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La genesi del fascismo

Dalla nascita del movimento fascista, alla trasformazione dell’Italia in una dittatura liberal-democratica della borghesia per tener testa alle forze rivoluzionarie sviluppatesi nel proletariato italiano grazie alla spinta propulsiva della Rivoluzione d’ottobre.


La genesi del fascismo Credits: http://www.patriaindipendente.it/idee/cittadinanza-attiva/ragionando-sul-fascismo/

Link al video della lezione tenuta per l’Università popolare Antonio Gramsci su concetti analoghi

1. La genesi del fascismo

Nella crisi sociale e politica che caratterizza il primo dopoguerra in Italia si inserisce Benito Mussolini – ex dirigente della sinistra socialista anarcoide, espulso dal partito per le sue posizioni interventiste nella Prima guerra mondiale – che, nel 1919, fonda il movimento politico dei Fasci di combattimento. Mussolini si è formato non su Karl Marx e Friedrich Engels , ma su Georges Sorel – punto di riferimento della tradizione sindacalista rivoluzionaria e anarcoide cui lo stesso futuro duce era legato – e su pensatori conservatori come Arthur Schopenhauer, reazionari come Friedrich Nietzsche e anarco-individualisti come Max Stirner, durissimamente criticato dai fondatori del marxismo scientifico ne L’ideologia tedesca .

Il programma dei fasci di combattimento mira alla difesa dell’interventismo – di contro alle aspre critiche sollevate dinanzi allo spaventoso macello prodotto dalla Prima guerra imperialista mondiale – e attacca la classe dirigente liberale mescolando, in modo disorganico, nazionalismo sciovinistico e rivendicazioni politiche e sociali della tradizione socialdemocratica . Nel programma del movimento, opera di Mussolini, il fascismo proclama di essere, in modo provocatoriamente contraddittorio, aristocratico e democratico, conservatore e progressista, reazionario e rivoluzionario a seconda delle circostanze. Si tratta, dunque, di una posizione politica apertamente qualunquista e ultra-opportunista. Tale completa incoerenza e contraddittorietà, del resto, esprime le contraddizioni del blocco sociale di riferimento, piccola borghesia e classe media per la loro posizione intermedia nello scontro caratteristico del mondo moderno fra capitale e forza-lavoro.

La piccola borghesia rappresenta una contradictio in adiecto in quanto è al contempo classe sfruttatrice e classe sfruttata, componente del blocco sociale dominante e dei ceti sociali subalterni. I suoi membri, che vivono dell’autosfruttamento della propria stessa forza-lavoro e di quella della propria prole, solo al contempo padroni e lavoratori. Aspirano a essere parte della borghesia, quale gruppo sociale dominante, ma al contempo è lo stesso sviluppo del modo di produzione capitalista a minacciare costantemente la piccola borghesia di venir precipitata, dalla concorrenza con la grande borghesia di cui non può tenere il passo, nel proletariato.

Anche il ceto medio è in sé contraddittorio, da una parte i suoi membri sono lavoratori salariati, dall’altra sono funzionari e impiegati dello Stato o colletti bianchi, che in quanto tali pretenderebbero di far parte del blocco sociale dominante, pur essendo costantemente in via di proletarizzazione, con la caduta tendenziale del saggio di profitto che costringe il grande capitale a tagliare i faux frais della produzione. Perciò, in tali classi intermedie tendono a mescolarsi contraddittoriamente, talvolta negli stessi individui, aspirazioni democratiche anti-liberali – che li portano ad assumere posizioni democratiche e socialdemocratiche – moderate al contempo dalla necessità di distinguersi dal proletariato, in cui rischiano di essere precipitate, aspirando a far parte della classe dirigente e sviluppando così ideologie conservatrici e nazionaliste. L’interclassismo nazionalista, generalmente collegato alla xenofobia e allo sciovinismo, li contrapposizione immediatamente all’internazionalismo proletariato, da cui si distinguono egualmente per le loro tendenze bonapartiste, in nome di una rigida gerarchia sociale che li dovrebbe salvaguardare dall’essere considerati subalterni.

Il programma di San Sepolcro

Perciò nei princìpi originari del fascismo, enunciati da Mussolini nell’atto di fondazione del movimento a piazza San sepolcro a Milano, il movimento si dota di un programma in modo preponderante rivolto a sinistra, vista la prevalenza in quel momento delle forze progressiste e rivoluzionarie e il discredito che colpiva conservatori, reazionari e classe dominante. I fascisti si dichiarano, perciò, per la repubblica e, dunque, contro la monarchia che aveva sempre dominato dall’Unità nazionale, per il suffragio universale contro le tendenze liberali a limitarlo, per lo scioglimento della polizia politica, la lotta agli speculatori, la fine della coscrizione obbligatoria, l’ampliamento delle libertà, l’aumento delle tasse ai più ricchi, il disarmo universale e la partecipazione dei lavoratori agli utili delle imprese. In quest’ultimo punto del programma emergeva la loro posizione neocorporativa, volta a restaurare la presunta collaborazione precapitalistica fra padroni e operai, sfruttati e sfruttatori. Inoltre, in aperta contraddizione con l’opposizione al servizio militare e l’aspirazione al disarmo universale – parola d’ordine desunta dalla Rivoluzione d’ottobre – i fascisti si dichiaravano nemici giurati dei neutralisti, che in Italia significava nemici dei socialisti, essendo stati gli unici a rivendicare sino alla fine la loro opposizione pacifista di contro alla Prima guerra mondiale. Perciò i fascisti rivendicavano il proprio interventismo, per distinguersi dai proletari e dalle forze della sinistra radicale.

D’altra parte il loro opportunismo congenito farà sì che, da subito, le loro azioni politiche saranno in aperta contraddizione con il loro programma politico. Dal momento che era difficilissimo e molto pericoloso portare avanti le proprie rivendicazioni di “sinistra” contro lo Stato liberale imperialista e le classi dominante, le loro azioni politiche furono da subito di estrema destra, dato che è certamente più semplice attaccare le organizzazioni dei subalterni, in quanto in questo caso si avranno dalla propria parte gli apparati repressivi dello Stato e i finanziamenti dell’altra borghesia. Ecco che, allora, sin dalla prima azione eclatante, durante uno sciopero che aveva lasciato sguarnita la sede del quotidiano socialista l’“Avanti”, i fascisti la assaltarono e la diedero alle fiamme, dimostrando di voler colpire al cuore il movimento dei lavoratori, offrendosi come milizia al servizio della classe dominante.

2. I governi Nitti e Giolitti

La classe dirigente liberale, nel primo dopoguerra, non appare più al passo con i tempi, non potendo disporre, per la propria natura oligarchica, di un partito di massa, strumento divenuto necessario dopo che la Rivoluzione russa ha imposto l’introduzione del suffragio universale nei tanti paesi che dovevano, in qualche modo, tener testa alle sue profonde innovazioni, per non essere travolti dalle forze rivoluzionarie. Nel frattempo aumentano anche in Italia gli scioperi, per la decisiva battaglia volta a ridurre a 8 ore la giornata lavorativa e per difendere al contempo il potere d’acquisto del salario sociale e i posti di lavoro messi in discussione dalla ristrutturazione in senso civile di parte dell’apparato militar-industriale, divenuto abnorme. Tanto più che gli scioperi tendono a radicalizzarsi, sviluppando le iniziali rivendicazioni economiche e sindacali in senso politico, mettendo in discussione, grazie alla forza propulsiva della Rivoluzione d’ottobre, lo Stato borghese. Anche i braccianti agricoli, i senza terra fra il 1919 e il 1920 cominciano a occupare le terre incolte. Dinanzi a questo eccezionale sviluppo della coscienza di classe dei proletari, il ceto dirigente liberale non appare più in grado di garantire gli interessi del blocco sociale dominante nel suo complesso. Anzi, non offrono più le precedenti garanzie di difendere e rafforzare la capacità di egemonia dello Stato borghese.

Il governo Nitti e le prime elezioni a suffragio universale maschile con il sistema democratico proporzionale

Caduto per la completa incapacità di condurre, a vantaggio degli interessi della nazione, le trattative nei decisivi trattati di pace, il governo presieduto da Orlando viene sostituito dal governo del radicale liberale Francesco Saverio Nitti, in quanto Giovanni Giolitti – esponente di spicco del partito Liberale – preferisce lasciargli la difficile gestione dell’esplosiva situazione politica, economica e sociale del primo dopoguerra. Primo radicale, meridionalista e neutralista alla guida di un governo italiano, viene appoggiato dalla classe dominante per far fronte, con una politica di necessarie riforme, al potente sviluppo della lotta di classe dal basso.

Il governo Nitti, con la sua posizione centrista, finisce per rimanere schiacciato fra le opposte tendenze di destra e sinistra che tendevano a polarizzare il conflitto sociale. Da una parte si trova dinanzi al difficile compito di tenere testa all’Impresa di Fiume, capeggiata da D’Annunzio e coperta dallo stato maggiore dell’esercito, che fa sì che Nitti – che non intende ricorrere al sostegno del movimento dei lavoratori egemonizzato dal partito socialista – si dimostri debole politicamente e incapace di risolvere questa spinosa e potenzialmente esplosiva situazione. La sua debolezza e sostanziale acquiescenza nei riguardi della destra sciovinista lo porta a riequilibrare la posizione del suo governo finendo per cedere, nel novembre del 1919, alle forti pressioni socialiste e dei grandi movimenti sociali e popolari che pretendono elezioni finalmente democratiche. In tal modo, anche per frenare le componenti rivoluzionarie dei movimenti, Nitti finisce per consentire le prime elezioni con il sistema proporzionale, l’unico realmente liberal-democratico, in quanto riconosce una rappresentanza proporzionale ai consensi ottenuti delle diverse forze politiche. Inoltre, sempre per cercare di non dare nuovi motivi per rilanciare la prospettiva rivoluzionaria – che mirava alla realizzazione sul modello russo di uno Stato socialista – Nitti ordina, per la prima volta nella storia nazionale, ai prefetti di non interferire nelle elezioni, come tradizionalmente facevano, in modo particolare nel mezzogiorno, per intimidire e impedire alle forze di sinistra di accrescere i propri consensi.

Le prima elezioni con il sistema proporzionale rivoluzionano la tradizione sino ad allora imperante del sistema istituzionale liberale, che era riuscito fino a quel momento a mantenere il potere grazie al voto di scambio e all’appoggio dei notabili locali. Il sistema proporzionale e il mancato intervento diretto degli apparati repressivi dello Stato borghese favoriscono, necessariamente, l’affermazione dei partiti di massa. I socialisti – che hanno l’egemonia sul proletariato moderno, sui braccianti agricoli e su settori in via di proletarizzazione dei ceti medi istruiti – divengono il primo partito collezionando quasi un terzo dei voti, triplicando i loro seggi in parlamento. Gli unici che dimostrano di avere un radicamento di massa, oltre ai socialisti, sono i popolari, ovvero il partito della chiesa cattolica, che si è infine decisa a rinunciare al proprio universalismo determinandosi in un partito e partecipando per la prima volta apertamente alle elezioni dell’odiato Regno d’Italia, pur di arrestare l’altrimenti travolgente affermazione dei socialisti, prendendo oltre un quinto dei voti. I liberali, per la prima volta dall’Unità, si ritrovano privi della maggioranza parlamentare, nonostante che i fascisti, in quella situazione di sviluppo della coscienza di classe, si devono accontentare di un pugno di voti.

15/06/2019 | Copyleft © Tutto il materiale è liberamente riproducibile ed è richiesta soltanto la menzione della fonte.
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L'Autore

Renato Caputo
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