Compiti dello Stato nella fase transnazionale

La creazione delle grandi istituzioni sovranazionali del capitale si può far partire dalla fondazione del Fmi e della Bm.


Compiti dello Stato nella fase transnazionale Credits: Natalja Goncharova, "Il ciclista" - 1913 San Pietroburgo, Museo di Stato Russo

Viaggio nella crisi. Parte VII. La creazione delle grandi istituzioni sovranazionali del capitale si può far partire dalla fondazione nel 1944 del Fmi e della Bm espressione di quel processo di perdita progressiva di una parte della sovranità degli stati.

di Maurizio Brignoli

Finita la seconda guerra mondiale, quindi nella fase multinazionale, lo stato (del capitale) non svolge più un intervento diretto, attraverso la partecipazione alla proprietà e alla produzione industriale, per realizzare la socializzazione delle perdite come nella precedente fase di crisi, ma non per questo riduce la sua attività economica che ora è indirizzata a un aumento della spesa collegato al processo di accumulazione del capitale e funzionale al processo di produzione e circolazione del plusvalore. Attraverso il finanziamento della ricerca scientifica e tramite l’istruzione pubblica, che fornisce forza-lavoro sempre più qualificata, lo stato favorisce le premesse per la realizzazione di forme sempre più intensive di lavoro. Lo stato sviluppa poi il welfare che non trasforma certo lo stato in un organismo neutrale nella lotta di classe, ma ha lo scopo di creare un moderno neocorporativismo.

Nella fase transnazionale il rapporto di esclusività fra capitale nazionale e stato è superato. Compito dello Stato diventa quello di svolgere un’opera di mediazione fra i diversi capitali in lotta, appoggiare il capitale finanziario dominante che opera sul suo territorio e porre in atto le direttive che vengono da Fmi e Bm. Terminata la fase espansiva e iniziata l’ultima crisi muta anche il ruolo dello stato borghese che non deve più utilizzare gli strumenti “keynesiani” e il mantenimento del welfare per moderare il conflitto di classe (pratica del resto non più perseguibile data la fine della fase espansiva). È necessario un nuovo stato che adegui le proprie politiche fiscali, monetarie e creditizie alle esigenze del capitale transnazionale e che privatizzi, per ovviare in parte alla crisi dell’accumulazione capitalistica, le proprie aziende, pensioni, sanità, istruzione, energia, trasporti destinando così la quota maggiore della spesa pubblica al capitale. Si deve perciò approfondire quel processo di alienazione della sovranità visto che il capitale non deve avere più limiti alla sua circolazione, compresi quelli che potrebbero essere posti dai parlamenti nazionali.

È ormai difficile parlare di “economia nazionale”: se nelle fasi precedenti dello sviluppo capitalistico lo “stato-nazione”, con relativo mercato nazionale, era espressione adeguata delle esigenze dello sviluppo capitalistico, con la comparsa di imprese transnazionali che hanno come base non un mercato nazionale bensì il mondo intero, quello che era lo stato nazionale si trova di fronte a un’economia internazionale che non può controllare. Attenzione però, tutto ciò non avalla la teorizzazione della cosiddetta “morte dello stato”. Lo stato al capitale serve ancora, non fosse altro che per svolgere un compito di dominio di classe e di elaborazione del consenso ed esaudire le direttive degli organismi sovranazionali del capitale volti a perfezionare il processo di estorsione di plusvalore. Lo stato è tuttora, come prima, anche un campo di combattimento e di mediazione tra gruppi contrapposti all’interno della classe dominante. Certo rispetto allo stato-nazione ha perduto, nella maggior parte dei casi, il controllo dell’economia e il potere militare ormai gestiti da organismi sovranazionali.

L’evoluzione dell’imperialismo e il suo approdo alla fase transnazionale comporta un “superamento” (nel senso della dialettica di Hegel e Marx, cioè non una scomparsa, ma una trasformazione, un’elevazione a un grado superiore di una determinata realtà e a un nuovo livello di contraddizione ) della funzione dello stato-nazione che deve essere subordinato sempre più alle istituzioni sovranazionali del capitale più consone alla nuova fase di sviluppo imperialistico. A parte la Cee (1957) poi evoluta in Ue (1992) e l’Asean (1967) gli altri organismi, più o meno approdati a una completa realizzazione e in alcuni casi espressione degli interessi dei capitali nazionali, appartengono tutti alla piena maturità della fase transnazionale. Ricordiamo brevemente più importanti: Apec (1989); Mercosur (1991); Nafta (1992); Sadc (1992); Alca (1994); Nepad (2001); Sco (2001); Alba (2004) e i più recentissimi, ancora in via di definizione, Ttip e Tppa.

Queste istituzioni in linea di massima puntano a favorire la flessibilizzazione della forza-lavoro; a dar vita ad aree valutarie; a rafforzare la gerarchia interstatuale a favore dei poli guida dell’imperialismo (con conseguente perdita di sovranità degli stati membri); e, infine, sono luoghi di contrasto e di risoluzione della lotta fra capitali nazionali e transnazionali e campi di battaglia di contese interimperialistiche.

Gli Usa mantengono, per ora, una specie di monopolio nella produzione della merce guerra. Anche se vivono su un indebitamento (interno ed estero) enorme devono continuare a sovvenzionare la spesa militare per sottrarre il plusvalore ai concorrenti nel tentativo di attirare capitali e conquistare nuove zone di influenza nello scontro interimperialistico.

Lo scontro interimperialistico nella modalità transnazionale

Con la fine dell’egemonia statunitense si sono poste le premesse per una piena ripresa dello scontro interimperialistico, inizialmente fra Usa, Cee e Giappone, poi evolutosi in una competizione che vede fronteggiarsi almeno quattro attori fondamentali: Usa, Ue, Cina, Russia. Da un lato vi è la consapevolezza dello scontro in atto e dall’altro vi è la necessità di delineare un “nuovo ordine”, in cui permane (e si acuisce) lo scontro fra imperialismi e capitali, capace di garantire una via d’uscita comune dalla crisi con la creazione di un nuovo ordine imperialistico mondiale.

1) Prima di tutto vi è lo scontro per l’espansione delle rispettive aree valutarie. Prima della comparsa dell’euro il dollaro era l’unica moneta di riferimento internazionale e gli Usa avevano il vantaggio di pagare le importazioni con la moneta da loro stessi stampata. In questa situazione le materie prime strategiche svolgono una funzione anche valutaria e gli Usa devono ricorrere alla guerra e al disordine in casa degli avversari per impedire che il dollaro venga abbandonato come valuta di riferimento.

2) Vi è poi lo scontro per il controllo dei "corridoi", importanti non solo come via di transito delle merci, ma decisivi anche per la dislocazione dei capitali. Le guerre combattute dagli Usa servono proprio a controllare i punti di snodo delle filiere transnazionali del valore e a lasciare il polo imperialistico europeo e quello cinese in una condizione di dipendenza energetica. La Russia invece vuole che oleodotti e gasdotti transitino sul suo territorio e per questo ha represso la ribellione cecena con ogni mezzo e nel 2008 ha ingaggiato un rapido conflitto con la Georgia, mentre è stata danneggiata dal golpe ucraino. Caspio e Persico sono vie strategiche per petrolio e gas, mentre il Pacifico è un altro corridoio fondamentale poiché da qui transita la maggior parte del petrolio importato dalla Cina.

3) Altro ruolo rilevante è ricoperto dalla penetrazione degli ide alla ricerca di un tasso di profitto più elevato e di una maggiore valorizzazione. La vera novità degli ultimi anni è consistita nel ruolo sempre maggiore assunto dagli investimenti cinesi in particolare in America meridionale e in Africa. La Cina sta contrapponendo al cosiddetto Washington consensus (direttive, delineate da Fmi e Bm, per i paesi in crisi che prevedono pareggio del bilancio, liberalizzazioni, privatizzazioni, riforme fiscali a favore del capitale) una sorta di Beijing consensus basato sulla non ingerenza nelle politiche degli stati con cui si fanno affari, una politica di sviluppo in cui lo stato nazionale svolga ancora un ruolo importante, la cancellazione dei debiti coi paesi più poveri, investimenti e prestiti a tassi bassi; strategia che la Cina si può concedere avendo le più ampie riserve valutarie nel mondo. Addirittura diversi paesi africani o anche paesi come Brasile e Indonesia non si sono rivolti al Fmi per avere accesso al credito, ma preferiscono aprire le porte agli investimenti cinesi.

4) Vi è infine la questione della guerre, per ora per lo più condotte per interposta persona, generate da questo scontro. La Nato, dopo la caduta dell’Urss, ha avviato una strategia sempre più offensiva rispondente alle esigenze delle imprese transnazionali del complesso militare-industriale statunitense ed è diventata non solo strumento di espansione e destabilizzazione del capitale transnazionale, ma anche luogo di scontro fra Ue e Usa a partire quantomeno dalla crisi jugoslava portando la guerra in casa dell’Ue e delle sue immediate direttrici di espansione. Nel processo di allargamento verso est dell’Ue ogni volta i nuovi membri vengono immediatamente integrati anche nella Nato. Si veda come gli Usa hanno gestito bene la crisi ucraina. C’è quindi un tentativo di contrastare il controllo politico e monetario su questi paesi cercando di annetterli ai progetti statunitensi.

11/12/2015 | Copyleft © Tutto il materiale è liberamente riproducibile ed è richiesta soltanto la menzione della fonte.
Credits: Natalja Goncharova, "Il ciclista" - 1913 San Pietroburgo, Museo di Stato Russo

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La città futura

“Sono partigiano, vivo, sento nelle coscienze della mia parte già pulsare l’attività della città futura che la mia parte sta costruendo. E in essa la catena sociale non pesa su pochi, in essa ogni cosa che succede non è dovuta al caso, alla fatalità, ma è intelligente opera dei cittadini. Non c’è in essa nessuno che stia alla finestra a guardare mentre i pochi si sacrificano, si svenano. Vivo, sono partigiano. Perciò odio chi non parteggia, odio gli indifferenti.”

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