativo: una trasformazione radicale dell’esistente storico risultava impossibile perché confliggeva con la natura umana che in esso si era venuto sedimentando, e perciò neppure desiderabile” (117). 

Ed ecco come magistralmente Vegetti espone le due grandi tradizioni opposte che si sviluppano dalla filosofia platonica e aristotelica: “sulla traccia di Aristotele si sarebbero mossi per secoli i critici della grande utopia platonica, fino a considerarla, come si è visto, indegna del suo stesso autore.

Per contro, in ogni tempo i platonici si mostravano pronti a intraprendere il lungo viaggio, nel tempo e nello spazio, verso la meta indicata nella Repubblica” (118). 

Nell’ottava delle sue Quindici lezioni su Platone Vegetti si occupa di un altro oggetto centrale della riflessione platonica: la psiche, tradizionalmente tradotta in italiano con il termine anima. Essa svolge il decisivo ruolo di termine medio per superare quell’impostazione dualistica che, per quanto sia alla base del pensiero di Platone, quest’ultimo fa di tutto per superare dialetticamente. “L’anima veniva ora a costituire l’elemento mobile di mediazione fra le polarità in cui si era articolato il suo [di Platone] pensiero: l’eternità e il tempo, le idee e il mondo empirico, insomma l’«alto» e il «basso»; essa garantiva la possibilità di transito e di comunicazione fra i due livelli, e con questa il luogo in cui si costituiva la specificità della condizione umana, tanto dal punto di vita etico-pratico quanto da quello conoscitivo” (120).

L’anima per Platone – pur nella piena consapevolezza di non poterlo dimostrare scientificamente – andava considerata immortale, come necessario sostegno all’agire bene, ossia in modo etico e morale. “Solo la promessa all’uomo giusto di una felicità oltreterrena e la minaccia all’ingiusto di pene eterne sembravano poter compensare l’evidenza frequente in questa vita di una sorte sventurata per il primo, della prosperità e del successo per il secondo: il destino dell’anima nell’al di là costituiva dunque una garanzia per la condotta giusta, una sorta di ‘protesi’ persuasiva del discorso morale” (ibidem). D’altra parte Platone si vede costretto a regredire nella fede nei miti dinanzi alle posizioni reazionarie di Callicle che esaltava, con largo anticipo su Friedrich Nietzsche, quei concetti che quest’ultimo definirà: la volontà di potenza e il super-uomo. Dunque, Platone, pur riconoscendo la scarsa credibilità di questo ricorso morale alla mitologia, lo riteneva necessario. Perciò, nel Fedone, Platone concludeva “mi pare sia il caso di correre il rischio di crederlo” (114d). In altri termini, Platone sembra anticipare l’argomento della scommessa di Blaise Pascal. Da questo punto di vista emerge tutta la superiorità dell’interpretazione di Vegetti, rispetto a quelle classiche, che abbiamo ritrovato anche in Giuseppe Cambiano, che non problematizzano il ricorso di Platone ai miti, ma considerano questi ultimi come degli elementi centrali e pacifici della visione del mondo platonica. Dimenticando, peraltro, che i miti non sono certo quelli sacralizzati da un’antica tradizione, essendo – piuttosto – inventati ai propri scopi dallo stesso Platone.

Tanto più che, essendo la fede nel divino fondata su racconti mitologici, bisognerebbe anche credere a essi quanto ci raccontano che ci si può conquistare il perdono celeste con una serie di riti propiziatori, che proprio i ricchi e malvagi hanno più facilmente a portata di mano, dato che sono sempre contornati da “gesuiti” che li rassicurano in tal senso. Perciò, Platone sosteneva il nesso fra “giustizia, salute e felicità della città”, aggiungendo che la virtù è condizione “sufficiente di felicità individuale anche in questa vita, in quanto garante di un’esistenza serena, armonica, premiata dai piaceri «puri» della conoscenza e della giustizia” (123). D’altra parte, Platone non intendeva rinunciare al “supplemento di incentivazione escatologica alla vita di giustizia” (ibidem).

Ciò non toglie che ,anche dal punto di vista epistemologico, nonostante le inevitabili contraddizioni [2], Platone si vedesse costretto a ricorrere al mito dell’immortalità dell’anima. Dunque, Platone con il mito riportava, “per difficoltà filosofica o per esigenze metaforiche di comprensibilità della teoria – a uno stadio cognitivo cronologicamente precedente rispetto a ogni esperienza della sensibilità corporea: cioè a una fase di preesistenza dell’anima rispetto a questa vita, nella quale – separata nella sua «purezza» dai sensi corporei – essa avrebbe potuto conoscere direttamente le idee altrettanto pure” (124). D’altra parte, Platone, sempre insoddisfatto delle spiegazioni mitologiche e non scientifiche, ne “la Repubblica indicava nella razionalità matematica un modello di progressiva astrazione e idealizzazione a partire dalle aporie dell’esperienza sensibile, che non richiedeva alcun regresso anamnestico: cfr. VII, 524a-525a” (125).

Platone giungerà alla conclusione, poi sviluppata da Aristotele [3], che solo la componente razionale dell’anima è immortale, il che implica la mortalità dell’anima individuale. Del resto, come avrebbe di nuovo sottolineato Aristotele, contrario per la sua attitudine di scienziato al ricorso ai miti, “proprio in quanto «vita», come sosteneva il Fedone, l’anima risultava così indissolubilmente connessa alla mortalità del corpo di cui essa costituiva il principio vitale” (128).

Una concezione non più mitologica dell’immortalità dell’anima è illustrata da Platone nel Simposio: “c’è dunque una immortalità riproduttiva, che riguarda la stirpe e la specie, e un’immortalità del pensiero, quella che spetta ai poeti, agli uomini di scienza, ai legislatori, grazie alla fama imperitura delle loro opere, che sopravvivono nella posterità: questa è esattamente l’unica forma di immortalizzazione personale che avrebbe riconosciuto anche Aristotele (Etica nicomachea, X, 7) e dopo di lui le grandi filosofie ellenistiche” (130).

Nella nona lezione, Vegetti mostra lo sviluppo del concetto di anima in Platone. “Il rapporto fra anima e città, che nel Fedone era stato rappresentato nel modo di una polarità oppositiva e alternativa, nella Repubblica doveva invece venire interpretato nei termini di una stretta interrelazione, che giungeva fino alla specularità, in ordine al progetto di rifondazione di una città giusta e delle sue forme di potere e sapere – insomma nel contesto di una filosofia dei vivi anziché dei morti o «moribondi»” (132). Il realismo platonico appare anche nel suo pessimismo antropologico. In effetti, “Platone non aveva dubbi sul fatto che il principio razionale, che conosce e desidera i fini giusti della condotta, è la parte «più piccola» e più debole dell’apparato psichico, le cui maggiori energie pulsionali sono invece racchiuse nei centri della reattività aggressiva e dei desideri volti al piacere” (135).

Platone cerca di individuare un equilibrio in cui la ragione, sostenuta dall’ambizione, dominasse sulla parte desiderante. A livello politico i re-filosofi dovevano consolidare la propria capacità di egemonia con il supporto dei guerrieri. Questi ultimi sarebbero destinati, maturando, a guidare a loro volta la polis. Tuttavia, l’ambizione è un tratto irrazionale e da qui deriva necessariamente la crisi della kallipolis, nel momento in cui i guerrieri, non aspetteranno il loro turno, ma usando la forza prenderanno il potere, affermando la prima forma di degenerazione del governo, ovvero la timocrazia. Con essa veniva meno il comunismo nella stessa classe dirigente e ciò portava al potere l’uomo del desiderio mosso dalla ricerca della ricchezza a formare una oligarchia. Tale dominio di classe, avrebbe generato una rivoluzione dei poveri, che avrebbero imposto una democrazia. Quest’ultima sarebbe scaduta, secondo Platone, necessariamente nell’anarchia, perché ognuno sarebbe divenuto libero di fare ciò che vuole. 

Ciò avrebbe favorito l’affermazione del tiranno che, con la scusa di difendere i poveri dalle forze controrivoluzionarie dei ricchi, sarebbe divenuto un sanguinario oppressore. D’altra parte lo stesso tiranno si sarebbe però potuto convincere a divenire un despota illuminato, scegliendo come consiglieri dei filosofi.

In ogni caso la politica mantiene un ruolo centrale, in quanto per Platone “solo una costituzione giusta, e uno sforzo collettivo di educazione, potevano garantire nell’anima e nel corpo le gerarchie di giustizia e salute” (145). In tal modo, “l’uomo diventava per Platone come avrebbe detto Aristotele, un «animale politico»: ma in un senso ancora più radicale di quello aristotelico, perché, alla luce della Repubblica e del Timeo, risultavano «politicizzati» tanto la sua anima quanto il suo corpo, sia nella loro dinamica interna, sia nella loro interazione, sia infine nel loro rapporto con l’assetto della città in cui si trovavano a vivere” (145-46).

 

Note:

[1] Vegetti, Mario, Quindici lezioni su Platone, Einaudi, Torino 2003, p. 117. D’ora in avanti inseriremo direttamente nel testo le citazioni da quest’opera indicando in parentesi tonde il numero della pagina. Sempre fra parentesi tonde indicheremo le pagine delle opere di Platone che citeremo.

[2] Per esempio, “l’oblio della vita oltreterrena necessario per le ragioni morali sostenute nella Repubblica sembrerebbe escludere anche quel ricordo anamnestico che invece era richiesto dalle istanze gnoseologiche del Fedone” (125).

[3] Perciò, “Aristotele avrebbe coerentemente rinunciato nella sua etica a qualsiasi incentivo oltre-mondano alla virtù” (128).

17/09/2021 | Copyleft © Tutto il materiale è liberamente riproducibile ed è richiesta soltanto la menzione della fonte.

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L'Autore

Renato Caputo
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