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La “Buona Università”? C’è già… e non ci piace!

Contrariamente a quanto credono i più, i contenuti della “Buona scuola” di Renzi sono già presenti e operativi nelle Università italiane.


La “Buona Università”? C’è già… e non ci piace! Credits: By Faboski (Own work) [GFDL (http://www.gnu.org/copyleft/fdl.html) or CC BY 3.0 (http://creativecommons.org/licenses/by/3.0)], via Wikimedia Commons

Contrariamente a quanto credono i più, i contenuti della “Buona scuola” di Renzi sono già presenti e operativi nelle Università italiane. La progressiva aziendalizzazione degli atenei, iniziata con il Ministro Ruberti all’inizio degli anni Novanta e contrastata dal movimento studentesco “la Pantera”, si è definitivamente compiuta con la riforma Gelmini. Ora il mantra della “semplificazione” potrebbe aprire nuovi scenari persino più inquietanti di quelli già noti.

di Virginio Pilò

Il tema de “la Buona Università” inizia ad emergere, da poco, anche tra i non addetti ai lavori. L’opinione generale è che si tratti di una trasposizione della pessima riforma denominata “la Buona Scuola” al campo universitario.

Ebbene no!

Chi lavora o insegna all’Università, così come gli addetti ai lavori di cui sopra, sa perfettamente che i contenuti della riforma scolastica di Renzi sono già ben presenti negli atenei e più che operativi. Anzi, son persino più crudi…

La vera riforma dell’Università, una vera e propria ristrutturazione dell’intero sistema universitario forse ancor più profonda di quanto non preveda la stessa “Buona Scuola”, porta il nome di Gelmini.

Ciò su cui conviene dunque concentrare l’attenzione è la pretesa di portare l’Università “fuori dal sistema pubblico”. E come si declinerebbe ciò…?

I precedenti, innanzitutto.

La Gelmini ha modificato in profondità le relazioni, l’organizzazione, la stessa didattica e la ricerca, intervenendo principalmente su una revisione dei poteri e degli assetti istituzionali degli atenei. La Spending Review è stata poi la “naturale appendice” di una progressiva spinta all’aziendalizzazione di una Università che fin dai tempi di Ruberti (do you remember “la Pantera”…?) anelava a diventare impresa.

Non che l’Università fosse indenne, infatti, da continue e perverse incursioni legislative nel corso degli ultimi trent’anni. Dopo Ruberti, ovvero l’introduzione del “privato è bello”, si ricorda Berlinguer (Luigi), il ministro del 3+2, con la sua riforma da “superliceo”, mentre i successivi si ricordano a malapena proprio perché portatori di tante leggine e norme minori (ad eccezione di Zecchino, su cui si dirà più avanti) che hanno comunque appesantito il corpus amministrativo universitario in maniera parossistica.

La Gelmini è quindi intervenuta con una relativa facilità su un corpo già fiaccato e continuamente in ansia per le sue sempre precarie sorti.

Non a caso le reazioni, fatta eccezione per le proteste studentesche, sono state solo sporadiche e circoscritte in poche realtà particolarmente attente e solo in momenti topici.

Gli Statuti.

Ad una supposta e molto ambigua “autonomia”, già insolentita da quanto detto qui sopra, la Gelmini interviene con una disciplina quanto mai centralistica, verticista ed accentratrice di poteri

Il Rettore, ad esempio, da “Magnifico” inter pares (n.b.: solo tra il corpo docente…) è diventato un monarca assoluto. Il CdA, vero cuore amministrativo dell’ateneo, da elettivo e comprensivo di tutte le rappresentanze universitarie - dai docenti agli studenti ai tecnici amministrativi - è diventato, fatte poche eccezioni, organo ristretto con maggioranza di nomina rettorale. I membri esterni prevedono una rappresentanza dell’imprenditoria.

Il modello iperaziendalista viene “bilanciato” da un Senato competente su Ricerca e Didattica. Anche il Senato, seppure comprendente una sparuta rappresentanza di tecnici amministrativi, obbedisce comunque ad una ratio verticistica, laddove 10 dei 24 docenti, tra ricercatori, associati ed ordinari, DEVONO essere direttori di dipartimento. Tra gli altri 14 i Ricercatori eletti, QUANDO eletti, non possono che essere espressione di una consorteria di un sistema “elettorale” predefinito a monte nelle proprie (5) macroaree di appartenenza.

Da sistema bicamerale - quasi perfetto - che riprendeva quello parlamentare, il sistema istituzionale universitario scimmiotta ed anticipa l’idea di governance postmoderna che si sta affermando in ogni ambito istituzionale del Paese (e non solo…): Una parvenza di rappresentanza dominata da una ristrettissima cerchia di superbaroni e da un imperatore plenipotenziario che, nel suo mandato secco di sei anni, ha il potere di creare la sua corte a propria immagine e somiglianza.

I poteri che vengono attribuiti ai Presidi delle scuole con l’introduzione della renziana “Buona Scuola” sono ancora ben lontani da quanto è già in essere negli atenei.

Occorre dunque vedere qual è il processo reale che si deve temere, e non limitarsi ad analogie che risulterebbero nei fatti meno che approssimative.

Non la fotografia dell’esistente, dunque, ma un tratteggio forse ancora speculativo, ma non per questo privo di giustificatissimi timori.

Università gravata da una selva inestricabile di leggi, leggine, circolari, decreti, interpretazioni, revisioni e il tutto sempre più nelle disposizioni di soggetti, seppure istituzionali, comunque “esterni” alla comunità accademica come Revisori e MEF, questi ultimi ormai dei veri e propri supercommissari.

A fronte di ciò, e di una conseguente oggettiva difficoltà a districarsi in tale selva normativa nello svolgimento anche della più blanda e ordinaria amministrazione, la richiesta che apparentemente sorgerebbe “spontanea” è la semplificazione, parolina magica che ha il potere di aprire nuovi scenari persino più inquietanti del già noto.

L’esperienza degli ultimi venti/trenta anni insegna come la parola semplificazione faccia rima con privatizzazione (ma anche esternalizzazione…).

Per l’Università si declina in “passaggio del personale Tecnico Amministrativo sotto contratto di tipo privato” unitamente alla “contrattualizzazione (questa, però, ancora di tipo pubblico) del personale Docente”.

Il personale Docente, finora, è equiparato in scala ai Magistrati, a loro volta agganciati al trattamento stipendiale dei parlamentari.

Al di là delle facili e più che legittime opinioni in merito, lo status giuridico del corpo docente universitario evidenziava il rispetto dell’Istituzione al pari grado degli altri massimi organi istituzionali. Il “particolare”, dunque, non è privo di rilevanza, tutt’altro…

A cascata, infatti, una volta compiuta la degradazione dell’Istituzione (a mero laureificio), il processo di proletarizzazione selvaggia si può definitivamente compiere.

I Ricercatori, già fortemente ridimensionati nelle loro legittime aspirazioni accademiche dalla Gelmini, destinati ad essere sempre più “ricambi sostituibili” ai fini della Ricerca e anche della Didattica. Solo pochi tra essi, dopo una lunga gavetta di precariato, possono sperare di diventare Professori Associati. Da Associati ad Ordinari, stante la già esigua disponibilità di fondi (il Fondo di Finanziamento Ordinario, ovvero i soldi destinati agli Atenei, continua a subire tagli), la promozione è sempre più difficile. La “piramide”, di cui tanti bocconiani lamentavano la scomparsa, torna più viva che mai e con una base molto più larga ed un vertice sempre più acuto.

Le proposte di abolizione del valore legale del titolo di laurea, inoltre, servono a definire una gerarchia - funzionale al mercato – tra atenei di serie A e serie B.

Facile intuire dove poi si indirizzerà il Finanziamento ministeriale…

Ciliegina sulla torta, gli atenei privati, anch’essi curiosamente inseriti in CRUI (Conferenza Rettori Università Italiane), già oggi ricevono proporzionalmente più fondi dal MIUR di quanto non ricevano gli atenei statali (sic!).

Si tralasciano qui le osservazioni relative al diritto allo studio; le possibilità degli atenei di modificare ed ampliare le tasse d’iscrizione, i nuovi coefficienti ISEE utili alla fasciazione, i numeri disponibili di borse di studio ed altri dettagli già in vigore parlano da sé: Università d’elite. E si tralascia anche, per economia di discorso, la completa rimozione della ragione sociale dell’Università, ovvero fattore di progresso e conoscenza a disposizione dell’intera società, considerandola implicita.

Come si realizzerebbe tutto ciò…?

La parola che ancora una volta compare in agenda, nonostante autorevoli smentite e la si sussurri sotto voce, è FONDAZIONE.

Niente più che una particolare declinazione del Jobs Act di Renzi.

Lo sviluppo di certi progetti trova oggi le condizioni ideali, politiche e culturali, in un ambiente che ha sempre visto uno spiccato, quasi esclusivo, protagonismo “Dem”.

I primi a disegnare l’uscita dell’Università dal sistema pubblico furono infatti esponenti dell’allora DS.

Una breve cronologia aiuta a ricordare.

Nella Legge Finanziaria 2001, col morente governo Amato e con Ministro per l’Università Ortensio Zecchino (era Professore Associato al momento dell’incarico ministeriale, diventerà Ordinario una volta rientrato nei ranghi accademici), vengono inseriti due articoletti (art 59, comma 3; art. 90) che consentono la trasformazione degli Atenei in Fondazioni di diritto privato ed il trasferimento a questi di beni mobili ed immobili.

Non produrrà effetti, se non marginali nel complesso. Darà però il via ad una serie di iniziative che si inseriranno nel solco così tracciato.

Si ricorda la proposta di legge firmata da Luciano Modica, ex Rettore di Pisa ed ex Presidente della CRUI e poi Senatore della Repubblica per i DS, unitamente ai sodali Deputati Walter Tocci e Nicola Rossi, di trasformare tout court gli atenei in Fondazioni.

La proposta presentata da Nicola Rossi era volta a consentire “agli atenei che lo desiderino di trasformarsi in fondazioni autonome, godendo dei vantaggi e accettando i rischi della competizione sul mercato mondiale della formazione e della ricerca”. In questa prospettiva gli atenei otterrebbero “autonomia finanziaria, gestionale, didattica e scientifica, prevedendo la facoltà di assumere il personale docente e non docente con contratti di diritto privato, organizzare l'intera struttura della didattica e acquisire risorse da destinare alle attività statutarie della fondazione” (testuale da un suo intervento).

La proposta morì però in culla, in quanto l’allora superministro dell’Economia, quel Tremonti del governo Berlusconi, si mise di traverso per la sua interpretazione dirigistica e pubblica dei deputati “enti-fondazioni”. Tremonti intendeva affidare la guida agli enti locali (le Regioni, più propriamente…); la volontà dei deputati DS era invece di affidare la guida di questi enti-fondazioni alle fondazioni bancarie. DS più liberisti di tutti!

E poi ancora la “valutazione” della ricerca e della didattica, ispirata a rigorosi metodi e contenuti aziendalistici, con tanto di istituzione di “agenzia” (Anvur), primo firmatario Modica e ministro competente Mussi, DS.

In poche parole, un embrionale renzismo ben radicato nel corpo del futuro PD aveva già elaborato, e in parte attuato col successivo governo Prodi (il suo ultimo), le principali linee strategiche per una privatizzazione e aziendalizzazione spinta dell’Università.

La Gelmini, infine, seppure porti il nome dell’allora Ministra, fu quasi interamente scritta dalla CRUI, organo a maggioranza e trazione PD.

Non stupisce, dunque, che sempre lo stesso partito, innovato nella sola sigla, si appresti alle mazzate finali. Adesso ha tutti i numeri e le condizioni per operare.

La vera difficoltà nell’istituire Fondazioni di diritto privato che gestiscano gli aspetti più tipicamente amministrativi degli atenei è il rischio – quasi una certezza – di una duplicazione di apparati e normative che vanificherebbero l’obiettivo dichiarato, ovvero la semplificazione, producendo paradossalmente proprio l’esatto contrario, la ulteriore complicazione.

Va detto che questo aspetto rasserena molti animi, anche tra chi è più attento e tendenzialmente preoccupato.

A tanti altri, invece, non appare garanzia sufficiente per scongiurare un pericolo invece molto probabile.

Per chiudere, alcuni intenti sopra descritti non sono ovviamente da circoscriversi necessariamente all’interno dell’unica cornice delle Fondazioni, tutt’altro…

Il pericolo più immediato, qui ed ora, è l’avanzata del Jobs Act anche all’interno dell’Università. Si sottolinea il termine avanzata poiché un piede dentro la porta lo ha già messo, in particolare per i precari, e per loro il Jobs Act è già presente e vigente negli atenei.

Come si vede, dunque, l’Università ancora una volta è mesta motrice di “buone” intenzioni ed attenzioni del governo di turno. Altro che duplicati…

05/11/2015 | Copyleft © Tutto il materiale è liberamente riproducibile ed è richiesta soltanto la menzione della fonte.
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