La cassetta degli attrezzi di Marx. Intervista a Roberto Fineschi (parte II)

Mondializzazione, finanziarizzazione, nuova composizione di classe. Che uso fare del lascito marxiano per rilanciare una prospettiva comunista?


La cassetta degli attrezzi di Marx. Intervista a Roberto Fineschi (parte II)

Mondializzazione, finanziarizzazione, nuova composizione di classe. Che uso fare del lascito marxiano per rilanciare una prospettiva comunista?

di Ascanio Bernardeschi

segue da parte I

Nella precedente parte abbiamo spiegato cos'è la  MEGA2 e perché è importante. Vogliamo ora ragionare con Fineschi sull'attualità di Marx e sull'approfondimento teorico necessario per rilanciare una prospettiva comunista.

Marx inizia il Capitale con l'analisi della merce come “cellula elementare” del modo di produzione capitalistico e, pian piano, da questo elevato livello di astrazione, introducendo ulteriori variabili, svolge la sua teoria in maniera sempre meno astratta. In diversi tuoi lavori parli diffusamente di 4 livelli di astrazione. Che poi si riferiscono solo al contenuto dei tre libri del Capitale noti, mentre il piano originario dell'opera, che Marx non ha avuto il tempo di sviluppare, era più vasto (comprendeva per esempio lo Stato e il Mercato mondiale). Immagino che per giungere a illustrare tali aspetti, e quindi per avvicinarsi ulteriormente alla complessità della realtà, fosse necessario scendere a livelli ancora meno astratti, e avvicinarsi così anche a una teoria meglio spendibile nella lotta politica. Condividi questa opinione e in che misura, secondo te, il marxismo è stato all'altezza di questo compito?

La domanda è molto complessa. Si può partire dai problemi storici della ricezione del Capitale. Soprattutto nella prospettiva politica, un punto chiave era la teoria dello sfruttamento. Dimostrando che nella teoria del capitale ci sono problemi strutturali insuperabili si distruggeva anche la teoria dello sfruttamento. 

Nel dibattito tradizionale, a questo proposito, i due punti più caldi sono stati la trasformazione dei valori in prezzi di produzione, soprattutto, e la legge della caduta tendenziale del saggio del profitto. L'idea era che la teoria del valore, per come era formulata nel primo libro, presentasse una contraddizione insanabile con la teoria dei prezzi di produzione del terzo libro. Con ciò tutta la teoria non funzionerebbe e andrebbe buttata a mare, compresa la teoria dello sfruttamento.

Anche il dibattito successivo e il contributo di coloro che offrivano una soluzione sulla base della teoria sraffiana [1], i quali pensavano di dimostrare che esiste lo sfruttamento a prescindere dalla marxiana teoria del valore, centrando il grosso della discussione sul presupposto della presunta contraddizione, ha fatto perdere molti aspetti della teoria del capitale. 

Credo che, per le modalità con cui la disputa fu impostata ab origine, il dibattito successivo sia stato in fondo coerente e corretto. Secondo me la Mega2 permette non tanto di rispondere diversamente, ma di comprendere che la questione era posta male. Il problema di Marx non è quello supposto in questo dibattito. Quindi è mal formulato il punto di partenza. Non sto qui a scendere nei dettagli ma lo snodo consiste nel comprendere che quella di Marx non è una teoria del cosiddetto “valore-lavoro”, espressione mai usata da Marx, ma di merce e denaro; il problema di “sostanza”, “grandezza” e “forma” di valore si pone all'interno di questo orizzonte teorico. 

Nel terzo libro – in realtà un manoscritto in larga parte incompiuto, un work in progress – si affrontano questioni dove Marx stesso mostra la complessità della trattazione dei problemi strutturali della sua teoria nell'articolazione dei vari livelli di astrazione. A mio modo di vedere, nella distinzione di questi livelli, esiste una impostazione e una soluzione alternativa alla trasformazione che non presenta contraddizione tra valori e prezzi, basata fondamentalmente sulla nuova categoria dei “prezzi di mercato”.Fra l'altro questa soluzione permette di considerare questo problema come un capitolo di una teoria più complessa che poi va avanti. 

Nell'ultima sezione del terzo libro, “Credito e capitale fittizio”, Marx si pone il difficile compito di pensare la superficie del movimento nel suo complesso (forme del credito, del capitale fittizio, del capitale azionario, dell'interesse e della dinamica del tasso di interesse) che sono terreno fertile per scendere a livelli di analisi più concreti. 

Nell'edizione di Engels – questo è un altro grande limite del suo lavoro – la parte finale non è una sezione. “Credito e capitale fittizio” viene presentato come un capitolo, mentre in realtà è il titolo di un'intera sezione, nel manoscritto molto complessa, in cui Marx sembra delineare la dinamica del rapporto tra accumulazione reale e accumulazione fittizia e come le due determinino problemi complessi – quali la variazione del tasso di interesse e la crisi – che oggi considereremmo “macroeconomici”. In più, rispetto alle teorie ortodosse, offre una teoria del ciclo produttivo, in cui il movimento fenomenico non viene analizzato semplicemente in base all'analisi empirico-fenomenica di che cosa cambia a uno stato dato se si modifica una delle variabili. 

L'analisi del cambiamento si inquadra in una processualità reale che ha una tendenza determinata dal processo obiettivo di produzione e riproduzione del capitale. Per esprimerla in termini più semplici, se riusciamo, grazie a questa ricostruzione attraverso i manoscritti, ad avere una teoria del capitale articolata in livelli di astrazione, possiamo trovare una chiave per spiegare fenomeni attuali che hanno la loro causa in tendenze di fondo che però alla superficie non appaiono come tali.

Questo è il punto: nella teoria di Marx il valore non appare mai alla superficie, ma scava sotto e si manifesta in moltissime forme diverse che sono in larga parte inaccessibili all'economia ortodossa in quanto quest'ultima rifiuta completamente questa dimensione. Essa, avrebbe detto Marx, si aggira nel fenomeno senza cogliere i nessi essenziali e scambia la descrizione del movimento apparente per la sua essenza.

A mio modo di vedere, attraverso la ripresa della teoria marxiana e lo studio dei suoi diversi livelli di astrazione, si può fare molto. Ma ancora prima di scendere al livello dello Stato e del Mercato mondiale, è la stessa teoria del capitale che necessita di essere ripensata. Non abbandonata o trasformata, perché secondo me la ricostruzione che si può fare attraverso i manoscritti mostra che la sostanza c'è; ma è una teoria è incompiuta e va quindi sviluppata, completata, integrata anche alla luce dei nuovi fenomeni che sono emersi nel secolo successivo alla vita di Marx che egli non aveva potuto osservare. Però questo è un altro segno dell'estrema forza di questa teoria perché essa è stata scritta quando il modo di produzione capitalistico era tutt'altro che ben sviluppato: esisteva solo in alcune parti del mondo, la parte finanziaria non aveva ancora assunto la dimensione gigantesca odierna. Ma ciò nonostante Marx prevede e spiega la sostanza di questi fenomeni.

Sei venuto proprio all'altra domanda che volevo farti, alla quale in parte hai già risposto. Il capitalismo odierno si è trasformato profondamente rispetto a quello osservato da Marx. Siamo di fronte a una fase transnazionale dell'imperialismo, al dominio dei poteri finanziari, alla frammentazione del mondo del lavoro, non concentrato, nella stessa misura di diversi decenni fa, in grosse strutture produttive. Perché serve ancora Marx per capirne la struttura e le dinamiche? In che misura ci può essere di aiuto per poter costruire una prospettiva comunista teoricamente ben fondata?

Anche a questo proposito, se si distinguono i diversi livelli di astrazione possiamo avere, non certo le risposte concrete a queste domande, ma una buona partenza per poterci lavorare. 

Un'interpretazione non adeguata nella tradizione marxista, che si ripercuote anche nei vari “post” che abbiamo adesso, è l'idea che l'unico soggetto antagonista sia l'operaio della fabbrica. Questo è giusto in parte, ma non esaurisce la potenzialità della teoria delle classi di Marx. In particolare mi riferisco alla lettura dei capitoli su cooperazione, manifattura e grande industria che erano evidentemente una descrizione dei rapporti in essere all'epoca, una sorta di fenomenologia del processo lavorativo dell'Inghilterra del XIX secolo. 

Sembravano descrizioni molto promettenti perché pareva che le tendenze di fondo si muovessero in quella direzione. Il limite è confondere queste “figure” storiche dell'organizzazione del lavoro con le “forme” che il processo lavorativo assume, non nel capitalismo, ma nel modo di produzione capitalistico. Perché se dico capitalismo, intendo una forma storico concreta specifica di questo, e se dico manifattura e grande industria, ci metto un'etichetta ancora più specifica. Il punto che sollevo è che Marx non sta solo parlando di queste figure storiche ma in realtà sta sviluppando una teoria delle forme del processo lavorativo all'interno del modo di produzione capitalistico, delle modalità attraverso le quali si realizza il processo lavorativo. 

Tali modalità non sono necessariamente la manifattura o la grande industria, ma sono determinazioni che sono esemplificate da queste forme, ma non solo da queste. Mi riferisco in particolare alla dimensione cooperativa del lavoro, alla dimensione parziale del soggetto che lavora e realizza solo una parte dell'opera, alla dimensione subordinata del lavoratore e addirittura alla sua estromissione, all'automatizzazione completa, fino al ruolo di semplice supervisore del lavoratore. 

Se guardiamo a cooperazione, manifattura e grande industria come a “figure” storiche in cui quelle “forme” specifiche del produrre in modo capitalistico sono apparse, abbiamo che la perdita di importanza di alcune figure non fa scomparire le forme come tali. 

Nell'organizzazione contemporanea del processo lavorativo non abbiamo solo queste figure – che tuttavia, a dispetto delle varie “scomparse” esistono ancora – ma abbiamo altre organizzazioni del lavoro per cui quelle forme, la dimensione della parzializzazione, della subordinazione e del carattere cooperativo, che avviene magari attraverso il computer fra individui che lavorano in tutte le parti del mondo, sono la struttura del modo si produrre. Inoltre esse sono salariate  allo stesso modo di prima, cioè subordinate a un processo di valorizzazione del capitale. 

Il risultato complessivo della loro attività non è da loro posta. Essi sono sussunti  da questa. La realizzano per il capitale, ricevono un salario che può essere in varie forme, quale per esempio il corrispettivo della partita Iva. 

Identificare il lavoro salariato guardando solamente alla forma contrattuale, giuridica che assume, non è il punto. Posso avere la partita Iva e lavorare come finto salariato. In questo senso i potenziali soggetti antagonisti vanno moltiplicandosi perché tutti gli individui che si trovano a lavorare in varie forme in processi eterodiretti dal capitale per il quale lavorano in forma diretta o indiretta di salario, si trovano completamente sussunti a queste modalità. Il loro modo di lavorare è sostanzialmente cooperativo, parziale, subordinato, di supervisione etc. 

Questo permette di superare vari “post” come il post-operaismo, perché se limito il soggetto antagonista all'operaio della fabbrica, è una cosa, se invece ho la fabbrica come una figura storica legittima, mantengo tutte e due le parti: una spiegazione e una legittimazione del periodo in cui l'operaio era effettivamente il soggetto storico privilegiato; ma allo stesso tempo ho una teoria che funziona anche in assenza di questa figura. 

Uno degli obiettivi della lotta politica è trovare il modo di unire queste forze che adesso non sono più fisicamente nello stesso posto, non si vedono, non si parlano, sono sparse in tutto il mondo, magari parlano lingue diverse, apparentemente appartengono a gruppi sociali diversi. Metterli in dialogo è molto più complesso ma è uno degli obiettivi. Occorre sviluppare forme di lotta internazionali in quanto la sfida del capitale è a livello internazionale.

Parlavi anche della globalizzazione. Anche questo è un punto interessante. Perché Marx è il primo teorico della globalizzazione, la prevede come esito di lungo termine del modo di produzione capitalistico già nella seconda metà dell' '800, quando appena si adombrava. La situazione attuale non è contro il Capitale di Marx ma ne è chiaramente la verifica, l'evidenza che egli aveva ragione. Ma vale anche per la finanziarizzazione. Non a caso l'ultima parte del Capitale si intitola “Credito e capitale fittizio”, perché Marx, grazie alla sua teoria, aveva ben presente dove si andava a parare.

Per concludere, mi sento di poter dire che la teoria di Marx, se adeguatamente intesa, continua ad essere l'analisi più corretta ed efficacie delle dinamiche di fondo, epocali, del modo di produzione capitalistico. Questa teoria è, però, da un lato incompleta, dall'altro molto astratta, ovvero identifica le tendenze e le dinamiche di lungo periodo. Riuscire a riprendere il filo interrotto alla luce degli sviluppi teorici e storici a lui successivi e scendere ad un livello di astrazione in cui tale teoria diventi “applicabile”: queste sono le sfide teoriche e politiche che ci stanno di fronte.

 

Note

[1] Il testo a cui si rifanno tutti questi numerosi contributi è P. Sraffa, Produzione di merci a mezzo di merci. Premessa a una critica della teoria economica, Giulio Einaudi Editore, Torino, 1960 [nota dell'intervistatore].

 

 

15/01/2016 | Copyleft © Tutto il materiale è liberamente riproducibile ed è richiesta soltanto la menzione della fonte.

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“Sono partigiano, vivo, sento nelle coscienze della mia parte già pulsare l’attività della città futura che la mia parte sta costruendo. E in essa la catena sociale non pesa su pochi, in essa ogni cosa che succede non è dovuta al caso, alla fatalità, ma è intelligente opera dei cittadini. Non c’è in essa nessuno che stia alla finestra a guardare mentre i pochi si sacrificano, si svenano. Vivo, sono partigiano. Perciò odio chi non parteggia, odio gli indifferenti.”

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