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Luiz Inácio Lula da Silva, La verità vincerà

Se perdessi la fiducia nel Potere Giudiziario, dovrei smettere di essere un politico e dire che le cose in questo Paese si possono risolvere solo con una rivoluzione.


Luiz Inácio Lula da Silva, La verità vincerà Credits: Copertina del libro

Lula è stato messo in carcere con una condanna pretestuosa che mira ad inabilitarlo dal gioco politico. Al suo posto, adesso parla quel popolo che non si rassegna a vedersi portar via i benefici ottenuti durante il suo governo. Parla il popolo che gli gridava: “Non consegnarti” mentre lo accompagnava in galera e che poi è rimasto per giorni davanti alla prigione. Parla il suo Partito dei lavoratori (PT), almeno quella parte intenta a rigenerarsi dentro la bufera in cui ancora si trova. Riusciranno a farsi sentire a ridosso delle presidenziali del 7 ottobre? La partita sembra disperata. Il Tribunal Superior Electoral (TSE), oltre a respingere la candidatura dell'ex sindacalista – che continua a essere in testa nei sondaggi – ha anche proibito di usare la sua immagine per la propaganda elettorale del PT.

Per inquadrare problemi e contesto, arriva puntualissimo questo libro-intervista, ben tradotto da Ada Milani e pubblicato da Meltemi con il titolo Luiz Inácio Lula da Silva, La verità vincerà. Sottotitolo, Il popolo sa perché sono stato condannato. Un importante documento storico, che – come preconizza il professor Roberto Vecchi, a cui è affidata la prefazione dell'edizione italiana – resterà nel tempo, com'è accaduto per l'intervista a Fidel Castro, La storia mi assolverà. Anche Lula sa di aver fatto la Storia, e per questo si preoccupa del presente. Non vuole morire “marchiato come un ladro” da una condanna per corruzione. Ogni volta che torna l'argomento, batte i pugni sul tavolo e, con la testardaggine del sindacalista e il linguaggio diretto del politico che più ha cambiato la realtà recente del Brasile, ripete di essere innocente: vittima di una “persecuzione politico-giudiziaria” che lo ha portato dalla ribalta internazionale al chiuso di una cella.

Il libro è stato realizzato prima dell'arresto. Il 31 gennaio di quest'anno, nel pieno di una vicenda-spettacolo, allestita dai grandi media per la scena interna e internazionale, l'editrice Ivana Jinkings è andata a trovarlo nel suo ufficio a San Paolo, nel quartiere di Ipiranga. Il colloquio avrebbe dovuto durare una mezz'ora e invece “si è protratto per due ore e mezza”. Jinkings gli ha proposto di raccogliere la sua testimonianza per trasformarla in un libro e pubblicarlo per la sua casa editrice indipendente, la Boitempo. Lula ha chiesto un po' di tempo per pensarci, si è consultato con i suoi avvocati e due giorni dopo le ha telefonato per dirle: “Facciamola”.

Da lì si è messa in moto quella piccola task force che ha costruito il volume, risultato di una lunga intervista realizzata in tre sessioni all'Instituto Lula di San Paolo nei giorni 7, 15 e 28 febbraio. Al dialogo con Lula hanno partecipato i giornalisti Luca Kfouri e Maria Inês Nassif, il docente di Relazioni internazionali Gilberto Marigoni e la stessa Ivana Jingings, fondatrice e direttrice della Boitempo. L'edizione del testo e le note sono state curate dal giornalista Mauro Lopes, che ha consentito anche ai non specialisti di orientarsi nella politica brasiliana. A corredo del volume, una cronistoria della vita di Lula e una galleria fotografica, che documenta anche la recente Carovana con cui l'ex presidente ha inteso richiamare lo spirito dei primi tempi. In allegato, infine, la trascrizione integrale dell'accorato discorso da lui pronunciato di fronte al sindacato di São Bernardo do Campo prima di consegnarsi spontaneamente alla polizia.

Per l'editrice, il libro costituisce “un atto di resistenza culturale” di fronte al restringimento degli spazi democratici e all'avventura autoritaria a cui sembra avviato il paese. Per Roberto Vecchi, si tratta di “uno strumento prezioso e acuto” per comprendere “l'eccezione Lula”. Di sicuro, le risposte dell'ex operaio metallurgico consentono di riflettere sulle trasformazioni che hanno interessato il paese dalla fine della dittatura militare ad oggi e sulla nuova partita che si è giocata nel continente dopo la caduta dell'Unione Sovietica e la riconfigurazione di un mondo multipolare. Quali margini di azione restano a chi voglia cambiare davvero le cose se si arriva a governare con maggioranze parlamentari ibride, soggette a voltafaccia e compromessi sempre più difficili da cavalcare?

La questione emerge nel libro e Lula non si tira indietro: andare al governo – dice – è cosa diversa da prendere il potere. E, d'altro canto – precisa - “il PT non è nato per essere un partito rivoluzionario” e la storia “non si può definire in un solo istante”. Il PT – spiega – è più il portato di diverse istanze che un organismo ben centralizzato, e “rappresenta una grande novità politica nel mondo”. Ha dato cittadinanza alla sinistra “che viveva emarginata”.

E qui Lula consegna un aneddoto, uno dei tanti disseminati nel libro per suffragare le proprie affermazioni. Racconta che, di ritorno da Cuba, discuteva con Guilherme Boulos, rappresentante del Movimento dos Trabalhadores Sem Teto (MTST), “tutto entusiasta perché aveva parlato con quelli di Podemos e chissà chi altri”. E Lula gli fa: “Guilherme, lascia che ti dica una cosa, caro. Sai qual è la differenza tra il PT e Podemos? Il PT è un uomo adulto di 38 anni. Podemos non ha ancora imparato a stare senza pannolino; non ha avuto il tempo di fare errori perché non ha nemmeno cominciato a governare...”.

Gli errori di Lula, invece, vengono analizzati attraverso il suo rapporto politico con Dilma Rousseff e le scelte compiute nel corso dei suoi due governi. Nonostante equivoci, ritardi e non detti, nel quadro di un paese sempre più spaccato a metà tra destra e sinistre, il rapporto tra i due rimane improntato alla lealtà. E Dilma appare anche una figura tragica messa di fronte alla durezza della politica e dei meccanismi di potere, da cui prova l'istinto di fuggire proprio quando vince per la seconda volta le elezioni.

“Quando vinci – dice Lula – devi mettere i tuoi principi sul tavolo per renderli realizzabili. Allora, è per questo che molta gente non vuole vincere. Il Partito Comunista, in Italia, preferì non vincere le elezioni per quasi mezzo secolo”.

Ma che cosa resta di quei principi se il gioco è viziato a monte? “Quello che ho voluto come presidente è stato fare in modo che i più poveri di questo paese s'immaginassero al mio posto. E ci sono riuscito”, dice con orgoglio l'ex metallurgico, ripetendo che “l'unica bandiera del povero è il brontolìo del suo stomaco”. Troppa conciliazione? No – risponde Lula - sarebbe così se avresti potuto fare e non hai fatto, mentre “noi abbiamo dato al popolo molto di più di quanto avrebbe potuto fare una rivoluzione armata”. Gli ostacoli sono di natura storica e strutturale: in Brasile non c'è mai stata una guerra, una rottura. “Ogni volta che la società è stata sul punto di una rottura, c'è stato un accordo. Un accordo fatto dall'alto. Chi sta in cima non vuole andarsene”.

In Brasile, “la democrazia non è la regola, ma l'eccezione. Non c'è bisogno di un golpe militare, puoi farlo sfruttando la legge”: comprando i giornali che costruiscono opinione pubblica e usandola contro il governo, smorzando l'indignazione popolare. Si può fare mettendosi al servizio di quei poteri forti direzionati da fuori, che hanno voluto cacciare Dilma, che vogliono eliminare Lula e poi mettere fuorilegge il Partito dei Lavoratori.

Interessi che, in Brasile, hanno un loro perno centrale nell'Instituto Millenium, uno dei principali think tank neoliberisti del paese. Interessi che, all'interno, poggiano su un razzismo secolare, portati avanti da “quei bastardi” che quando i gringos salgono su un aereo con i bermuda, “lo trovano carino”, mentre se è un brasiliano nero a salire con i bermuda dicono “che non sa vestirsi per prendere l'aereo”.

Interessi che usano a fini politici una magistratura che sta portando il senso comune a considerare i partiti di sinistra come organizzazioni criminali. “Continua ad avere fiducia nell'ultimo tribunale, quello Supremo?” gli domanda il giornalista Juca Kfouri. E Lula risponde: “Devo per forza avere fiducia. Se perdessi la fiducia nel Potere Giudiziario, dovrei smettere di essere un politico e dire che le cose in questo Paese si possono risolvere solo con una rivoluzione. Allo stesso modo non credo nel tribunale popolare, continuo a credere nella democrazia e nel funzionamento di tutte le istituzioni”.

Una democrazia sull'orlo dell'abisso, all'acme di una crisi che indica quella di un sistema della rappresentanza, solo apparentemente rivolto a difendere gli interessi generali. La crisi di una democrazia formale come spia della crisi sistemica di un modello – quello capitalista – incapace di risolvere le proprie contraddizioni se non ricorrendo alla guerra: guerre imperialiste, guerre di nuovo tipo e guerre contro i poveri.

Mentre finiamo di scrivere, c'è già la notizia del ferimento di Jair Bolsonaro, “il Trump Brasiliano”, antagonista di Lula alle presidenziali. Per la stampa, il colpevole è un sostenitore di Lula e del presidente venezuelano Nicolas Maduro, e nel suo profilo Fb si definisce comunista. Bolsonaro sarà di nuovo in pista per il 7 ottobre. Lula, invece, resta in carcere. Geraldo Alckmin, governatore di San Paolo, politico del PSDB, contrario alla candidatura dell'ex sindacalista, ebbe modo di dire al riguardo: “Se non ci va lui, resta più o meno tutto invariato. Una camionata d'angurie con dentro tutti, eccezion fatta per Bolsonaro”.

08/09/2018 | Copyleft © Tutto il materiale è liberamente riproducibile ed è richiesta soltanto la menzione della fonte.
Credits: Copertina del libro

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