La violenza catartica

Un'altra giornata internazionale per l'eliminazione della violenza sulle donne è passata ma le donne continuano a morire, e la violenza è ben lontana dall'essere eliminata.


La violenza catartica

Sabato 18 Novembre 2023. Un'altra donna uccisa da un uomo perché lui era geloso e non sapeva rassegnarsi alla rottura della loro relazione. Stando ai dati diffusi dal Dipartimento della Pubblica sicurezza - Direzione centrale della Polizia criminale - Servizio analisi criminale del Ministero dell’Interno, attraverso l’ultimo report aggiornato, gli omicidi volontari consumati con vittime donne relativamente al periodo 1 gennaio – 12 novembre 2023 sono stati 102, di cui 82 donne uccise in ambito familiare/affettivo; di queste, 53 hanno trovato la morte per mano del partner/ex partner (fonte consultabile a questo link). Una macabra casistica che se confrontata con l’anno passato non solo mostra un aumento dei casi rispetto allo scorso anno ma risulta, solamente una settimana dopo la sua uscita, già da aggiornare perché, appunto, Giulia Cecchettin è stata uccisa sabato scorso.

Quello che colpisce sempre in casi simili, è l’efferatezza e la violenza con cui queste uccisioni di donne vengono effettuate: infinite coltellate, corpi bruciati vivi, sezionati, gettati in luoghi isolati o sepolti, appostamenti con esecuzioni a sangue freddo con armi da fuoco ma anche - soprattutto - scontri mortali corpo a corpo con disperati tentativi di difesa da parte della vittima, strangolamenti, soffocamenti, uccisioni a pugni e calci, con martelli, picconi, spranghe, qualsiasi cosa sia funzionale a infierire il più possibile sulla vittima o sul suo corpo già esanime, laddove sarebbe “bastato” un solo colpo anziché dieci o venti.

Tutto ciò non rappresenta ovviamente un dato da rilevare per morbosità giornalistica ma un punto di partenza per riflettere in maniera efficace sulla piaga della violenza sulle donne, sulla sua genesi e sul perché essa si manifesti, appunto, sempre più spesso attraverso modalità sempre più feroci e disumane.

Sono anni, ormai, che le parole pronunciate in ambito istituzionale – scuole comprese – cercano di veicolare concetti culturalmente improntati al rispetto o alla “educazione sentimentale”, come anche in quest’ultimo caso di cronaca si sente spesso ripetere: i risultati di tale sensibilizzazione appaiono deludenti, quasi inesistenti. Perché?

Non c'è dubbio che l'età anagrafica, sempre più bassa, delle vittime e dei loro carnefici imponga con urgenza a livello socio-culturale una notevole intensificazione di questa fondamentale attività educativa e pedagogica che passi attraverso i metodi dell'ascolto e della condivisione, ma anche da un controllo serrato rispetto alla facilità con cui si veicolano contenuti in forme espressive molto vicine ai giovani quali ad esempio quella della musica. Mi pare di notare che, nella sostanziale noncuranza generale, si siano paurosamente moltiplicati nei testi di alcuni noti giovani artisti i rimandi alla violenza come “maestra di vita” e come strumento per ottenere rispetto, riscatto, e non di rado con accenni di esplicita violenza verbale e fisica nei confronti delle donne. Questa retorica di riscatto e rispetto imposto nel branco coi metodi della violenza e dell’intimidazione rivela un profondissimo disagio, una frustrazione senza pari diffusa in soggetti che si sono appena affacciati alla vita adulta ma, senz’altro, derivante dai contesti familiari e sociali che li circondano. 

Ecco perché - per quanto la questione debba necessariamente (e, ripeto di nuovo, urgentemente, insistentemente) essere affrontata anche da questa angolazione socio- culturale e con questa attenzione pedagogica ed educativa nei confronti dei ragazzi e delle ragazze in crescita -  tutto ciò non è sufficiente ad affrontare il problema alla radice, a denunciare e sradicare il retroterra che genera e alimenta tutti i generi di frustrazioni che subiamo e che deflagrano in forme di abusi e violenze sempre più efferate. Pensiamoci un momento.

La violenza ci circonda in ogni aspetto della società in cui viviamo. La giustificazione della guerra è entrata di prepotenza a far parte della quotidianità, in particolar modo dall’inizio della cosiddetta invasione russa in Ucraina in poi, visto che bisogna sostenere con ingenti spese economiche pubbliche l’invio delle armi, e a maggior ragione dalla azione di Hamas del 7 ottobre scorso, visto che bisogna giustificare il “diritto di Israele a reagire” colpendo scuole e ospedali con la conseguente uccisione di un numero inenarrrabile di civili e bambini, nonostante 70 anni di inaudita violenza (ancora violenza) perpetrati ai danni del massacrato popolo palestinese. La violenza, addirittura nella sua forma peggiore dello sterminio di massa, non è solo giustificata ma è più che normalizzata, e l'effetto di tutto ciò è un'anestesia globale ed agghiacciante verso quanto sta succedendo, con un livello di rapporto empatico verso gli altri pari a zero. 

Nella dimensione locale, invece, le persone sono costrette a vivere in condizioni sempre più estreme, tra chi un lavoro non ce l’ha e chi è povero pur avendolo. Chi arriva a fine mese lo fa comunque galleggiando, con la tendenza sempre più marcata a vivere nella paura che la propria condizione di “privilegiati” vada difesa con le unghie e con i denti dal costante pericolo di proletarizzazione, ingaggiando una lotta contro le fasce più vulnerabili della popolazione (poveri, migranti, emarginati di ogni genere) più che contro i meccanismi economici e sociali che da anni attaccano e logorano salari e diritti e che vengono riproposti senza alcuna sostanziale contrapposizione sociale da tutti i governi e garantiti dai vari organismi di controllo sovranazionale. C’è un motivo per cui queste politiche sono appunto dette di “macelleria sociale”: quando il mondo del lavoro e le conquiste sociali subiscono batoste tali da provocare arretramenti di decenni e la percezione è quella di dover navigare a vista, di introiettare la precarizzazione come orizzonte in ogni aspetto della vita, come possiamo stupirci dei livelli di disorientamento, frustrazione, repressione così serpeggianti tra le masse di persone sin dall’adolescenza? Questo è il grande capolavoro delle odierne società a capitalismo avanzato, quelle che si autodefiniscono le più “evolute”. Società basate sullo sfruttamento, sulla depredazione, sull’oppressione, società malate e che fanno ammalare, società abituate all’esaltazione egocentrica di un “io” che non ha obiettivi, riferimenti, nulla da dire o per cui lottare all’infuori del proprio ombelico, oltre alla soddisfazione immediata del bisogno e del consumo ossessivo-compulsivo. Società in cui ogni cosa è merce: è merce addirittura il corpo, è merce la donna, è merce il sesso, è merce anche la violenza contro le donne - prostituzione e pornografia si fondano su questo assioma -, è merce la morte, spettacolarizzata attraverso le attenzioni maniacali dei media e dei dettagli truculenti di cui sono piene le notizie di cronaca. Società in cui non c’è nessuno spazio per la formazione dell’individuo all’interno della comunità - con l’eccezione forse della scuola, ma non sempre come dovrebbe: da adulti soprattutto la comunità, il quartiere, il circolo, qualsiasi spazio di aggregazione all’infuori della logica del mero divertimento o dell’asfissia familiare, non ha più alcun ruolo di accrescimento delle persone, di loro arricchimento, di identificazione sana, di sviluppo positivo di un progetto comune. Fuori da ogni singolo e dai suoi demoni, molto spesso c’è solo la paura di quello che c’è fuori e degli altri, l’isolamento, nessuna via di fuga. Ripeto, questo è il grande capolavoro delle odierne società a capitalismo avanzato: l’essere rimaste, così come in passato, società fondate sulla violenza, ma averlo fatto nel modo più subdolo possibile, tanto da renderlo invisibile ai più che restano convinti di vivere nel migliore dei mondi possibili.

Di fronte a tutto questo, la coscienza di classe rappresenta un discrimine fondamentale. In presenza di essa, di un luogo in cui operare un’analisi efficace della realtà che ci circonda, capirne la natura intrinsecamente violenta e gli obiettivi, è oggettivamente più facile non perdere il lume della ragione e tentare una controffensiva attraverso l’azione politica che, riprendendo la famosa citazione di Rosa Luxemburg “socialismo o barbarie”, è chiaro che per essere efficace non possa che porsi l’obiettivo ultimo del superamento del capitalismo. Ma dacché, come detto sopra, i luoghi di aggregazione e in special modo quelli connessi all'attività politica hanno perduto nel corso del tempo la loro capacità attrattiva - sia per demeriti propri sia, forse soprattutto, grazie al lavorio subdolo dell’ideologia dominante che ci vuole rassegnati e proni allo stato di cose presenti - è evidente come la stragrande maggioranza delle persone viva la propria frustrazione oscillando tra la bieca arrendevolezza e sottomissione e la necessità di oggettivare in qualche modo fuori da sé la violenza con cui si è costantemente alimentati, una catarsi irrazionale e necessaria alla sopravvivenza in un sistema così costituito. Ecco che quindi proliferano nei comportamenti comuni liti, incomunicabilità, la logica della prevaricazione e della sfida, intolleranza (soprattutto con i più deboli), discriminazioni, delegazione del potere nelle mani di partiti o uomini dichiaratamente violenti e abietti - per fare solo qualche esempio recente si pensi ai nazisti ucraini, al partito sionista di estrema destra Otzma Yehudit che ha una certa rappresentanaza nel parlamento israeliano, al fascismo dichiarato dell’ex presidente brasiliano Bolsonaro, alla recentissima elezione in Argentina di Milei, un instabile fascista che, tral’altro, tutto il movimento femminista argentino accusa di essere machista e sessista. 

In crescendo c’è poi chi arriva a “violenze catartiche” ben peggiori, quali appunto quelle di chi pretende di farsi padrone della capacità di togliere la vita ad un’altra persona. Come è noto anche Marx rifletteva su come l’abbrutimento delle società capitalistiche producesse nell’uomo, sfruttato dal padrone, la tendenza a reimpossessarsi del ruolo del padrone nelle mura domestiche, brutalizzando la donna. In questa retorica - ancora lungi dall’essere superata al giorno d’oggi - che è retaggio del ben più antico sistema maschilista e patriarcale, si innestano le dinamiche del “suprematismo” maschile nei confronti delle donne.

Esiste, dunque, un problema enorme a questo riguardo che, se vogliamo, possiamo continuare ad osservare solo con la lente di ingrandimento: attenzione, però, non ne vedremo che gli effetti, e continueremo a piangere infinite Giulia.

Se invece vorremo avere il coraggio di affiancare alla fondamentale battaglia culturale, educativa, di cui abbiamo una disperata necessità anche una battaglia politica di ampio respiro, la più ambiziosa che si possa ingaggiare, potremo legittimamente sperare di iniziare a costruire un mondo sano, un mondo fraterno, in cui la violenza sistematica e strutturale perpetrata dall’Uomo sull’Uomo e sulla Donna possa essere finalmente un lontano ricordo.

24/11/2023 | Copyleft © Tutto il materiale è liberamente riproducibile ed è richiesta soltanto la menzione della fonte.

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L'Autore

Leila Cienfuegos

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La città futura

“Sono partigiano, vivo, sento nelle coscienze della mia parte già pulsare l’attività della città futura che la mia parte sta costruendo. E in essa la catena sociale non pesa su pochi, in essa ogni cosa che succede non è dovuta al caso, alla fatalità, ma è intelligente opera dei cittadini. Non c’è in essa nessuno che stia alla finestra a guardare mentre i pochi si sacrificano, si svenano. Vivo, sono partigiano. Perciò odio chi non parteggia, odio gli indifferenti.”

Antonio Gramsci

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