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La banalità del cinema e della critica della post-nuova sinistra

Sangue del mio sangue di Marco Bellocchio è un’opera stanca, sconnessa, senza senso. Perché allora occuparsene?


La banalità del cinema e della critica della post-nuova sinistra

Sangue del mio sangue di Marco Bellocchio è un’opera stanca, sconnessa, senza senso. Perché allora occuparsene? Perché la critica della maggioranza dei quotidiani ne ha parlato bene, perché Bellocchio è considerato un grande regista, perché il film è stato finanziato con i nostri soldi, i fondi pubblici, ed è stato persino selezionato per il festival del cinema di Venezia, dove è stato applaudito per otto lunghi minuti

di Renato Caputo e Rosalinda Renda

Voto: 3 (intollerabile)

Sangue del mio sangue è un film sconclusionato, senza capo né coda; consta di due parti: una ambientata nel Seicento, l’altra ai giorni nostri, due storie insulse che tra loro non hanno nessun collegamento se non il fatto di svolgersi nello stesso luogo, Bobbio, e di essere interpretate dagli stessi attori. Difficile sintetizzare la trama di un film che ne è privo; la chiave di Sangue del mio sangue è consegnata dal regista, in un barlume di decenza e di onestà, quando Toni Bertorelli, nei panni di un anziano dentista alle soglie del ritiro, sostiene – secondo la concezione del Platone della Repubblica – che anche il migliore degli Stati è destinato a entrare in crisi poiché i padri non possono che cercare di favorire in ogni modo il sangue del proprio sangue, sebbene i propri figli siano degli assoluti incompetenti. Ecco così svelato il senso del titolo e dello stesso film allo stoico spettatore che è riuscito a resistere quasi fino al termine della proiezione senza cedere all’impellente impulso di abbandonare la sala o, almeno, di approfittarne per recuperare un po’ di sonno.

Stupisce, perciò, l’esaltazione di questo film da parte di certa critica e gli otto minuti di applausi, compresa la standing ovation, al festival di Venezia per un film fatto di reminescenze personali del regista e di pezzi di storie girate dai suoi allievi del corso di cinema che tiene a Bobbio.

Ancora una volta, al di là di tutte le banalità post-moderne, emerge la validità della Poetica di Aristotele che non a caso sostiene che un’opera senza un solido plot non può reggere. In altri termini, se non si dispone di una trama significativa sulla cui base produrre un film, quest’ultimo potrà essere al più un esercizio stilistico, un saggio alla fine di uno stage, ma in nessun caso un’opera d’arte.

Se si trattasse di un giovane alle prime armi, e non di un regista di 75 anni a fine carriera, molto potrebbe essere perdonato, anche se lo si direbbe pronto, al più, alla realizzazione di qualche spot pubblicitario o di qualche fiction, considerati gli attuali standard che rendono Boris un’opera realista. Al di là della fotografia laccata e di qualche inquadratura fra il suggestivo e il pittoresco, tutto il resto è estremamente banale e piatto. Nepotismo a parte, anche gli attori più solidi e navigati appiano del tutto spiazzati a recitare un copione irrealistico, di una mediocrità e sconclusionatezza davvero fuori dal comune. Tant’è che, diversamente dalla critica ufficiale quasi tutta apologetica, i pareri dei semplici amanti del cinema sono generalmente sconcertati e altrettanto spesso indignati.

Siamo dinanzi a un altro segnale importante della profonda crisi che vive l’attuale modo di produzione, che dal livello strutturale sta provocando dei crolli sempre più vistosi nelle stesse sovrastrutture culturali. Quest’ultime sembrano dover sempre più spesso, nel disperato tentativo di conservare un’esistente che sempre più gli frana sotto i piedi, abbandonare il piano del rigore che le avvicina come forme conoscitive alle scienze, per divenire mera ideologia, apologetica dell’esistente. Da qui la scelta davvero sadomasochistica di devolvere le sempre più ridotte risorse pubbliche per la produzione culturale e di dare spazio nella principale vetrina cinematografica e nelle migliori sale ad un film di un quasi ottuagenario che, da tempo, per sua stessa implicita ammissione, non ha più nulla da dire e sogna il ritiro.

La riflessione su quest’opera può, inoltre, essere una buona occasione per fare un bilancio della parabola storica della nuova sinistra del nostro paese. Quest’ultima, già nei ruggenti tardi anni Sessanta e poi nei primi gloriosi anni Settanta, aveva dimostrato, in primo luogo dal punto di vista culturale, il velleitarismo del suo assalto al cielo. Dietro quei giovani intellettuali, come il nostro regista, che tradivano la propria classe per schierarsi dalla parte della rivoluzione ora, con il senno di poi non è difficile scorgere la figura del “giovane” a ragione criticata da Hegel. Ossia, la figura del giovane rampollo della classe dirigente che ha fretta di prendere il posto del proprio padre e cerca così di bruciare le tappe, minacciando di raggiungere, altrimenti, tale obiettivo per via rivoluzionaria. In tal modo, una volta conseguito il proprio obiettivo, abbandona gli strumentali ideali giovanili, peraltro allora piuttosto trendy, ed emerge spesso la sua cattiva coscienza e il terribile astio dell’ex nei confronti di chi non ritiene necessaria e naturale la sua scelta opportunista.

Certo verrebbe da dire - dinanzi agli attuali giovani privi persino di quel tanto di ribellismo funzionale a forzare i tempi del normale ricambio generazionale - non si possono non rimpiangere i giovani di allora. Tuttavia occorre ricordare che i penosi giovani nati riformisti dai tardi anni Ottanta a oggi sono appunto i figli, i nipoti, gli allievi dei giovani di allora, a cui è stato trasmesso unicamente l’arrivismo senza scrupoli delle piccole ambizioni individualiste.

Di quella generazione ormai perduta di intellettuali tradizionali occorre sottolineare il pressappochismo del loro bagaglio culturale, che li ha portati spesso a criticare, da posizioni irrazionaliste e reazionarie, la cultura dominante nel Pci improntata a un gramscismo sempre più normalizzato e stemperato. I giovani turchi di allora sono partiti così dai limiti della concezione allora dominante a sinistra del realismo socialista, per sviluppare una critica talmente nichilista che ha portato a buttare con l’acqua sporca lo stesso bambino. Senza un’impronta realista e privi di una prospettiva socialista, hanno finito per fare proprie le posizioni più estreme ed irrazionalistiche della cultura borghese che hanno portato tali intellettuali sedicenti di sinistra a infatuarsi per pensatori apertamente reazionari quali Nietzsche, Heidegger e persino Carl Schmitt. Così i primi due sono diventati i padri nobili dell’ideologia post-moderna che ha condotto una battaglia spietata contro tutti gli elementi progressivi della modernità, di cui la borghesia, ormai giunta al potere, doveva disfarsi.

Dal punto di vista dell’estetica e della poetica si è così finiti per far propria, estremizzandola, la posizione dell’avversario, contrapponendo ad un realismo più o meno indirizzato al socialismo un ultra- formalismo apertamente orientato a tagliare qualsiasi rapporto non solo fra arte e critica sociale ma fra arte e società. Si è così perduto qualsiasi interesse a rielaborare e sviluppare a contatto con il presente i grandi classici del passato, mirando a costruire e a esaltare opere sempre più programmaticamente secentiste, antirealiste, irrazionali, sconclusionate, ultrasoggettiviste, prive di qualsiasi rapporto con il mondo storico. In tal modo sono stati vanificati quei primi passi che si erano fatti, a partire da Lukàcs, per elaborare un’estetica improntata alla filosofia della prassi, atta a dotare il proletariato di un patrimonio culturale necessario alla conquista e all’esercizio del potere.

Il film di Bellocchio è, infatti, proprio il contrario di un film ispirato al realismo socialista. Si tratta di un’opera che non solo non riflette criticamente sul proprio tempo per cambiarlo, ma ne fornisce un’immagine del tutto sfocata, finendo per esaltare il sistema di corruzione e nepotismo messo in piedi dalla Democrazia Cristiana che sarebbe oggi messo a rischio dal fisco e dalla guardia di finanza (nel Paese in cui si battono tutti i record di evasione fiscale).

Fra i tanti personaggi programmaticamente irrealistici e non tipici, spiccano in particolare le figure femminili considerate, con uno sguardo fastidiosamente machista, come meri oggetti del desiderio, come puri animali in calore unicamente in cerca dell’uomo in grado di soddisfarle.

In conclusione, non ci resta che sostenere la candidatura del film di Bellocchio alla top five dei film più a torto sopravvalutati dell’anno, costatando ancora una volta che al peggio non c’è mai fine. Nel senso che dopo aver visto il vergognoso Vincere, non a caso osannato dalla post-nuova sinistra, era difficile immaginare che il regista potesse dare di sé una prova decisamente peggiore.

26/09/2015 | Copyleft © Tutto il materiale è liberamente riproducibile ed è richiesta soltanto la menzione della fonte.

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