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La concezione del realismo di Brecht

L’arte, per Brecht, non si limita a riprodurre la realtà, ma opera una sua trasposizione in forma che è allo stesso tempo una trasmutazione nella verità, se solo entrando nell’orizzonte di senso dell’opera il reale diviene “dominabile”, la forma, da parte sua, non può essere considerata come dotata in sé di senso prima ancora di realizzarsi nella mediazione con il proprio contenuto.


La concezione del realismo di Brecht Credits: https://www.teatrodellapergola.com/evento/vita-di-galileo/

 

Secondo Bertolt Brecht l’idea stessa di un puro rispecchiamento del reale deve essere considerata come in sé contraddittoria, in quanto nell’atto stesso di restituire qualcosa non si può che sottolinearne determinati aspetti lasciandone in ombra o escludendone altri. Quindi, a parere di Brecht, “quando l’arte rispecchia la vita, lo fa con specchi speciali. L’arte non diventa antirealista quando altera le proporzioni, ma quando le altera così che il pubblico, servendosi delle sue immagini per trarne intuizioni e impulsi pratici, fallirebbe nella vita. Indubbiamente occorre che la stilizzazione metta in rilievo il «naturale» e non lo faccia sparire” [1].

Secondo Brecht, riprodurre qualcosa significa necessariamente renderla presente e, quindi, occorre avere una qualche conoscenza di ciò che si intende presentare, una conoscenza che sarà determinata dal modo stesso in cui si è svolto, di volta in volta, il processo conoscitivo di apprensione-restituzione. Come ha osservato Brecht: “la trama non corrisponde semplicemente a una vicenda tratta dalla convivenza umana, così come essa potrebbe essersi svolta nella realtà, ma consiste piuttosto in un assieme di fatti opportunamente ordinati in cui si esprimono le idee sulla convivenza umana del loro inventore. Così i personaggi non sono semplici copie di persone vere ma figure costruite e formate secondo certe idee” [2].

Proprio perché il contenuto di realtà nella rappresentazione non coincide con il suo stadio precedente al processo di messa in forma, esso può essere considerato un’immagine estetica del reale e non una sua pedissequa e “fedele” imitazione o una pura e semplice copia. Mentre quest’ultima, per la sua stessa essenza, sarebbe in un rapporto di assoluta dipendenza dall’essere raffigurato, ne sarebbe un puro e semplice strumento, una mera apparenza, l’immagine estetica, non limitandosi a riprodurre un modello a essa esterno, svolge una funzione imprescindibile rispetto al processo di manifestazione dell’“originale” ed è indispensabile al suo darsi sensibile, al suo darsi un’immagine nell’opera [3].

Certo, la stessa immagine estetica, però, non può essere considerata come un tutto in sé compiuto, in quanto essa è definibile solo nel rapporto essenziale che la lega al suo mondo, a quel reale di cui aspira a essere l’immagine, l’espressione. Solo in questo modo essa può aspirare a ridivenire mimesis, riconquistando il suo originario valore conoscitivo [4]. Ben inteso in questo caso per mimesis non si intende affatto una pedissequa imitazione del reale, ma una sua rappresentazione cui è affidata una peculiare funzione conoscitiva, che ha il suo fondamento nel permettere al suo fruitore di riconoscere quel “reale” che l’opera rappresenta, di cui si fa carico, “reale” che può assurgere al senso, può essere fruibile nella sua verità solo se sottratto a quella perenne, disordinata e insensata metamorfosi cui è altrimenti condannato, in cui è normalmente sommerso.

Come ha osservato Brecht: “gli uomini non sono altrettanto compiuti quanto le immagini che ci si fa di essi e che meglio sarebbe non completare mai interamente. Per di più si deve anche aver cura che non solo le immagini assomiglino al prossimo ma anche che il prossimo alle immagini. Non solo il ritratto di un uomo deve venir cambiato quando l’uomo si cambia, ma anche l’uomo deve venir cambiato quando gli si presenta un buon ritratto. Se si ama l’uomo, dall’osservazione dei modi del suo comportamento e dalla conoscenza della sua condizione si possono desumere certi modi di comportamento che per lui sono buoni. […] Nella condizione che determina il suo comportamento improvvisamente rientra l’osservatore stesso. L’osservazione deve dunque donare dell’osservato un buon ritratto che ha fatto di lui. Egli può introdurre modi di comportamento che l’altro da solo non troverebbe; questi tipi di comportamento sopperiti non restano però illusioni dell’osservatore; diventano realtà: l’immagine è diventata produttiva, è capace di mutare colui che è stato ritratto, contiene proposte (realizzabili). Fare un’immagine come questa significa amare” [5]. Si tratta, dunque, di un processo ben diverso dalla presunzione del naturalismo che riteneva ingenuamente di poter restituire il reale nell’opera tramite una riproduzione diretta e immediata.

Se l’arte, per Brecht, non si limita a riprodurre la realtà, ma opera una sua trasposizione in forma che è allo stesso tempo una trasmutazione nella verità, se solo entrando nell’orizzonte di senso dell’opera il reale diviene “dominabile”, la forma, da parte sua, non può essere considerata come dotata in sé di senso prima ancora di realizzarsi nella mediazione con il proprio contenuto. Questo processo permette, infatti, di superare lo stadio di postulazione insoddisfacente in cui si trova la “realtà” prima di essere messa in forma. Solo entrando nell’orizzonte di senso aperto dall’opera, infatti, il reale può accedere alla sua verità. D’altra parte la forma stessa non può essere considerata come dotata in sé di senso prima ancora di realizzarsi nella mediazione con l’extraestetico. È solo grazie a questo incontro con qualcosa che è essenzialmente altro da lei che essa può aspirare a raggiungere la sua propria verità. Il suo senso è dato solo in virtù di ciò che rappresenta e questo perviene alla piena esplicitazione del suo essere solo all’interno dell’opera. La stessa idealità dell’arte non può più, quindi, essere ingenuamente intesa come pura e semplice restituzione del reale sulla base di un’idea già in precedenza pienamente definita, che possa venir considerata alla stregua di un modello da seguire. La realtà può essere manifestata dall’arte solo sulla base del manifestarsi dell’ideale, del suo rendersi sensibile, del suo darsi una forma, il che implica necessariamente una trasformazione del reale e un venire a compimento dell’ideale.

L’opera realista, dunque, mirando a una rappresentazione di questo tipo si propone come un vero e proprio evento ontologico in quanto aspira a ridefinire lo stesso statuto ontico di ciò che porta a manifestazione. Lo statuto ontologico dell’opera è, quindi, garantito unicamente dal fatto che in essa è l’essenza stessa del reale che si presenta in una manifestazione dotata di senso.

Questa concezione dell’arte portò Brecht a un crescente contrasto con la concezione “ufficiale” dei “moscoviti”. Si innescò, così, una polemica indiretta tra Brecht e Lukács, che pure da quelle posizioni era ben distante. Vista oggi questa polemica sembra in gran parte basata su un’incomprensione di fondo tra i due autori che, attaccandosi a vicenda, finivano in realtà per colpire le posizioni dogmaticamente avanguardistiche o conservatrici dei rispettivi epigoni. Nonostante questa doverosa precisazione è utile analizzare, per sommi capi, questa polemica, per comprendere meglio cosa intendesse Brecht con il termine “drammaturgia non-aristotelica”. Come ha notato Mittenzwei, infatti, “più ancora che Stanislavskij per Brecht era Lukács il maggiore antipode, il diffusore dell’aristotelico” [6]. La polemica tra i due si incentrava essenzialmente sulla relazione che doveva stabilirsi tra il moderno scrittore realista e la tradizione. Brecht rimproverava a Lukács di aver voluto imporre degli astratti modelli del passato, senza voler affatto considerare le nuove problematiche con cui ha a che fare lo scrittore moderno. In questo modo il filosofo ungherese aveva finito con il negare qualsiasi valore agli esperimenti compiuti dalle avanguardie per adeguare la forma ricevuta dalla tradizione a una realtà resa sempre più complessa dai progressi della ricerca scientifica. Al contrario, a Brecht premeva di far emergere nei suoi scritti il differente contesto in cui erano costretti a muoversi gli scrittori moderni. A suo avviso la differenza fondamentale era costituita dalla perdita di importanza del momento soggettivo nel nuovo ordine sociale.

 

Note:

[1] Brecht, Bertolt, Scritti teatrali, 3 voll., a cura di Castellani, E., Einaudi, Torino 1975, vol. II, p. 184.

[2] Ivi, p. 188.

[3] Si veda a questo proposito l’importante scritto Sulla confezione delle immagini, in cui Brecht si chiedeva se fosse lecito desumere “tipi di comportamento futuri in base a quelli che percepiamo” e se fosse sufficiente a questo scopo “un retto modo di desumere”. A queste domande egli rispondeva, osservando: “molto sta nell’immaginare un retto modo di desumere, ma non basta.” Brecht, B., Gesammelte Werke, Suhrkamp in collaborazione con E. Hauptmann, Frankfurt a. M. 1967, 20 voll., vol. XX, p. 68.

[4] Si è scelto deliberatamente di fare riferimento a un concetto della tradizione aristotelica per chiarire un aspetto decisivo della concezione dell’arte di Brecht, per quanto artefice di una drammaturgia “non-aristotelica”. Spesso si è creduto di rinvenire una critica indiretta ad Aristotele nella costante polemica di Brecht nei riguardi di una mimesis che, troppo attaccata all’empirico, non è poi in grado di approntare un discorso critico sulla realtà. Si tratta di una mimesis intesa come una meccanica imitazione del reale che, sacrificando l’elemento creativo, diviene incapace di una scelta etico-interpretativa nei confronti del suo materiale e dei suoi mezzi. A questa si affianca la critica, di derivazione platonica, all’uso sofistico della mimesis artistica. Non è però, certo, che queste critiche possano essere ritenute degli attacchi diretti alla concezione dell’arte di Aristotele. Questi, infatti, pur servendosi dello stesso termine (mimesis) utilizzato da Platone per criticare la rappresentazione artistica, ne ha trasformato radicalmente il valore concettuale, in un senso che non contrasta con le esigenze dell’estetica brechtiana. La mimesis non ha più la funzione di una pedissequa imitazione del mondo sensibile, ma diviene la base della costruzione di un’armoniosa totalità di vita e di azione, in grado di far emergere la verità del sentire e dell’agire dell’uomo. Come chiarisce Aristotele nel decimo capitolo della Poetica, l’autore non si può limitare a imitare il singolo dato empirico, ma deve far emergere nell’opera l’universale. Dato che il fine della mimesis artistica deve essere il contenuto unitario e armonico dell’opera, essa deve necessariamente elevarsi al di sopra del mondo fenomenico. Quindi non solo la concezione dell’imitazione di Brecht non è in contrasto con quella di Aristotele, ma tra le due si possono rinvenire diversi punti di contatto, come hanno, almeno in parte, mostrato gli studi di Dickson, K. A., Brecht: An Aristotelian malgré lui, in “Modern Drama” n. 11, 1967, pp. 111-121 e Joly, H., Sur quelques problèmes d’esthétique théâtrale chez Aristote et Brecht, in AA.VV., Procedings of the wordl congress on Aristotle. Thessaloniki August 7-14-78, Atene 1983, pp. 140-150.

[5] Brecht, B., Gesammelte…op. cit., vol. XX, pp. 69-70. Cfr. G. Baratta, Verso un pensatore collettivo: Brecht a colloquio con Gramsci in “Allegoria per uno studio materialistico della letteratura”, anno III, n. 9, Franco Angeli, Milano 1991, p. 141-46.

[6] Mittenzwei, Werner, Der Realismus Streit um Brecht. Grundriß der Brecht-Rezeption in der DDR 1945-1975, Aufbau Verlag, Berlin und Weimar 1978, p. 61.

19/08/2022 | Copyleft © Tutto il materiale è liberamente riproducibile ed è richiesta soltanto la menzione della fonte.
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L'Autore

Renato Caputo
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