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Wajib - Invito al Matrimonio

Una significativa ed emozionante rappresentazione della miserevole condizione con cui è costretto a convivere il popolo palestinese.


Wajib - Invito al Matrimonio Credits: http://www.sentieridelcinema.it/wajib-invito-al-matrimonio/

Nel periodo estivo, in cui la programmazione delle sale italiane è notoriamente di bassissimo livello, è ancora possibile vedere un film significativo, a ragione premiato in diversi festival internazionali, Wajib - Invito al Matrimonio. Sfruttando la tradizionale usanza di portare di persona ad amici e parenti gli inviti alle nozze, Annemarie Jacir, la prima palestinese ad aver diretto un lungometraggio, ci fornisce un quadro d’insieme delle contraddizioni vissute dal suo popolo nei territori da oltre cinquant’anni occupati dai coloni sionisti. Ci consente inoltre di conoscere le contraddizioni interne alla stessa società palestinese, innanzitutto le contraddizioni di classe, che si riflettono anche nelle mentalità e, dunque, nelle contraddizioni culturali e di genere, oltre che le più immediate contraddizioni fra le diverse generazioni. Il film, mostrandoci la realtà e gli stessi personaggi principali in tutta la loro ricchezza e contraddittorietà, è una pellicola decisamente realista, anche perché evita di darci una semplice istantanea della vita nei territori occupati, ma mira a presentarci, a partire dai protagonisti, dei personaggi tipici. In tal modo il film lascia allo spettatore al quanto da pensare e da rielaborare, anche perché più che fornire soluzioni, illustra problematiche storiche, sociali, generazionali, allo stesso tempo individuali, ossia proprie di un determinato mondo storico e sociale, e al contempo universali, in quanto si tratta di questioni – come ad esempio il rapporto dell’uomo con il potere costituito, un potere in cui il singolo non ha modo di riconoscersi – che hanno, purtroppo, validità generale.

Siamo a Nazareth in Cisgiordania, all’interno della numerosa comunità palestinese cristiana, di cui generalmente in occidente si tende a occultare la stessa esistenza, per favorire il riconoscimento nel colono occidentale piuttosto che nell’arabo musulmano, in quanto tale rappresentato come l’altro e identificato, paradossalmente, con l’emigrato.

Al centro del film vi è il confronto scontro fra la vecchia generazione palestinese, che ha dovuto imparare sulla propria pelle a convivere con l’occupazione sionista e i suoi aspetti totalitari – funzionali alla realizzazione di quella pulizia etnica indispensabile alla realizzazione di uno Stato ebraico in Palestina, i cui abitanti erano in grande maggioranza musulmani, con una significativa minoranza di cristiani – e la giovane generazione che è stata costretta a emigrare all’estero, per paura che si potesse ribellare al dispotismo esercitato dai coloni sionisti.

Abbiamo dunque un giovane e brillante architetto inviato dal padre, per evitare problemi con le forze di occupazione, a cercare fortuna in Italia, che ritorna in Palestina in occasione del matrimonio della giovane sorella. Il film, che appare formalmente debitore del grande cinema iraniano, in particolare del regista A. Kiarostami, ci mostra la vita quotidiana nei territori occupati attraverso lo sguardo straniante del giovane protagonista che si è da anni perfettamente inserito nella società italiana. Già di indole giovanile ribelle, il protagonista non può che stupirsi per le condizioni di oppressione inflitte al proprio popolo, a partire dalla sua stessa famiglia, dall’occupazione sionista.

Anzi la cosa di cui più si stupisce è come i palestinesi rimasti in patria non abbiano questa visione straniante della realtà, che consente, come insegna Brecht, a cogliere criticamente la realtà nella sua contraddittorietà, da cui nasce la volontà di modificarla radicalmente. I palestinesi che non hanno lasciato la loro terra finiscono spesso, come del resto gli altri uomini, a essere prigionieri delle tenebre del quotidiano, a essere assorbiti dalle preoccupazioni della vita di tutti i giorni, anche perché nella prigione a cielo aperto in cui sono costretti a vivere le difficoltà e i problemi della vita quotidiana tendono ad aumentare in modo esponenziale. In tal modo, però, finiscono spesso per naturalizzare la situazione incresciosa che debbono subire, finendo per accettarla come un destino sì cinico e baro, ma in qualche modo inevitabile. Anche se lo stato d’eccezione in cui sono da decenni costretti a vivere li pone più facilmente dinanzi alle grandi problematiche storico-sociali, rendendoli meno succubi dell’industria culturale e della società dello spettacolo.

La realtà nella sua durezza e contraddittorietà, questo mondo grande e terribile finiscono per ritrovarselo continuamente davanti con le truppe d’occupazione, i quartieri chic riservati ai coloni sionisti, le tragiche notizie dell’occupazione che riportano costantemente i mezzi di comunicazione, la presenza ai semafori di bambini dei campi profughi costretti a vivere di espedienti e, last but non least, l’oppressione anche nella vita quotidiana del regime totalitario che l’occupazione razzista e classista impone. D’altra parte la necessità di continuare a vivere anche in queste così complesse e ingiuste condizioni porta, in qualche modo a imparare a conviverci e, così, inavvertitamente ad accettare come un dato immodificabile anche le tremende ingiustizie che da troppi anni sono costretti a subire.

In particolare della pulizia etnica della Palestina, per far posto allo Stato ebraico dei coloni, nel film ci si misura con quello che il grande storico israeliano I. Pappe ha definito il secondo stadio della pulizia etnica, che “consiste nell’eliminare le vittime dal loro posto nella storia, per cui è un atto di cancellazione culturale, l’eliminazione dalla storia, dalla memoria”. Tale tragedia storica è particolarmente viva in questo film, perché coprotagonista è proprio un insegnante palestinese che ha dovuto per tutta la vita autocensurarsi per non essere censurato dalle autorità di occupazione che spiano sistematicamente e “legalmente” i palestinesi, in primo luogo gli insegnanti, affinché non tramandino la tragica storia del loro popolo, non raccontino la storia dal punto di vista delle vittime, ma solo dal punto di vista, fortemente ideologico, imposto con la violenza dai vincitori-conquistatori.

Tale è la pressione che subiscono, a partire dai luoghi di lavoro, che il padre si vede costretto a far emigrare all’estero il proprio figlio perché finito sotto osservazione da parte delle truppe di occupazione che lo sottomettono a un intimidatorio interrogatorio vedendo in lui un elemento “sovversivo” avendo fondato insieme ad altri giovani del posto un cineclub.

Si riaffaccia così lo spettro di quello che Pappe definisce il primo stadio della pulizia etnica, ovvero “fare piazza pulita di un gruppo etnico nella sua interezza dal posto in cui vive”. In effetti, sono nei fatti costretti a emigrare tutti quei palestinesi che non sembrano in grado di adattarsi a vivere sottoccupazione o che, come la moglie e madre dei protagonisti, non si accontentano della misera condizione di vita a cui sarebbero altrimenti condannati.

L’aspetto più significativo del film è che tale miseria non è tanto e solo una miseria materiale, a cominciare dall’elevatissima disoccupazione, ma anche culturale – la difficoltà enorme di viaggiare e di conoscere altre culture, altri modi di vivere –, intellettuale e morale. Alla questione intellettuale abbiamo già accennato, i palestinesi non solo hanno scuole materialmente molto meno attrezzate e decisamente più disagiate di quelle riservate ai coloni, ma non hanno nemmeno la libertà di insegnamento e di conseguenza la libertà di pensiero e di parola, in quanto non possono che insegnare quella storia mutilata e ideologica, quel pensiero unico che è imposto dagli occupanti.

Ma forse la miseria più tragica, la meno conosciuta e la più difficile da contrastare, è la miseria morale. Per cui i palestinesi, ormai in buona parte nati e cresciuti sotto occupazione, finiscono involontariamente per normalizzare questo stato di eccezione permanente a cui sono sottoposti. Al punto che persino il padre, protagonista del film, per quanto sia un intellettuale e abbia subito la tragica condizione di un potere totalitario che gli impedisce di svolgere dignitosamente il suo mestiere, finisce per considerare il suo diretto aguzzino – il colono che funge da spia all’interno della scuola e ha il potere assoluto di decidere chi potrà lavorare e avere uno stipendio e chi no, persino fra i “bidelli” – come un “amico” che non si può non invitare al matrimonio della figlia. La tragicità di questa misera condizione morale è che in realtà il maturo insegnante è ben cosciente che in realtà “l’amico” non è altri che il padrone, che ha deciso “l’esilio” volontario del figlio, che gli ha impedito di svolgere coscienziosamente il suo dovere di insegnante e da cui dipende ora la sua possibilità di avanzamento di carriera, del tutto meritato dopo tanti anni di duro e coscienzioso lavoro. Al contempo, però, in tale realtà totalitaria, la spia diviene necessariamente anche “l’amico”, in quanto è lei che ci mette sull’avviso quando il nostro comportamento, o quello dei nostri cari, devia, seppur inconsapevolmente, dall’ordine oppressivo costituito e dal pensiero dominante imposto anche militarmente.

Tale miseria morale non può, inoltre, che produrre il necessario conflitto con il figlio, che potendo ancora giovane emigrare ne è sfuggito e in un primo momento non può che stupirsi e indignarsi del comportamento servile e inconsapevolmente collaborazionista del proprio stesso genitore e, più in generale, di tutte le persone comuni che incontrano che non sono in grado nemmeno di trovare strano e di indignarsi dinanzi al fatto che le truppe di occupazione, senza nemmeno curarsi di non far emergere il proprio status, si sentono libere di andare a mangiare, quando ne hanno voglia, nei luoghi di ristoro delle proprie vittime.

D’altra parte, però, il figlio può continuare a stupirsi e a indignarsi, a cogliere tutte le contraddizioni nel seno del suo stesso popolo, che sono poi, in primo luogo il prodotto della miseria (materiale, culturale, intellettuale e morale) imposta dal regime totalitario di occupazione, solo in quanto ha nei fatti “disertato”, integrandosi in quel mondo imperialista occidentale, principale complice dell’occupazione della Palestina. Certo è stato il padre, su pressione del regime coloniale, a indurre il figlio a disertare, divenendo, involontariamente complice del primo stadio della pulizia etnica, ossia “fare piazza pulita di un gruppo etnico dal posto in cui vive”, ma è ora lui stesso a non poter più tornare a vivere in quello stato di miseria in cui languisce il suo popolo, proprio perché ha il privilegio di esserne pienamente cosciente. In tal modo, però, diviene a sua volta involontariamente complice del terzo livello della pulizia etnica, così descritto da Pappe: – “fare in modo che il gruppo etnico espulso non torni mai più”.

Così, divenendo a propria volta consapevole della propria involontaria colpa, che lo rende complice del suo tragico destino, diviene capace di riconciliarsi con il proprio padre, altrettanto involontariamente colpevole, che ora rappresenta la quasi totalità dei palestinesi costretti a convivere con la barbarica condizione di vivere sotto un’occupazione nemica e straniera. Del resto a fondamento di queste colpe inconsapevoli, c’è una colpa consapevole, quella che costringe un intero popolo a vivere in una situazione miserevole, che costituisce il reale problema da risolvere, mantenendo a ogni costo l’unità e la solidarietà fra i subalterni.

07/07/2018 | Copyleft © Tutto il materiale è liberamente riproducibile ed è richiesta soltanto la menzione della fonte.
Credits: http://www.sentieridelcinema.it/wajib-invito-al-matrimonio/

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L'Autore

Renato Caputo
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