Recensione a L’Occidente e il nemico permanente di E.Basile

Recensione del libro dell’ex ambasciatrice Basile; il testo propone una approfondita ricostruzione dei fatti salienti del secolo scorso, e propone un’illustrazione delle dinamiche attuali in termini critici e divergenti dalle narrazioni giornalistiche.


Recensione a L’Occidente e il nemico permanente di E.Basile

Di rapida e appassionante lettura, il libro dell’ex ambasciatrice Elena Basile riassume in sé tutti i pregi che è legittimo attendersi da un istant book che voglia agilmente informare su questioni di assoluto e imperativo rilievo storico generale senza semplificare in modo arbitrario e senza sovraccaricare in ragione dell’imponente mole documentaria connessa agli eventi. Se poi l’operazione contiene quel tanto di “rigore, passione e indignazione” [1] , che ne fa vibrare la narrazione, districandosi con perizia tra le opposte “ragioni” coinvolte, senza smarrire indifferentemente il “segno” complessivo degli eventi stessi, possiamo dire di trovarci di fronte a un piccolo gioiello, un prezioso vademecum, che aiuta a orientarsi nell’oggettivo groviglio delle vicende attraversate e in un’attualità dalle tinte assai fosche e gravida di minacce. Tanto più che i nodi più scottanti dell’attuale turbolenza planetaria, segnatamente la guerra russo-ucraina e l’autentica tragedia israelo-palestinese, vengono dall’Autrice inseriti in un’analisi della fase storica puntuale e drammatica, che evidenzia le contraddizioni brucianti di un equilibrio sistemico pervenuto alla proprio crisi agonica, proprio per questo scompostamente reattivo e suscettibile di travolgere nella propria deriva catastrofica la totalità della specie. 

Non difetta insomma nella “leggerezza” e nel brio del racconto la densità del quadro teorico esplicativo (posto e “formalizzato” in conclusione) che consente di uscire dalle genericità e dalla pochezza di certi obliqui resoconti giornalistici, o da vaghi irenismi, per situare solidamente e connettere circostanze e attori del cataclisma in corso. E benché non manchino, in tal senso, e vengano giustamente messe a fuoco, tra gli episodi esaminati congiunzioni strutturali e di lungo periodo, l’Autrice mostra di padroneggiarne con sicurezza e professionalità le specificità storiche e geo-politiche, conservandone e consentendo di distinguerne i tratti di rispettiva irriducibilità. È proprio questo, certamente, che ne ha alla fine determinato l’inscrizione nell’area sinistra di quel fantasmatico “putinismo” a largo spettro che, dapprima televisivamente esibito in chiave di spettacolare e spendibile contraddittorio “democratico”, ha finito col venire oscurato in nome di un più sano conformismo “europeista” e ultra-occidentale, secondo lo schema da clash of civilizations invalso dall’avventura irachena in avanti. Non senza il “giusto” corredo del prevedibile linciaggio morale mediatico che colpisce lei, in compagnia di qualche altro sparuto osservatore, che si rifiuta di farsi cooptare nei ranghi di quelle “classi di servizio” (passim)   giornalistiche, che nelle fasi di acuta crisi di civiltà (a partire dalla Prima Guerra Mondiale) sgomitano alla tavola dei potenti di turno per “intingere le penne nel sangue e le spade nell’inchiostro”[2]

È così che nella disamina del conflitto nell’est europeo, che occupa la prima parte del volume, la Basile parte dall’elementare riconduzione degli accadimenti alla loro genesi reale, facilmente liquidando quell’ellittico e omissivo abbrivio protocollare tra “aggressore” e “aggredito”, che i “giornaloni” (nella parole di Marco Travaglio) con patetica disinvoltura fanno risalire al momento che meglio si presta a smerciare la narrazione dominante, organica a una semplificazione manichea di ruoli e attori, funzionale a un disegno di occultamento delle responsabilità dell’Occidente e al rilancio di certe sue, ormai boccheggianti, ma non per questo meno pericolose, pretese egemoniche. La stessa costellazione storico-politica, la febbrile trazione statunitense, orfana a suo tempo del Nemico elettivo (a seguito della caduta del Muro di Berlino, del crollo dell’Unione Sovietica e dello scioglimento del Patto di Varsavia), euforica fautrice di una (all’epoca) salvifica globalizzazione, che ritiene di cavalcare in ebbra solitudine - della globalizzazione stessa scopre incredula e stizzita  la capacità di evocare soggettività “altre”, irritantemente capaci di discuterne le arroganti e anacronistiche pretese unipolari (e pertanto ne decreta in modo muscolare l’esaurimento storico). Sullo sfondo del lungamente incubato confronto finale con la Repubblica popolare cinese (vero antagonista sul terreno della competizione economica e della capacità egemonica planetaria), prima di tutto quella tramortita Russia, che la classe dirigente Usa aveva a suo tempo ritenuto supina e ormai disponibile a qualsivoglia manipolazione e predazione (si pensi alla figura patetica del connivente subalterno El’cin o a quella del rampante tecnocrate Gajdar, figura principe della “terapia d’urto” economica post-gorbacioviana), prima di scoprirne traumaticamente la capacità di scartare in modo originale e autonomizzarsi rispetto al Washington Consensus, recuperando soggettività e protagonismo internazionale. Ai danni della quale, al di là delle generose e sbrigative rassicurazioni dei primi anni ‘90, enfatizzate, ma mai formalizzate, gli Stati Uniti facevano seguire un’insistita e tenace opera di allargamento a est di un’alleanza “difensiva”, che non aveva più ragione plausibile alcuna di conservarsi, alla luce delle rilevanti novità intervenute sullo scacchiere mondiale. E puntualmente ammoniti, dalla nuova classe dirigente moscovita, circa l’imprescindibilità delle garanzie di un non dislocamento della Nato a ridosso dei confini occidentali del paese euro-asiatico e dunque del paradigma di sicurezza ad esse connesso. Ma già dal 2004,  Paesi baltici, Slovacchia, Slovenia, Romania e Bulgaria aderivano al Patto tra le proteste di Mosca e quando nel 2007 si riuniva a Monaco la Conferenza sulla sicurezza collettiva il capo del Cremlino, “in modo assertivo e inequivocabile”, spiegherà che “l’allargamento della Nato è considerato da Mosca una minaccia esistenziale alla propria sicurezza” (p. 33). Sorvolando sulle risibili e speciose ragioni nel tempo opposte dai dirigenti americani alle rimostranze russe, la realtà stessa si sarebbe incaricata di inverarne la fondatezza nella scansione di tappe significative di quella precisa direttrice geo-strategica della Nato, quell’”atlantismo muscolare” (p.45) che ampiamente inquadra e spiega l’aspra reazione russa, come larga parte della stessa opinione occidentale ha compreso (obiettando al continuo pompaggio finanziario e materiale della guerra di Zelenski da parte di quello che una volta si sarebbe chiamato “mondo libero”). Quella stessa opinione che è stata costretta a riscoprire il “gusto” della mobilitazione a fronte dell’abominio consumato dall’”unica democrazia mediorientale”, giunta al disvelamento coerente del retropensiero e della finalità originari dei teorici sionisti: l’espulsione tout-court e purchessia da un territorio pensato in chiave destinale degli “animali umani” palestinesi[3], da sempre res nullius e intralcio di un visionario e delirante esclusivismo di matrice metafisica e religiosa (a ben vedere fortemente assonante con l’eccezionalismo auto-predicato dagli Stati Uniti e con i suoi limiti cognitivi). Anche qui, sullo sfondo massiccio delle responsabilità di un’Europa tutta protesa a riscattarsi da colpe ataviche attraverso un miserabile e furbesco espediente espiatorio, tutto giocato sulle spalle delle vittime di turno. E in spregio di qualsivoglia sforzo di anche timida autonomizzazione “identitaria” rispetto al Grande fratello d’oltreoceano, così pregiudicando un possibile dinamico ruolo di “pontiere” nelle tante aree di conflitto e ottusamente rifiutando di ritagliarsi un profilo attivo di interprete e fautore di più fluidi equilibri internazionali, pagando in prospettiva un prezzo storico altissimo al richiamo della foresta atlantico.  

Anche nel caso esemplare dell’imputridito groviglio mediorientale, dunque, l’Unione Europea palesa la fondamentale ipocrisia che implacabilmente la àncora alla propria storia peggiore e ne fa architrave subalterna e suicida di una logica di dominio, le cui fantasie egemoniche vanno sfumando nelle nebbie del ringhioso declino nordamericano.

Ma il dato politico generale, di questa vicenda, non è “cieco” o fine a se stesso, facendo piuttosto eco ai sottostanti processi economici che investono l’eterogenesi della solitaria globalizzazione a guida Usa. Esso viene ampiamente inquadrato dall’Autrice nel perimetro  dei massicci fenomeni e dei non detti strutturali, che sottostanno ed eccitano la decennale e affannosa impennata bellicista degli Stati Uniti e ne denunciano la crisi dolorosa delle velleità unipolaristiche, ormai aggirate e irrise dai Brics e da quel “Sud globale”, che lentamente decolla verso un protagonismo di recente lena, riservandosi legami e margini d’iniziativa a geometria variabile. 

De-dollarizzazione progrediente, coazione a ripetere del rifinanziamento del debito legato al famigerato complesso militar-industriale, “incapacità della classe dirigente statunitense di accettare un passaggio pacifico al mondo multipolare riformando la governance economica globale” (p. 151) sono solo alcuni versanti di una patologia non congiunturale della potenza-guida, che annaspa nello sforzo di “mantenere l’egemonia del dollaro” e che “preferisce pertanto un mondo instabile e diviso in grado di imbrigliare lo sviluppo economico della Cina (…) e delle potenze emergenti” (pp.152-53). Nel quale la guerra e la conflittualità “calda” rivestono il ruolo ri-costituente di una continua, ruvida e insostituibile conferma della propria centralità e superiorità.

Un quadro a dir poco inquietante per le sorti generali della comunità internazionale, cui la densa e pregnante Postfazione del nostro ex-ambasciatore in Cina, Alberto Bradanini, aggiunge e consegna la miseria dispiegata della nostrana macchina della propaganda, tutta affidata ai ”modellatori della coscienza pubblica a libro paga” (p.171), agli “intellettuali  all-season“ (p.169) che affollano televisioni e stampa “indipendente”.  Quei  “maggiordomi del potere (...), cinici e freddi difensori di privilegi, onori e denari” (170) che danno il loro sapido contributo alla deriva nichilistica di un Occidente, di cui la rancida ma obbligata produzione del nemico permanente non riesce più a occultare il piano inclinato di una cupa, rovinosa consunzione storica.  



Note: 

[1] Nella Postfazione dell’ex-diplomatico Alberto Bradanini (p. 170).

[2] Karl Kraus, In questa grande epoca, Venezia, Marsilio, 2018, pag. 53.

[3] Vera e propria pulizia etnica, nel titolo dell’omonimo libro dello storico israeliano anticonformista Ilan Pappé (Roma, Fazi, 2008).



 



26/04/2024 | Copyleft © Tutto il materiale è liberamente riproducibile ed è richiesta soltanto la menzione della fonte.

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“Sono partigiano, vivo, sento nelle coscienze della mia parte già pulsare l’attività della città futura che la mia parte sta costruendo. E in essa la catena sociale non pesa su pochi, in essa ogni cosa che succede non è dovuta al caso, alla fatalità, ma è intelligente opera dei cittadini. Non c’è in essa nessuno che stia alla finestra a guardare mentre i pochi si sacrificano, si svenano. Vivo, sono partigiano. Perciò odio chi non parteggia, odio gli indifferenti.”

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