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La parabola dell’economia politica dalla scienza all’ideologia – Parte II: Adam Smith

Prosegue la rassegna sulla storia e sullo stato attuale dell’economia politica. In questo articolo l’analisi del pensiero del “padre dell’economia politica”


La parabola dell’economia politica dalla scienza all’ideologia – Parte II: Adam Smith

Segue da Parte I

La scuola classica di economia politica, i cui principali esponenti furono Adam Smith e David Ricardo, era presa in seria considerazione da Marx, nonostante la criticasse a fondo, operando una profonda rottura nei suoi confronti. Diversamente avvenne per i confusionari economisti apologeti del capitalismo che Marx denominò economisti volgari.

Considerato dai più il padre dell’economia politica, Adam Smith (1723-1790) fu un intellettuale di vasta cultura e uno dei maggiori esponenti della filosofia scozzese del Settecento. Già docente di Filosofia morale all’Università di Glasgow, di cui molti anni dopo diventerà rettore, in un soggiorno parigino ebbe contatti con la fisiocrazia francese. Il suo primo importante scritto, la Teoria dei sentimenti morali [1], fu notevolmente influenzato dalla filosofia di David Hume, uno dei maggiori teorici del liberalismo. Gli uomini, sostenne Smith in questo lavoro, giudicano le proprie azioni con gli occhi degli altri e quindi conta più la loro accettabilità da parte della società che non la loro adeguatezza al benessere individuale. I conflitti fra i diversi interessi e pulsioni vengono allevati dal sentimento della simpatia, pervenendo così a una sorta di loro armonizzazione. Questa filosofia fu anche sullo sfondo della sua maggiore opera, Indagine sulla natura e le cause della ricchezza delle nazioni [2]. 

A differenza di Quesnay, Smith aveva di fronte la rivoluzione industriale e l’innegabile progresso che essa portava con sé, assieme alla divergenza degli interessi dei capitalisti rispetto a quelli dei lavoratori. Tuttavia egli, aderendo alla visione ottimistica degli illuministi, riteneva che al di là del contrasto immediato, si pervenisse a una armonizzazione, se si esamina la società nel suo insieme, e a un vantaggio per tutte le classi. Le trasformazioni produttive e sociali intervenute gli consentirono di padroneggiare meglio le caratteristiche di un sistema economico che si apprestava ad avviare la cosiddetta rivoluzione industriale: al centro della sua teoria introdusse il ruolo dell’industria nell’economia, una visione della società molto più articolata e nuovi concetti che non potevano emergere in società prevalentemente agricole e con rapporti di produzione ancora in larga parte di tipo feudale. Fra questi, è rilevante il riconoscimento che il sovrappiù prodotto non va esclusivamente alla rendita ma, soprattutto, ai profitti. Tuttavia, rileva Marx, Smith fa anche un passo indietro rispetto ai fisiocratici: non riconosce che nella determinazione di questo sovrappiù, o prodotto netto, occorre detrarre i reintegri degli elementi consumati nella produzione.

In ogni caso, è significativo che Smith avesse chiaro che la società borghese si regge sulla classe dei lavoratori produttivi i quali sostengono se stessi e tutte le altre classi. I capitalisti che hanno anticipato le sussistenze dei lavoratori si appropriano del prodotto netto, tenendosene per sé una parte, il profitto, da destinare prevalentemente all’accumulazione del capitale.

La rimanente parte del sovrappiù va a retribuire i proprietari fondiari, sotto forma di rendita, e i lavoratori improduttivi, cioè quei lavoratori dedicati ai lavori servili alle dipendenze dei capitalisti oppure i dipendenti pubblici. A questo proposito Smith ritenne che il progresso economico fosse tanto maggiore quanto minore fosse il lavoro improduttivo. Vedremo che Marx fornirà una definizione di lavoro improduttivo più funzionale all’analisi dell’accumulazione capitalistica.

Anche Smith, ideologicamente, era un liberale e auspicava che l’intervento dello Stato in economia fosse ridotto al minimo, in quanto la “mano invisibile” del mercato avrebbe garantito l’allocazione ottimale delle risorse e la distribuzione ottimale del prodotto. L’azione congiunta di domanda e offerta e la capacità (perfino l’egoismo) degli operatori economici, alla ricerca del loro massimo tornaconto, era in grado di assicurare questo risultato. È questa la filosofia che ancora oggi prevale in ambito accademico, anche se spesso sostenuta da strumentazioni matematiche tanto sofisticate quanto fondate su presupposti poco aderenti alla realtà.

Dalla fisiocrazia ereditò sia l’individuazione delle tre classi principali – lavoratori (produttivi e “sterili”), capitalisti e proprietari fondiari – che l’idea del carattere naturale del capitalismo e della sua attitudine a ottimizzare i risultati dell’attività produttiva e del commercio, ritenendo nocivo l’intervento dello Stato che avrebbe alterato questo carattere. Lo Stato avrebbe dovuto invece limitarsi ad assicurare alcuni servizi utili alla società, quali la difesa, la sicurezza, l’istruzione. Quest’ultima in particolare era considerata necessaria per contrastare l’abbrutimento dei lavoratori, costretti – come vedremo – a specializzarsi in attività monotone e non creative. Anche in tema di commercio internazionale recepì la critica dei fisiocratici ai mercantilisti. Questi ultimi raccomandavano misure protezionistiche delle attività produttive nazionali. Smith a tal fine abbozzò anche una teoria, poi sviluppata da Ricardo, sui vantaggi del commercio internazionale secondo cui è sbagliato destinare lavoro e risorse per produrre cose che all’estero sono prodotte con meno dispendio. Se queste risorse vengono invece impiegate per produzioni da noi meno dispendiose che all’estero, ogni nazione si può specializzare nelle produzioni più vantaggiose e si assicurerà ciò che non produce attraverso lo scambio, con un vantaggio per tutti. 

Sempre dai fisiocratici recepì la nozione di salario medio, denominato “prezzo naturale” del lavoro (si noti ancora il termine “naturale” che ci ossessionerà fino ai nostri giorni!).

Il debito verso i fisiocratici era tale che Marx ebbe ad asserire: “ha semplicemente raccolto l’eredità dei fisiocratici, catalogando e specificando con maggior rigore i singoli articoli dell’inventario, ma riuscendo appena a seguire e interpretare il movimento nel suo complesso con l’esattezza che si trova nel Tableau”[3].

Su un punto invece vi fu una cesura fra i fisiocratici e Smith, cioè sull’idea che la ricchezza provenisse solo dal lavoro nell’agricoltura. L’economista scozzese individuò invece nel lavoro, anche in quello di trasformazione, la fonte del valore e della ricchezza. Tutte le merci di diverse qualità che vengono portate al mercato sono fra di loro scambiabili e commensurabili per il fatto che hanno un valore e questo valore è dato dal lavoro in esse contenuto. Ma mentre fra produttori singoli lo scambio può avvenire in base alla quantità di lavoro da ciascuno prestato per produrre la propria merce, le cose si complicano con la produzione capitalistica in cui più lavoratori operano alle dipendenze di un imprenditore e il prezzo di vendita deve contenere anche la retribuzione del capitale (e della rendita immobiliare se si opera in immobili, siano essi terreni o fabbricati, presi in affitto).

Il tentativo di superare questo scoglio portò Smith a ipotizzare due diverse definizioni di valore fra di loro inconciliabili. Fu Marx e notare una sorta di oscillazione [4] fra queste due impostazioni. Il valore è concepito sia come quantità di lavoro contenuto nelle merci che come “lavoro comandato”, cioè la quantità di merce necessario all’acquisto di una determinata quantità di lavoro (quindi l’equivalente del salario). Il che è la stessa cosa che dire la quantità di lavoro che può essere acquistata con un’equivalente quantità di merce. Rilevò anche la contraddittorietà fra le due impostazioni. Infatti il “valore del lavoro” [5], inteso come salario, varia come il valore di ogni qualsiasi altra merce ma viene preso da Smith come misura del valore. Sarà Ricardo il primo a comprendere il vero nodo che sta alla base di questa formulazione contraddittoria e a tentare una soluzione e successivamente Marx ne propose un’altra introducendo il concetto di forza-lavoro distinto da quello di lavoro e affermando di considerare questa distinzione la sua più importante scoperta. La confusione fra lavoro e forza-lavoro, fra plusvalore e profitto, fra valore di una merce e retribuzione dei soggetti che concorrono a portarla sul mercato conduce infatti a contraddizioni insanabili.

Tuttavia – riconobbe Marx – nel ricercare la natura del plusvalore, dell’eccedenza che alimenta i profitti, il luminare scozzese “si attiene” sempre alla prima impostazione, quella del lavoro contenuto.

Uno dei contributi più importanti della Ricchezza delle nazioni , invece, fu l’analisi della divisione del lavoro, e come questa incidesse nello sviluppo delle forze produttive. Per comprenderne l’importanza si noti che tale opera inizia proprio con questa analisi [6]. Smith rilevò che mettendo insieme più lavoratori, ciascuno specializzato in una fase ben distinta della produzione di una merce, si aumentava la produttività. Fece l’esempio della fabbrica di spilli, della quale contò innumerevoli fasi lavorative. Facendo fare a ogni lavoratore solo un singolo passaggio si ottenevano due effetti positivi. Si poteva utilizzare manodopera meno qualificata, perché è più facile apprendere l’esecuzione di un’unica operazione, ottenendo quindi un risparmio. Inoltre, effettuando un solo passaggio l’operaio non era costretto a spendere tempi morti per passare da una fase all’altra e da un utensile all’altro. In più finiva per diventare abilissimo e veloce in quella semplice mansione. In tal modo si possono raggiungere livelli di produttività assai superiori rispetto a quelli del pur bravissimo artigiano che realizza interamente il prodotto finale e quindi passa da una fase all’altra della lavorazione e cambia a più riprese gli utensili da usare, interrompe il ritmo del lavoro ecc. I vantaggi della divisione del lavoro favoriscono la trasformazione dell’artigiano in operaio salariato.

Con lo sviluppo della divisione del lavoro si sarebbe accresciuta enormemente la produttività e ci sarebbe stato un innegabile progresso umano. Nonostante ciò Smith non mancò di rilevare alcuni suoi aspetti negativi, la diversità fra l’artigiano che produce i propri manufatti dall’inizio alla fine, con amore, e l’operaio, capace di svolgere una sola fase e che subisce una sorta di abbrutimento.

L’altra gamba su cui si regge il progresso economico era per Smith l’accumulazione di capitale e la concorrenza. La ricerca da parte dei singoli del proprio tornaconto e l’impulso ad accumulare ricchezza erano visti come la molla che innestava un beneficio per tutti. Accumulando capitale si assumevano nuovi lavoratori. Inoltre un’azienda più grande permette una maggiore divisione del lavoro e quindi una produzione di beni meno costosa. Questa identificazione del bene della singola impresa col bene comune sarà un buon assist per la (contro)rivoluzione marginalista. Come pure l’esaltazione della concorrenza che consentiva ai capitali di rivolgersi verso le produzioni di cui c’è domanda e, tendendo a saturarla, manteneva che i prezzi di tali merci attorno al loro valore “naturale”. Il mercato, come una “mano invisibile” avrebbe condotto l’imprenditore a promuovere il bene comune, al di là delle sue intenzioni. È nota la frase contenuta nella Ricchezza delle nazioni: “Non è certo dalla benevolenza del macellaio, del birraio o del fornaio che ci aspettiamo il nostro pranzo, ma dal fatto che essi hanno cura dei propri interessi” [7].

La Ricchezza delle nazioni, fu indubbiamente la prima opera di grande spessore dell’economia politica, sia pure all’interno dei limiti di una visione borghese delle cose. Per esempio, il capitale era concepito (e lo sarà fino al giorno d’oggi!) come un elemento materiale, i beni e la ricchezza spesi per impiegare i lavoratori produttivi. Tale impiego consente di produrre un reddito e quindi l’accumulazione capitalistica. Manca qualsiasi altra qualificazione di carattere storico e sociale, perdendo così di vista la specificità dei rapporti sociali di produzione capitalistici.

Se il contributo maggiore di Smith fu senza dubbio l’intuizione che il lavoro fosse la sola fonte della ricchezza, egli, dopo aver osservato che in condizioni di autonomia il lavoratore vive del solo suo lavoro e che la ricchezza che ne ottiene ha un valore proporzionale al lavoro necessario per la sua produzione, notò che lo sviluppo delle capacità produttive avveniva invece con la trasformazione del lavoro autonomo in lavoro salariato, cioè quando i lavoratori non si appropriavano più direttamente del proprio lavoro e anche il capitalista e il rentier dovevano essere ricompensati per il loro ruolo economico. Pertanto, la legge del valore proporzionale al lavoro cessava di funzionare nella maniera pura e i prezzi dovranno contenere anche una quota di profitto dell’imprenditore e di rendita del possidente. Coincidevano quindi con la somma delle retribuzioni di tre fattori: il lavoro (salari), il capitale (profitti) e la terra (rendita) impiegati nella produzione. 

“In ogni società il prezzo di ogni merce si risolve, in definitiva, nell’una o nell’altra di queste parti o in tutte e tre, mentre in ogni società progredita, tutti e tre entrano, poco o tanto, come componenti del prezzo della maggior parte delle merci” [8].

In maniera ancora più equivocabile: “Salario, profitto e rendita sono le tre fonti originarie di ogni reddito, così come di ogni valore di scambio” [9]. Con ciò Smith non esplicitò fino in fondo la distinzione fra la creazione (o “fonte”) del valore, da attribuire esclusivamente al lavoro, e la sua ripartizione fra le varie categorie di reddito, il che ha aperto una breccia su cui si sono inseriti i marginalisti per giustificare il profitto, per essi dovuto alla produttività del capitale. Marx, attingendo ai dogmi religiosi, avrebbe in seguito sarcasticamente denominato “formula trinitaria” questa determinazione del valore come somma dei tre tipi di reddito, cui oppose i meccanismi con cui il il plusvalore, interamente dovuto al pluslavoro, viene fra le varie classi e all’interno di esse. Infatti, limitarsi a constatare che i prezzi si risolvono nelle tre componenti dei redditi significa rimanere alla superficie fenomenica delle cose, al pari di quanto fa tutt’oggi l’economia borghese.

 

Note:

[1] A. Smith, Teoria dei sentimenti morali, ed. Rizzoli, 1995.

[2] A. Smith, La ricchezza delle nazioni, Newton Compton editori, 1995.

[3] K. Marx, Storia delle Teorie Economiche, Vol. I, Giulio Einaudi Editore, Torino, 1954, p. 93.

[4] Ivi pp. 130 e segg.

[5] Sarebbe corretto dire valore della forza-lavoro ma prima di Marx la distinzione fondamentale fra lavoro e forza-lavoro era ignota.

[6] A. Smith, La ricchezza delle nazioni, cit, pp. 66-77.

[7] Ivi, p. 73.

[8] Ivi, p. 97.

[9] Ivi p. 98, grassetto mio.

18/02/2022 | Copyleft © Tutto il materiale è liberamente riproducibile ed è richiesta soltanto la menzione della fonte.

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