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Zerocalcare su Netflix con Strappare lungo i bordi

Il fumettista romano Zerocalcare si cimenta, con successo, nel mondo dell’animazione realizzando una significativa serie televisiva sul tema della precarietà quale condizione non solo lavorativa ma anche psicologica dei Millennial.


Zerocalcare su Netflix con Strappare lungo i bordi

Il noto fumettista di Rebibbia Zerocalcare è approdato con la sua serie animata (disponibile dal 17 novembre 2021) intitolata Strappare lungo i bordi sulla piattaforma Netflix, generando un gran clamore che, come sempre più spesso accade, si risolve sostanzialmente in una tifoseria estrema pro o contro l’artista, da sinistra come da destra. 

Sorvoliamo abbastanza per quello che riguarda le critiche (o, per meglio dire, le prese in giro) che provengono dagli scribacchini di destra perché esse possono essere utili giusto a strappare (lungo i bordi) qualche squallida risata di compatimento, come nel caso di quelli che trovano clamoroso che un artista noto per essere vicino alle sensibilità di sinistra possa utilizzare “il capitalismo di Netflix” (cit.) per svolgere il proprio lavoro e diffondere un proprio progetto artistico: qui, per intenderci, il livello dell’attacco è talmente imbecille da pretendere che chi critica il capitalismo, per poter essere credibile, debba evidentemente riuscire a ologrammare un universo parallelo in cui si possa miracolosamente sostentare con la sola forza del proprio pensiero antisistemico. Ma d’altra parte è noto che la classe dominante, per poter continuare a legittimare un sistema che in realtà fa acqua da tutte le parti, necessita come l’aria di formare eserciti di intellettuali tradizionali investiti della missione di educare le masse all’accettazione strenua e passiva del sistema stesso attraverso la costruzione di un apparato apologetico sostanzialmente fondato sull’assunto artefatto e antistorico che non esista alcuna alternativa al capitalismo (il “there is no alternative di Tatcheriana memoria) e che la lotta tra sistemi politici contrapposti sia giunta alla fine con la caduta del blocco sovietico (“fine della storia e l’ultimo uomo”).

Comunque, sticazzi, per omaggiare quell’efficace uso della parlata romana tipico di tutte le opere di Zerocalcare e che in tale caso ci giunge assai utile per concludere come effettivamente merita la chiosa su queste imbarazzanti critiche.

Tantopiù che l’autore sfrutta il “capitalismo di Netflix” proprio per diffondere un prodotto volto a criticare il capitalismo stesso e quel sistema di precarietà che ne è la cifra stilistica e che non è più solo precarietà professionale e lavorativa ma dilaga ormai anche nella sfera esistenziale ed emotiva delle vite di tutte e tutti noi, in particolare della generazione dei cosiddetti Millennial, cui anche Zerocalcare appartiene. 

Attraverso la sua opera cinematografica, il famoso fumettista dà forma al (e informa del) disagio che vive questa particolare generazione la cui coscienza ha anch’essa una struttura molecolare fatta di vette e abissi dove solo momentaneamente si stabilisce un equilibrio instabile, pronto a rompersi al primo colpo. La precarietà del mondo economico e lavorativo con le sue oscillazioni sembra riflettersi nei problemi della psiche dei protagonisti, i quali rappresentano bene i caratteri fondamentali della generazione Millennial.

Risulta a nostro avviso molto ben congeniato il rapporto tra mondo economico/sociale e psiche, laddove quest’ultima sembra plasmarsi sulla materialità della vita vissuta e ben miscelata con una certa dose di “tradizione” popolare (vedi tutte le forme di maschilismo, machismo e patriarcato) e, infatti, diviene anch’essa fragile e sempre oscillante tra momenti opposti: egocentrismo-sensazione di essere una nullità, esigenza di serenità-costante inquietudine, avversione per le ingiustizie sociali-indolenza, senso angosciante di solitudine-isolamento e scansamento della socialità etc. 

Strappare lungo i bordi dipinge molto bene la sensazione di smarrimento dettata dalla definitiva scomparsa di quella spavalderia allegra e innocua di una generazione che è cresciuta felice con relativamente poche e più autentiche cose rispetto all’oggi, che ricorda la spensieratezza della propria infanzia e adolescenza con una malinconia spropositata soprattutto se paragonata al crollo di ogni certezza che fisiologicamente rappresenta l’età adulta e ancor di più l’età adulta gravata dall’ansia di affrontare un asfissiante sistema che carica le persone di aspettative ma le costringe contemporaneamente alla più rude precarietà e incertezza. Il cinismo e l’eterna irrisolutezza financo sentimentale/esistenziale divengono pertanto, nella visione e nell’esperienza di Calcare, la cifra stilistica di una generazione. Di questo si è detto: ma non rappresenta certo tutti e tutte noi, c’è chi la vita non l’ha potuta schivare e l’ha sempre affrontata di petto. Senz’altro, ma criticare un’opera come questa perché, in fondo, non assurge a essere pienamente e totalmente rappresentativa del 100% delle esperienze, del vissuto e dei sentimenti dei Millennial cui si rivolge, forse, paradossalmente, testimonia ancora meglio la capacità dell’autore di aver colto non tutte (ovviamente, diremmo) e nemmeno la gran parte delle nostre sensibilità ma una sorta di “minimo comune denominatore” della prospettiva da cui noi di quella generazione abbiamo guardato (o lo abbiamo visto fare dai nostri coetanei) ai cambiamenti a cui abbiamo assistito nel nostro percorso di crescita e approdo all’età adulta.

L’eterno bambino non-risolto e complessato che non sa nemmeno affrontare il cambio della ruota forata dell’auto senza chiedere aiuto alla mamma, il carattere dominante del protagonista dipinto nella serie, ha un nesso stretto, nel suo essere così irrimediabilmente insicuro e spaventato, con quell’apparente sensazione di pace che si prova nel rendersi conto di non portare “il peso del mondo sulle spalle, di essere solo un filo d’erba in un prato che non fa la differenza per nessuno e non è responsabile per tutti i mali del mondo”. La deresponsabilizzazione e l’isolamento, la convinzione di non poter fare la differenza, la resa, ha rappresentato (e rappresenta) per molti e molte la risposta, il porto sicuro cui riparare dinnanzi alle angosce descritte. Che poi rappresenta in una certa misura la scelta compiuta nella serie da tutti i personaggi: sia da Alice, che perlomeno ha provato a combattere e che forse si sentiva sconfitta senza realmente esserlo, sia dai suoi amici che hanno, volenti o nolenti, distolto lo sguardo per non affrontare anch’essi i medesimi problemi. Pecca della serie, infatti, è un irrisolto senso di smarrimento, ancora, che permane anche nell’amaro finale, lasciando lo spettatore confuso e desolato e non adeguatamente motivato a reagire e spezzare le catene di un sistema che relega sempre più spesso le vite delle persone a una sommatoria di sconfitte, incertezze, paure, senso di inadeguatezza e disperazione, magari trovando nell’organizzazione collettiva e solidaristica una prima chiave di svolta contro l’individualismo e la solitudine cui siamo indotti. Il contrario, insomma, della logica del filo d’erba isolato cui non fa caso nessuno, che fa parte di un prato senza mai dialettizzare veramente con esso, e che non potrà mai fare nulla di valido per dare una svolta alla propria vita personale, figuriamoci a quella sociale.

Resta il fatto che anche questa tendenza alla rassegnazione, che diviene resilienza nei soggetti più forti, rappresenta una realtà diffusa in questa fase storica dove il valore e il potenziale della lotta sociale e politica non viene più avvertito da molti e molte come fondamentale né risolutivo. La serie in qualche modo testimonia validamente anche di questa realtà attraverso questa spinta a cogliere il nesso tra mondo economico e sovrastrutture psichiche e dando voce, come si è detto, ai caratteri tipici e problematici di una generazione della nostra epoca. Tutto ciò può essere utile altresì a riaprire il discorso sul realismo all’interno dell’opera d’arte in generale e cinematografica in particolare quale modalità comunicativa e narrativa che tanto ha rappresentato e restituito anche in passato alla costruzione di una identità soprattutto popolare

Significativo, sotto questo aspetto, il ricorso (che tanto fa discutere soprattutto fuori dalla capitale) alla descrizione sensoriale di una realtà così specifica come quella della periferia romana da cui proviene l’autore, con tutto il suo portato sia retrogrado che genuino: una scelta, coerente in tutte le opere di Zerocalcare, che in qualche misura ci rimanda alla mente quella visione gramsciana del folklore come complesso in grado, a volte, di esprimere anche “una serie di innovazioni, spesso creative e progressiste, determinate spontaneamente da forme e condizioni di vita in processo di sviluppo e che sono in contraddizione, o semplicemente diverse, dalla morale degli strati dirigenti”.

La critica positiva a Strappare lungo i bordi, lo ribadiamo, sta proprio in questo efficace e rappresentativo peregrinare tra le curvature della psiche di una generazione precaria e la vita reale che queste generazioni conducono, puntando sempre a connettere l’una all’altra e aprendo dunque a una lettura della storia dell’uomo tendenzialmente di tipo materialistico storico e dialettico. Va detto che se l’inconscio è ben delineato non allo stesso livello lo è il mondo economico: quest’ultimo infatti è solo tratteggiato, genericamente individuato nelle sue aberrazioni ma in certi momenti sembra addirittura naturalizzarsi e sparire dietro a risolti eccessivamente intimistici.

Da questo punto di vista dobbiamo dare all’artista il merito di aver realizzato un’opera seria che fa dunque riflettere e non un mero prodotto culinario utile a saziare la pancia con qualche bel banchetto di luoghi comuni tanto in voga anche presso gli artisti-intellettuali della sinistra nostrana, troppo spesso aggrappati al decadentismo o allo snobismo. Al contrario, a nostro avviso, l’opera di Zerocalcare conduce lo spettatore alla riflessione su se stesso e sull’epoca in cui vive e ha vissuto, forse anche in una misura in cui lo stesso autore non si figurava di poter riuscire.

Ovviamente proprio in virtù del materialismo dialettico, l’artista stesso non è e non può essere avulso dalla storia nella quale vive e la sua opera non può essere avulsa dall’artista che l’ha creata, dunque nell’opera ritroviamo l’autore che necessariamente vi inserisce se stesso oggettivando la propria vita e la propria psiche in essa. La sua non-risolutezza, la sua indeterminatezza, è anch’essa figlia dei tempi che corrono e l’autore sembra non avere la necessaria spinta per sfuggirvi. La sua espressione artistica è anche la sua coscienza del mondo reale e su questo aspetto, forse, si può delineare la critica negativa alla serie. 

Infatti, la forte empatia creatasi intorno all’opera è l’empatia intorno all’identificarsi di molti nel tipo contorto, riflessivo ma non-risolto, cioè l’incapacità di risolvere le problematicità della propria coscienza passando all’azione, abbandonando l’apatia, abbracciando una dimensione alimentata da un sufficiente grado di “spirito dell’utopia” da portarci a credere di poter innescare il cambiamento e il progresso storico che cerchiamo attraverso i tentativi di realizzare l’uomo nuovo a partire da noi stessi.

03/12/2021 | Copyleft © Tutto il materiale è liberamente riproducibile ed è richiesta soltanto la menzione della fonte.

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