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Le cause della conclusione della prima guerra mondiale

La rivoluzione russa quale causa determinante della fine della prima guerra imperialistica mondiale.


Le cause della conclusione della prima guerra mondiale Credits: https://www.iwm.org.uk/collections/search?filters%5BtermString%5D%5BMountain%20Warfare%5D=on&page=6

Segue da: I fronti di guerra (1915-17) / Link al video della lezione corrispondente Unigramsci

I motivi della presa di posizione del pontefice per la fine della guerra

Nel 1917, il papa Benedetto XV prende posizione contro il proseguimento della guerra, per non perdere contatto con le masse popolari sempre più esasperate e non farle passare in blocco dalla parte dei socialisti, i soli che portavano avanti una conseguente opposizione alla guerra. Inoltre il pontefice appare sempre più preoccupato per lo scontro fratricida fra potenze cristiane e imperialiste, che poteva favorire l’affermazione del socialismo, e per la paura di perdere il suo principale alleato, l’Impero austro-ungarico, il solo ancora schierato contro il Regno d’Italia e per la restaurazione dello Stato pontificio.

L’affermazione di regimi tendenzialmente totalitari nei paesi belligeranti

Nel frattempo, un po’ tutti gli Stati coinvolti in questo spaventoso conflitto, dalle dimensioni sempre più mondiali, tendono ad assumere una forma sempre più autoritaria, che tenderà ad affermarsi su scala internazionale negli anni Trenta: lo Stato totalitario. Esso segna una pesante battuta di arresto per tutte quelle libertà conquistate nel corso della modernità, dalle garanzie costituzionali che sanciscono i diritti inalienabili dell’uomo e del cittadino, alle libertà di parola, di stampa, di riunione, al segreto epistolare, senza contare i diritti sindacali e di sciopero, dal momento che nella società e, ancora di più, nei posti di lavoro si afferma una rigida gerarchia e una disciplina militaresca. Tutti i civili, compresi i bambini, devono cooperare allo sforzo bellico a cominciare dagli operai che sono, con tale scusa, irreggimentati e sottoposti, in caso di insubordinazione a una legislazione speciale sempre più assimilabile alla legge marziale. Il potere esecutivo tende a divenire sempre più autoritario, imponendosi sul potere legislativo e sottomettendo alle proprie direttive il potere giudiziario, che perde progressivamente la propria autonomia. In tal modo le retrovie e, in particolare, le fabbriche vengono sempre più militarizzate.

Le rivoluzioni in Russia e le loro conseguenze decisive per la conclusione del conflitto imperialista

La condotta catastrofica della guerra da parte della Russia zarista – a causa della rigida gerarchia sociale che vede nei soldati-contadini una classe pericolosa per l’ordine sociale costituito – ha provocato, nel solo 1914, la perdita di quattro milioni di proletari in divisa fra morti, feriti e prigionieri. Inoltre nelle arretrate campagne, dove scarseggia la mano d’opera, si diffonde la carestia, mentre la corte, cuore dell’autocrazia, è dominata da intriganti avventurieri ultrareazionari come il mistico Rasputin, che esercita una nefasta influenza sulla zarina e attraverso di lei sullo stesso zar Nicola II.

La miseria delle masse popolari e la organizzazione politico-sociale delle sue avanguardie, in particolare nel Partito bolscevico – l’unico a condurre in modo coerente una politica volta alla trasformazione della guerra imperialista fra classi subalterne in una guerra civile e sociale contro i comuni oppressori – innesca i grandi scioperi del 1917, sempre più politicizzati contro la guerra e l’autarchia. Al loro culmine, un enorme sciopero politico nella capitale Pietrogrado, nel febbraio del 1917, diviene spontaneamente insurrezionale e i soldati inviati dall’autocrazia, per reprimere nel sangue l’insurrezione, solidarizzano con i manifestanti, studenti e operai, in cui si riconoscono decisamente più che nei loro ufficiali, che li trattano come carne da macello. Nel frattempo al fronte l’autocrazia cerca, sempre più vanamente, di reprimere con un’inusitata violenza la fraternizzazione fra i proletari in divisa dei diversi schieramenti, ricorrendo ai plotoni d’esecuzione e alla pratica barbara della decimazione. Cresce così, in modo esponenziale, il numero dei disertori che abbandonano il fronte e tendono a tornare a casa con le armi per conquistarsi finalmente la proprietà sulle terre che da secoli coltivano per conto di grandi proprietari terrieri assenteisti, che vivono nel lusso grazie al selvaggio sfruttamento dei lavoratori agricoli.

I Soviet o consigli di operai, soldati e contadini costituiscono una forma di democrazia proletaria diretta in opposizione all’autocratico potere dello Zar e alla Duma eletta a suffragio cetuale e ristretto, per cui le classi sociali più basse per avere un rappresentante hanno bisogno di un numero di voti enormemente superiore a quello necessario a elegge un esponente delle classi dominanti. Sotto la crescente pressione politica dei soviet, sempre più un contropotere che contrasta e limita l’autorità dell’autocrazia, lo zar Nicola II, nel momento in cui si rende conto di aver perso il controllo sulle truppe, abdica e si forma, così, un governo provvisorio. Tale governo è appoggiato dai parlamentari di opposizione della Duma che, per il suffragio volto a favorire la prevalenza di rappresentanti delle classi possidenti, rispetto ai ceti sociali subalterni, è composto in maggioranza da esponenti della borghesia e dei ceti medi liberal-democratici, non si sentono vincolati né alla volontà generale, né alla sovranità popolare che esigono la fine della guerra e la riforma agraria. Né il governo è in grado di tenere a freno un’inflazione sempre più spaventosa, né si mostra capace di razionalizzare la pachidermica, parassitaria e corrottissima burocrazia zarista.

Nell’ottobre del 1917 vi è una nuova rivoluzione che, dopo la conquista del Palazzo d’Inverno, depone il governo provvisorio della Duma – non rappresentativo della volontà popolare che trova ormai espressione nei soviet – e lo sostituisce con un governo rivoluzionario guidato da Lenin, che si impegna immediatamente per la conclusione della guerra e la riforma agraria. Con il trattato di Brest-Litovsk, del marzo 1918, lo Stato rivoluzionario rinuncia – pur di uscire dalla guerra imperialista – alla Polonia, la Lituania, l’Estonia, la Lettonia, la Finlandia e l’Ucraina, precedentemente parte dell’impero zarista.

Nel frattempo lo spirito della rivoluzione, con i suoi decreti rivoluzionari e la sua denuncia della guerra imperialista e della diplomazia segreta che ne è alla base, si sta diffondendo e abbiamo così lo svilupparsi di moti popolari di rivolta, dalla sommossa operaia di Torino nell’agosto del 1917, con assalti ai forni e occupazioni delle fabbriche, agli ammutinamenti delle truppe in Francia, i grandi scioperi in Germania, che divengono insurrezionali a Berlino e Monaco di Baviera, fino all’ammutinamento dell’intera flotta. Si assiste, inoltre, alla rapidissima disgregazione dell’esercito austro-ungarico in nome del principio dei popoli all’autodeterminazione, sancito dalla Rivoluzione d’ottobre e alla diffusione nella stessa Inghilterra di un movimento di massa di obiettori di coscienza alla guerra capitanati dal grande filosofo pacifista Bertrand Russell.

L’entrata in guerra degli Stati Uniti d’America

Nell’aprile del 1917 i mancati profitti dovuti alla guerra sottomarina, condotta in modo sempre più selvaggio dai tedeschi, i prestiti e la fornitura eccessiva di merci a Inghilterra e Francia – di cui, dopo il ritiro della Russia, si teme la sconfitta e, di conseguenza, l’impossibilità da parte loro di onorare i debiti – convincono il presidente degli Usa, il democratico Wilson, a dichiarare guerra alla Germania nonostante la contrarietà del popolo americano. Wilson era stato eletto, dopo un lungo periodo di dominio dei repubblicani, proprio perché si era impegnato a mantenere il paese al di fuori del conflitto che stava per dilaniare l’Europa, ma dopo il rovesciamento della dispotica Russia, l’entrata in guerra a fianco dell’Intesa poteva essere venduta all’opinione pubblica, mediante il controllo dei grandi mezzi di informazione, come una crociata per una pace giusta e duratura e per l’affermazione della democrazia contro i vecchi imperi guerrafondai di Germania, Austria-Ungheria e Turchia.

I quattordici punti di Wilson

Wilson dichiara guerra e sostiene ideologicamente di portarla avanti sulla base di un programma, da lui elaborato in quattordici punti, per una pace giusta e duratura, che costituisce, al contempo, una risposta ideologica alle misure rivoluzionarie e antimilitariste del paese dei soviet che conquistavano simpatie e ammirazione in tutto il mondo, compresi gli Usa. Così, nel suo programma – improntato a quella che Gramsci ha definito rivoluzione passiva – Wilson riprende, edulcorandole, quelle parole d’ordine, su cui si fondava la popolarità dei bolscevichi, che non mettevano in discussione la sopravvivenza e il rilancio del modo di produzione capitalistico – dopo la tragedia bellica che aveva prodotto – come il principio di nazionalità e il conseguente diritto dei popoli all’autodeterminazione. Nel frattempo gli Stati Uniti coinvolgono nella guerra al loro fianco buona parte dei paesi dell’America Latina, su cui esercitano un controllo diretto e/o indiretto di stampo neocoloniale, tanto da considerarli il proprio cortile di casa, dando così un’ampiezza compiutamente mondiale alla guerra imperialista.

Nel frattempo, nella primavera del 1917, prima che gli Imperi centrali potessero dislocare le proprie truppe dal fronte orientale sul fronte occidentale, vi è una grande offensiva anglo-francese concordata con l’esercito italiano sul fronte meridionale, che causa l’ennesimo inutile spaventoso massacro. Ciò provoca su entrambi i fronti l’aumento esponenziale del numero dei disertori e degli ammutinamenti.

La rotta di Caporetto

Il ritiro dalla guerra dei russi, consente agli austro-ungarici di spostare sul fronte meridionale, sino ad allora sottovalutato, una parte significativa di truppe. In tal modo, queste ultime passano all’offensiva e sfondano a Caporetto, nell’ottobre del 1917, le linee difensive italiane. L’esercito italiano, stanco di questo inutile massacro, si disgrega permettendo alle truppe nemiche di penetrare per 150 km nel territorio italiano senza praticamente incontrare resistenza. La tragica rotta dell’esercito italiano si ricompone solo lungo la linea del Piave, dinanzi allo spaventoso scenario che ha prodotto: 400.000 fra morti, feriti e prigionieri italiani e altri 400.000 profughi civili, in fuga dal Veneto. L’odiata guerra imperialista si è ormai trasformata nella guerra per la difesa dell’indipendenza nazionale, da chi, l’Impero asburgico, ha da sempre mirato a rimetterla in questione per riconquistare la perduta egemonia sulla penisola.

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16/06/2018 | Copyleft © Tutto il materiale è liberamente riproducibile ed è richiesta soltanto la menzione della fonte.
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L'Autore

Renato Caputo
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