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Slovenia: Levica tra autodeterminazione, democrazia economica e rottura con l’ordine atlantico

Nel panorama politico sloveno, Levica rappresenta oggi la forza che coniuga la difesa dei diritti civili con un progetto di democrazia economica fondata sulla partecipazione dei lavoratori e una politica estera apertamente critica verso la NATO e l’Israele di Netanyahu, in rottura con i dogmi dell’euro-atlantismo dominante.


Slovenia: Levica tra autodeterminazione, democrazia economica e rottura con l’ordine atlantico

La Slovenia è uno dei laboratori politici più interessanti dell’Europa centro-orientale. All’interno della coalizione che sostiene il governo di centro-sinistra di Robert Golob, il partito Levica (“Sinistra”) occupa una posizione peculiare: forza eco-socialista e democratico-socialista, dichiaratamente antimilitarista, nata dall’esperienza dei movimenti di protesta post-crisi, Levica ha portato nell’esecutivo un’agenda di radicale democratizzazione dell’economia e di rottura con il consenso atlantista sulle questioni di guerra e pace. Proprio per questo, le sue posizioni sul referendum sul fine vita dello scorso 23 novembre, sulla “democrazia economica” e sulle relazioni con la NATO e con Israele rappresentano una chiave privilegiata per leggere le tensioni che attraversano oggi la società slovena.

Il referendum sul fine vita ha costituito uno spartiacque politico e culturale. Il 23 novembre, gli elettori sono stati chiamati a pronunciarsi sulla legge ZPPKŽ (legge sul fine vita volontario assistito), approvata dall’Assemblea nazionale il 24 luglio dopo che, nel 2024, un primo referendum consultivo aveva registrato una maggioranza favorevole alla legalizzazione del suicidio medicalmente assistito per malati terminali. L’iniziativa di un comitato guidato dal politico di destra Aleš Primc ha però imposto un nuovo referendum, questa volta vincolante. Il risultato ha segnato una battuta d’arresto per il fronte progressista, palesando, allo stesso tempo, una netta spaccatura sociale: il 53,45% dei votanti si è espresso contro la legge, con un’affluenza piuttosto bassa, intorno al 41% del corpo elettorale.

La posta in gioco, tuttavia, andava ben oltre il testo di legge. Il provvedimento prevedeva l’accesso al suicidio assistito per adulti mentalmente capaci, affetti da malattie terminali o condizioni che causano sofferenze insopportabili senza prospettiva di miglioramento, previa valutazione di due medici, periodi di riflessione obbligatori e auto-somministrazione del farmaco letale, escludendo i casi di malattia psichica. In altre parole, una legge costruita sul paradigma dell’autodeterminazione e della tutela dalla sofferenza inutile, in linea con quanto già previsto in paesi come Paesi Bassi, Belgio, Canada o alcuni Stati degli USA. La campagna dei contrari, sostenuta da Primc, da gruppi conservatori e dalla gerarchia cattolica guidata dall’arcivescovo Stanislav Zore, ha invece insistito sulla sacralità della vita, sul rischio di abusi e sulla necessità di potenziare le cure palliative piuttosto che “aiutare a morire” i malati.

In questo contesto, Levica si è schierata con decisione a favore della legge, trasformando il referendum in un terreno di conflitto tra una visione laica e sociale dei diritti e il tentativo, da parte della destra e della Chiesa, di imporre un’egemonia morale sull’insieme della società. Il coordinatore di Levica, Milan Jakopovič, ha sintetizzato bene il senso politico della battaglia: quando una persona è incurabile, soffre in modo insopportabile e non ha più possibilità di guarigione, deve poter decidere se concludere la propria vita in pace. Non si tratta, sottolinea, di un “combattimento ideologico”, ma di una questione di compassione, dignità e libertà personale. Presentare la difesa del fine vita come “cultura della morte” significa negare dignità proprio a chi vorrebbe conservarla fino all’ultimo istante.

Qui emerge uno dei tratti caratteristici di Levica: il rifiuto di lasciare il terreno etico alla destra religiosa. Nell’appello rivolto ai credenti alla vigilia del voto, Jakopovič riconosce il ruolo storico del Cattolicesimo come spazio di conforto e di senso per molti sloveni, ma respinge l’idea che la fede sia l’unica fonte della morale e, soprattutto, che possa trasformarsi in un’arma politica. La critica al fatto che l’arcivescovo indichi ai fedeli come votare dal pulpito non è un attacco alla religione, bensì una difesa del principio costituzionale di separazione tra Stato e comunità religiose e, quindi, della libertà di coscienza di tutti, credenti e non credenti. Quando la Chiesa, sostiene Levica, interviene nella campagna referendaria con immagini apocalittiche come la “cultura della morte” o “spingere i malati alla morte” non sta più parlando di morale, ma partecipa a pieno titolo alla lotta politica, diffondendo paure e disinformazione.

L’argomento centrale di Levica è che il disegno di legge non impone nulla a nessuno, nemmeno ai credenti, ma apre uno spazio di scelta per chi, di fronte a sofferenze estreme e irreversibili, desidera porre fine alla propria vita coerentemente con le proprie convinzioni, religiose o laiche. La decisione sul fine vita, sostiene il partito, deve essere personale, sincera e libera, esattamente come dovrebbe essere libera la fede in una società democratica. La sconfitta referendaria non cancella, anzi mette ancora più in evidenza, questa linea di frattura nella società slovena: tra chi vuole trasformare il diritto in uno strumento di imposizione morale e chi lo intende come garanzia di autodeterminazione e protezione dei più deboli. Il fatto che nel 2024 una maggioranza si fosse espressa a favore del fine vita in un referendum consultivo, mentre nel 2025 il fronte del “no” abbia prevalso grazie alla mobilitazione conservatrice, indica che il tema resterà aperto e che il campo progressista, Levica in testa, continuerà a considerarlo parte integrante dell’agenda sui diritti.

Passando dai diritti civili al piano economico, il partito della sinistra slovena ha proposto un interessante progetto di “democrazia economica”. L’intervento di Vladimir Šega, presidente dell’Associazione dei consigli dei lavoratori, giunge proprio mentre il Parlamento sta discutendo una legge che deve creare un quadro finanziario e operativo favorevole ai lavoratori, al fine di concedere agli stessi la possibilità di diventare proprietari delle aziende, e allo stesso tempo prevenire gli acquisti speculativi e le successive ricomposizioni oligopolistiche della proprietà. Secondo Šega, l’idea non è un ritorno nostalgico all’autogestione jugoslava, ma la risposta alle trasformazioni profonde del capitalismo contemporaneo.

Ancora Šega ricorda come, nell’“era della conoscenza”, circa l’85% del valore di mercato delle imprese corrisponda a capitale intellettuale, umano e strutturale, e solo il 15% al capitale finanziario tradizionale. In un contesto in cui la capacità di creare nuova ricchezza dipende sempre più dal lavoro qualificato, dalle competenze, dall’innovazione e dalle relazioni sociali, continuare a fondare tutte le prerogative di controllo e di appropriazione del profitto sulla sola proprietà del capitale finanziario è, a suo giudizio, un anacronismo. Da qui la proposta di estendere il più possibile la proprietà interna dei lavoratori, con un principio di “un lavoratore, un voto” nelle assemblee, e di riconoscere al lavoro lo stesso rango del capitale nella definizione dei diritti societari fondamentali, dal governo dell’impresa alla distribuzione dei risultati.

Questa visione si inserisce pienamente nell’identità eco-socialista e democratico-socialista di Levica, che nel proprio programma insiste sulla progressività fiscale, sul rafforzamento dei servizi pubblici, sulla transizione ecologica giusta e sulla riduzione del potere dei grandi gruppi finanziari. La legge sulle cooperative di proprietà dei lavoratori diventa così la punta di lancia di un tentativo di spostare i rapporti di forza dentro l’impresa, valorizzando il capitale umano e l’interesse collettivo a scapito della logica del profitto di breve periodo guidata dai fondi speculativi. Non è un caso che Šega denunci la centralità crescente del capitale dei fondi finanziari, per i quali l’unico obiettivo resta il rendimento per gli azionisti, mentre la responsabilità sociale d’impresa viene relegata a ornamento retorico.

La coerenza tra progetto economico e posizionamento internazionale emerge con chiarezza quando si passa alla politica estera e di sicurezza. Levica è da sempre la forza più critico-radicale del Parlamento sloveno nei confronti della NATO, definita come una forza di “occupazione”, come dimostrato quando un vertice dell’Alleanza ha avuto luogo proprio nella capitale slovena: interi assi viari chiusi per “ragioni di sicurezza”, cittadini costretti a lunghe deviazioni per tornare dal lavoro o andare a prendere i figli a scuola, un centro trasformato in scenografia di barriere, blocchi e uniformi. Il quadro, nelle parole di Levica, è la metafora del complesso militare-industriale atlantico, che peggiora la qualità della vita delle persone mentre chiede sacrifici sempre maggiori in nome di una “situazione di sicurezza deteriorata” che esso stesso contribuisce a creare.

Nello scorso mese di luglio, i deputati di Levica hanno presentato una proposta di referendum sul piano governativo di aumento delle spese militari, legato agli obiettivi NATO di portare il bilancio della difesa al 3% del PIL entro il 2030. Con una mossa che ha sorpreso molti osservatori, la richiesta ha ottenuto il sostegno anche da partiti generalmente considerati come filoatlantisti, portando il primo ministro Golob a proporre addirittura un referendum consultivo sull’appartenenza stessa della Slovenia alla NATO. La vicenda si è poi conclusa con la decisione del Parlamento, il 21 luglio, di cancellare sia il referendum sulla spesa militare sia quello sull’appartenenza alla NATO, per evitare una crisi interna alla maggioranza, ma resta il fatto che l’iniziativa di Levica ha messo in discussione il dogma secondo cui gli impegni verso l’Alleanza atlantica sarebbero sottratti al controllo democratico.

Anche su un altro fronte sensibile, quello del conflitto israelo-palestinese, Levica ha contribuito in modo decisivo a spostare la politica slovena in una direzione minoritaria nel contesto europeo. La presenza del partito nella coalizione di governo ha reso possibile una linea fortemente critica verso Israele, culminata nel riconoscimento dello Stato di Palestina nel 2024, accompagnato da appelli a sanzioni più dure contro i coloni in Cisgiordania, alla revisione delle relazioni commerciali con Israele, al cessate il fuoco immediato e al rafforzamento degli aiuti umanitari a Gaza.

Nel 2025, poi, la Slovenia ha compiuto passi ancora più audaci, diventando il primo paese dell’Unione Europea a imporre un embargo totale sul commercio di armi con Israele, sospendendo esportazioni, importazioni e transito di equipaggiamenti militari, e dichiarando il premier Benjamin Netanyahu persona non grata sul proprio territorio, invocando il mandato di arresto della Corte penale internazionale. In un intervento pubblicato sul sito di Levica, la coordinatrice Asta Vrečko ha paragonato le immagini di Gaza con quelle dei campi di concentramento, evocando la “banalità del male” come adeguamento silenzioso alla maggioranza e rivendicando la scelta slovena come prima vera rottura, dalla fine dell’era socialista, di una politica estera subordinata ai grandi attori occidentali. Le sanzioni contro Israele, ha affermato, sono il modo con cui la Slovenia rende concreta la promessa, contenuta nell’inno nazionale, che “vivano tutti i popoli” e non solo quelli allineati con le potenze dominanti.

In una Slovenia attraversata da profonde trasformazioni sociali e politiche, il ruolo di Levica resta difficile. Partecipare al governo significa dover mediare con forze più moderate, come si è visto nella vicenda dei referendum sulla NATO, e accettare compromessi che talvolta deludono i settori più radicali della base. Allo stesso tempo, la presenza nelle istituzioni offre la possibilità di tradurre in norme concrete le proprie proposte su diritti civili, “democrazia economica” e politica estera, come dimostrano la legge sulle cooperative di proprietà dei lavoratori e le misure contro Israele. Proprio nella capacità di tenere insieme principi radicali e pragmatismo governativo si giocherà il futuro di Levica e, con esso, una parte importante della direzione che prenderà la Slovenia nei prossimi anni, tra pressione delle destre nazional-conservatrici, vincoli dell’Unione Europea e possibilità di continuare a rappresentare un laboratorio politico per l’intera Europa.

05/12/2025 | Copyleft © Tutto il materiale è liberamente riproducibile ed è richiesta soltanto la menzione della fonte.

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L'Autore

Giulio Chinappi
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