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Le prospettive dell’inclusione scolastica in un contesto culturale e politico che nega le diversità – parte I

I contesti socio-economici creano barriere, steccati, recinti materiali o mentali all’interno dei quali vengono confinate persone considerate non utili secondo la logica produttivista: disabili in senso stretto, malati cronici, anziani non autosufficienti, persone marginali o vittime di devianza sociale e in generale qualsiasi individuo soffra di disturbi psico-fisiologici o di difficoltà di inserimento nei diversi ambiti di relazione, educativi o lavorativi. Il fatto che le politiche sociali, previdenziali e del lavoro, i sistemi educativi, i servizi sanitari possano produrre e perpetuare condizioni di disabilità non viene mai preso in considerazione, analizzato, messo sotto processo.


Le prospettive dell’inclusione scolastica in un contesto culturale e politico che nega le diversità – parte I

Premesse concettuali e terminologiche

La premessa sulla quale si basa il concetto di “normalità” nella società occidentale è l’abilità a essere “produttivi” nel senso di astratta idoneità a generare un profitto per sé o per altri. Chi non rientra in questa idoneità viene considerato “diverso” e la sua diversità viene definita con varie etichette che identificano un determinato deficit o scompenso o distanza dalla norma. A queste attribuzioni viene associato un grado più o meno accentuato di stigma sociale.

Quando il deficit riguarda una diagnosi medica certificata si usa il termine “disabilità” che rimarca nella sua stessa formulazione lessicale l’assenza di “abilità”, il non essere “capaci” di agire, fare, partecipare, ecc. La disabilità, soprattutto mentale, viene rappresentata soprattutto in relazione a un deficit che la caratterizza, deficit inteso come mancanza, patologia, negatività: prevale l’idea della menomazione che non può essere modificata e la disfunzionalità che ne deriva finisce per diventare l’elemento prevalente del profilo di quella persona.

La compromissione di una o più funzionalità ci porta a escludere che quel soggetto abbia anche delle potenzialità, qualità e possibilità di sviluppo in altri campi, addirittura anche superiori a quelle di altri individui classificati impropriamente come “normali”.

Quello che sfugge del tutto in questa classificazione che chiameremo “abilista” è la considerazione del ruolo disabilitante dei contesti e dei sistemi di relazione sociale che fanno da cornice alla vita, ai bisogni e alle esperienze delle persone definite “disabili”.

I contesti socio-economici creano barriere, steccati, recinti materiali o mentali all’interno dei quali vengono confinate persone considerate non utili secondo la logica produttivista: disabili in senso stretto, ma anche malati cronici, anziani non autosufficienti, persone marginali o vittime di devianza sociale; in generale qualsiasi individuo soffra di disturbi psico-fisiologici o di difficoltà di inserimento nei diversi ambiti di relazione, educativi o lavorativi.

In particolare, la disabilità in senso stretto viene amplificata e aggravata proprio dai contesti socio-culturali e politici nei quali vive la persona considerata disabile. La mancanza di spazi istituzionali dove poter incontrare altri soggetti della comunità, la relegazione in residenze protette, la riduzione degli interventi a mera offerta di sussidi materiali o economici, la formulazione degli spazi e delle strutture di vita e di lavoro in modalità incompatibili con molte delle tipizzazioni nelle quali si declinano i vari handicap, l’offerta alle persone disabili di percorsi “differenziati” che alimentano lo stigma e il pregiudizio sociale, l’assenza sistematica di politiche e sedi istituzionali che promuovano e valorizzino le loro capacità specifiche, l’atteggiamento collettivo che nel migliore dei casi esprime pietistica compassione, sono, insieme ad altre ancora, le componenti di una cultura che più che curare o sostenere la disabilità, la crea e la perpetua.

Ma questo fatto, il fatto che le politiche sociali, previdenziali e del lavoro, i sistemi educativi, i servizi sanitari possano produrre e perpetuare condizioni di disabilità non viene mai preso in considerazione, analizzato, messo sotto processo.

Eppure è soprattutto agendo sui contesti, sui sistemi e sulle politiche che si potrebbero ottenere effetti talmente inclusivi da attenuare la condizione di svantaggio e di dipendenza delle persone cosiddette disabili e anzi promuoverne l’autonomia, l’accettazione e l’inserimento in ruoli sociali, la gratificazione umana e professionale, l’autostima e la soddisfazione esistenziale.

La cosiddetta “inclusione scolastica” e il Piano Educativo Individualizzato

Un esempio di questo complesso fenomeno di svilimento concettuale e di incapacità progettuale è offerto dalla scuola. Nella scuola, gli alunni accompagnati da una diagnosi di disabilità certificata ai sensi della legge 104 vengono provvisti di un “Piano educativo individualizzato” (PEI) e viene loro assegnato/a un/a insegnante di sostegno. Questi provvedimenti dovrebbero rappresentare l’impegno dell’istituzione scolastica nel calibrare attività, metodologie, strumenti e canali della didattica sulle specifiche caratteristiche del singolo studente certificato.

Ma alla fine i contenuti del PEI rimangono strettamente aderenti alle esigenze di una programmazione disciplinare tradizionale. Al più, i tentativi di “individualizzare” la didattica consistono in una “facilitazione” o “riduzione” dei contenuti a degli “obiettivi minimi” che non mettono in discussione i programmi ministeriali e non modificano l’impianto tradizionale del modulo spiegazione / studio domestico / interrogazione / verifica.

Anche se la letteratura e la ricerca pedagogiche hanno messo a punto strumentazioni e metodologie alternative come la “classe capovolta”, l’apprendimento cooperativo”, il tutoring fra pari, l’impiego di mediatori didattici digitali, iconici, interattivi e tante altre risorse ancora, la programmazione del PEI nella realtà scolastica concreta degli ultimi 30 anni (da quando il PEI è stato istituito tramite la legge 104/1992) non è mai giunta alla formulazione di sostanziali alternative alle modalità didattiche tradizionali.

La lezione è soprattutto quella frontale, omogenea per tutti, nella quale si utilizzano canali di trasmissione, strumenti e approcci univoci, non diversificati, con la pretesa che essi possano essere validi per ognuno degli studenti della classe, a dispetto delle loro specificità e dei loro profili funzionali differenti. Come se ciascun alunno avesse la stessa maniera e capacità di apprendere, leggere, scrivere, ricordare, prestare attenzione, calcolare.

In questo contesto si fa ben poco per individuare il percorso più congeniale all’alunno certificato per consentirgli “lo sviluppo delle potenzialità … nell’apprendimento, nella comunicazione, nelle relazioni e nella socializzazione” come dispone la legge 104 (articolo 12 comma 3). Quello che ci si limita a fare è somministrargli una versione semplificata o estremamente ridotta dello stesso programma che viene impartito agli altri. Tutto il lavoro che invece andrebbe a indagare, evocare, promuovere le risorse mentali, cognitive, emozionali e a far sviluppare le potenzialità (che potrebbero essere anche notevoli) dell’alunna/o disabile viene reso difficile dalle modalità concrete in cui viene organizzato il servizio scolastico.

I bambini e ragazzi con diagnosi certificata ricevono assistenza solo per alcune delle ore complessive dell’orario scolastico da un insegnante specializzato che rimane a loro dedicato ma che non trova spazi in una lezione confezionata per un gruppo numeroso.

Nella lezione tipo, gli standard didattici ed educativi sono collocati ai livelli superiori del paradigma normotipico, pretendendo da tutti i discenti un impegno attentivo, di rielaborazione ed espositivo che talvolta è superiore alle possibilità anche dei più dotati.

Manca in molti casi una disponibilità dei docenti a formulare i programmi in maniera più creativa e versatile, arricchendo il proprio insegnamento con spazi di confronto e condivisione fra gli studenti, contributi audiovisivi, impiego più esteso delle tecnologie digitali, modulazione degli esercizi in forme più corrispondenti al repertorio espressivo degli allievi (grafica, applicazioni multimediali, realizzazioni in laboratorio, espressioni musicali, ecc.), sfruttamento degli spazi all’aperto nelle scuole che ne sono provviste, compiti di realtà attraverso i quali i discenti possano verificare aspetti del quotidiano e del proprio vissuto.

In un contesto del tipo appena descritto, l’insegnante di sostegno potrebbe svolgere pienamente il suo ruolo previsto dalla normativa e cioè una azione rivolta all’intero gruppo classe per rendere più inclusivo il contesto e facilitare / mediare lo scambio e l’arricchimento reciproco fra i soggetti etichettati come “deficitari” e i loro compagni.

Invece, nella situazione attuale, l’opera dell’insegnante specializzato si riduce al semplice “aiutino” al ragazzo con difficoltà, standogli seduto accanto e supervisionando le elaborazioni dettate dal collega titolare della cattedra. Insomma, una specie di “lezione privata”, ma con molti limiti, primo dei quali una seria limitazione delle possibilità di scambio verbale per evitare di sovrapporre voci e “disturbare” la spiegazione, e ancora altre contraddizioni come talvolta l’appartarsi in un angolo dell’alunno/a e dell’insegnante specializzato proprio per evitare che il loro bisbiglio interferisca con la comunicazione prevalente dell’insegnante curricolare. E tale ultima situazione è assolutamente contrastante con le pur minime esigenze di inclusione e valorizzazione dei soggetti in condizione di disabilità in quanto evidenzia ancor più la condizione deficitaria e aggrava il disagio emotivo e psicologico che i soggetti più sensibili avvertono, vedendosi trattati in una maniera comunque discriminante.

Ecco perché, mancando un’organizzazione della didattica che amplifichi gli spazi di espressione degli allievi con diagnosi certificata, gran parte del loro bagaglio esperienziale ed espressive e gran parte delle loro potenzialità e competenze, seppure non strettamente legate a obiettivi produttivi o “abilisti”, il più delle volte rimangono ignorate, inesplorate, non sollecitate e alla fine inespresse.

Ed ecco dunque perché l’attuale contesto organizzativo dell’integrazione scolastica è esso stesso un fattore disabilitante. Non solo non riesce ad attenuare i disagi e le difficoltà di accesso a un ruolo sociale valorizzato da parte degli studenti con disabilità, ma anzi tollera e consolida la condizione di anomalia / emarginazione / deficit clinico, nella quale essi rimangono.

Una notazione specifica la merita quello che si chiama Piano Educativo Individualizzato “differenziato” riservato, nella sola scuola secondaria di secondo grado, alle condizioni di disabilità tanto gravi da non permettere l’esercizio di abilità cognitive e che prevede il non conseguimento del diploma di maturità, ma solo di un “attestato formativo”.

Il PEI differenziato, lungi dal presupporre e perseguire una più decisa valorizzazione delle caratteristiche e degli interessi individuali, si limita alla previsione di attività meramente simboliche e ludiche, spesso ridotte al semplice intrattenimento nell’orario scolastico in ambienti esterni alla classe, con grave pregiudizio della dimensione relazionale con i pari e con l’effetto di perpetuare una condizione di segregazione e un alone di stigma. Tutto questo è al di fuori e all’opposto della tanto sbandierata “inclusione scolastica” di cui sono pieni i nostri testi legislativi.

Le attività proposte nel piano “differenziato” sono in genere palliative, non sollecitano le potenzialità mentali e fisiche del/la ragazzo/a, non risultano spesso nemmeno comprensibili rispetto al suo bagaglio espressivo e certamente hanno scarsa possibilità di essere apprese e spese nella vita futura visto che non sono funzionali alle sue necessità di inserimento sociale e, se possibile, professionale.

Anche in questo caso specifico, l’attribuzione del PEI e dell’insegnante specializzata/o rappresenta da parte dell’istituzione un “lavarsi la coscienza” nel presupposto del tutto comodo che questi strumenti bastino ad assicurare il riconoscimento di una conveniente dignità. Ma nella realtà gli studenti e studentesse titolari di un PEI differenziato rimangono sostanzialmente ai margini della vita scolastica dell’istituto che li ospita ed escono dal secondo ciclo di istruzione senza apprezzabili possibilità di collocazione in progetti/spazi commisurati a una qualche loro autonomia / attitudine.

Le loro famiglie vivono nell’ansia per la difficoltà, anche economica, di trovare centri specializzati nell’accoglienza di queste fragilità nel passaggio alla vita adulta a meno di centri diurni già saturi di ogni forma di disabilità grave e caratterizzati da gestioni organizzativamente precarie e professionalmente poco qualificate.

Qualunque sia il contenuto e l’intendimento di un PEI, decisamente questo documento non contempla in alcun modo una eventuale discussione critica del contesto istituzionale e organizzativo di riferimento.

L’organizzazione scolastica rimane imperniata su una didattica di tipo piramidale, con il sapere che discende dalla élite degli insegnanti verso il basso della platea di studenti-uditori passivi. La lezione è prevalentemente basata sulla spiegazione verbale oppure sulla mediazione testuale del libro.

Spesso manca l’impiego delle TIC (Tecnologie dell’Informazione e della Comunicazione) oppure quando questo è contemplato spesso poi non viene applicato e attuato.

Segue nel prossimo numero

22/04/2022 | Copyleft © Tutto il materiale è liberamente riproducibile ed è richiesta soltanto la menzione della fonte.

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L'Autore

Mario Del Gaudio
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