Gramsci, l’eguaglianza e la coscienza di classe

L’uguaglianza culturale e morale è la fase propriamente politica che segna il passaggio dalla struttura alla sfera delle superstrutture, è la fase in cui le ideologie germinate precedentemente diventano “partito” determinando oltre che l’unicità dei fini economici e politici, anche l’unità intellettuale e morale, ponendo tutte le questioni intorno a cui ferve la lotta non sul piano corporativo ma su un piano universale.


Gramsci, l’eguaglianza e la coscienza di classe

Il grado di eguaglianza realmente conquistato nel processo di sviluppo umano è riscontrabile, a parere di Antonio Gramsci, “nel sistema di associazioni «private e pubbliche», esplicite ed implicite, che si annodano nello «Stato» e nel sistema mondiale politico” [1]. L’eguaglianza reale non è dunque un dato, un presupposto, o un attributo di un sedicente uomo in astratto, ma è il legame che unisce membri di organizzazioni e classi sociali, fondata proprio sulla coscienza della disuguaglianza con altre classi e gruppi politici. Come chiarisce Gramsci: “si tratta di «uguaglianze» sentite come tali fra i membri di una associazione e di «disuguaglianze» sentite tra le diverse associazioni, uguaglianze e disuguaglianze che valgono in quanto se ne abbia coscienza individualmente e come gruppo” (7, 35: 886). Il grado di consapevolezza di tale eguaglianza all’interno di un gruppo sociale attraversa fasi differenti, “che corrispondono ai diversi momenti della coscienza politica collettiva, così come si sono manifestati finora nella storia” (13, 17: 1583). Il primo è di tipo “economico-corporativo” in cui è avvertita “l’unità omogenea e il dovere di organizzarla” all’interno di una singola professione. Il secondo è il sentimento di eguaglianza fra i membri di un gruppo sociale, ma ad un livello immediato, economico; la questione dello Stato è avvertita sul piano di riforma della legislazione esistente, cioè si lotta per “raggiungere una eguaglianza politico-giuridica coi gruppi dominanti” (ivi, 1584). In tal modo il gruppo sociale subalterno non ha ancora conquistato l’autonomia dal gruppo dominante – premessa indispensabile a porre la questione del superamento di ogni disuguaglianza – o poiché non ne ha avvertito la necessità, o perché si illude di poter passare mediante la lotta sindacale direttamente “dal regime dei gruppi a quello della perfetta eguaglianza” (13, 18: 1590-591). Tuttavia, conseguita l’eguaglianza giuridica, il gruppo sociale farà l’esperienza “che non può esistere eguaglianza politica completa e perfetta senza eguaglianza economica” (6, 12: 693). Si passa allora al terzo momento caratterizzato dall’eguaglianza di interessi con gli altri gruppi subordinati. Attraverso l’unità economica e poi politica si giunge all’unità intellettuale e morale di tutti i subordinati, nella prospettiva della fondazione di una compagine statuale in cui l’eguaglianza economica sia la base dell’eguaglianza politica e morale.

Realizzando la piena eguaglianza fra i soggetti morali, la morale pubblica si riconcilierà con la privata sino “a sboccare in una forma di convivenza in cui politica e quindi morale saranno superate entrambe” (6, 79: 749). Nel nuovo Stato l’etica del gruppo sociale subalterno dovrà “diventare norma di condotta di tutta l’umanità” (6, 79: 750), togliendo così la dicotomia fra politica e morale in una sintesi superiore.

A proposito delle critiche al parlamentarismo oligarchiche ed elitarie, incentrate sul fatto che tale regime si determinerebbe in modo esclusivamente quantitativo, Gramsci osserva: “queste affermazioni banali sono state estese a ogni sistema rappresentativo, anche non parlamentaristico, e non foggiato secondo i canoni della democrazia formale. Tanto meno queste affermazioni sono esatte. In questi altri regimi il consenso non ha nel momento del voto una fase terminale, tutt’altro. Il consenso è supposto permanentemente attivo, fino al punto che i consenzienti potrebbero essere considerati come «funzionari» dello Stato e le elezioni un modo di arruolamento volontario di funzionari statali di un certo tipo, che in un certo senso potrebbe ricollegarsi (in piani diversi) al self-government. Le elezioni avvenendo non su programmi generici e vaghi, ma di lavoro concreto immediato, chi consente si impegna a fare qualcosa di più del comune cittadino legale, per realizzarli, a essere cioè una avanguardia di lavoro attivo e responsabile. L’elemento «volontariato» nell’iniziativa non potrebbe essere stimolato in altro modo per le più larghe moltitudini, e quando queste non siano formate di cittadini amorfi, ma di elementi produttivi qualificati, si può intendere l’importanza che la manifestazione del voto può avere. (Queste osservazioni potrebbero essere svolte più ampiamente e organicamente, mettendo in rilievo anche altre differenze tra i diversi tipi di elezionismo, a seconda che mutano i rapporti generali sociali e politici: rapporto tra funzionari elettivi e funzionari di carriera ecc.)” (13, 30: 1625-626). Ogni contraddizione fra “morale privata e morale pubblica-politica” è generata da un assetto sociale in cui è ostacolata l’”uguaglianza dei soggetti morali” (6, 79: 749). “Da questo punto di vista storicistico può solo spiegarsi l’angoscia di molti sul contrasto tra morale privata e morale pubblica-politica: essa è un riflesso inconsapevole e sentimentalmente acritico delle contraddizioni della attuale società, cioè dell’assenza di uguaglianza dei soggetti morali” (ivi: 750).

L’uguaglianza culturale e morale è la fase propriamente politica che segna il passaggio “dalla struttura alla sfera delle superstrutture complesse, è la fase in cui le ideologie germinate precedentemente diventano «partito», vengono a confronto ed entrano in lotta fino a che una sola di esse o almeno una sola combinazione di esse, tende a prevalere, a imporsi, a diffondersi su tutta l’area sociale determinando oltre che l’unicità dei fini economici e politici, anche l’unità intellettuale e morale, ponendo tutte le quistioni intorno a cui ferve la lotta non sul piano corporativo ma su un piano «universale» e creando così l’egemonia di un gruppo sociale fondamentale su una serie di gruppi subordinati” (13, 17: 1584).

D’altra parte, il socialismo non si fonda sul “fanatismo dell’eguaglianza”, cioè in tale fase di transizione dal capitalismo al comunismo non prevarrà la tendenza a uniformare in modo meccanicistico, ma a partire dall’eguaglianza delle condizioni andranno riconosciute (anche dal punto di vista economico) le diverse capacità e i differenti contributi dati alla formazione della nuova società. Perciò, osserva Gramsci, “la questione di ricompensare l’industriale con plus salari o premi di capacità sarebbe cosa da nulla e che nessun uomo sensato rifiuterebbe di prendere in considerazione: il fanatismo dell’eguaglianza non nasce dai «premi» che vengono dati agli industriali valenti. Il fatto è questo: che, date le condizioni generali, il maggior profitto creato dai progressi tecnici del lavoro, crea nuovi parassiti”. 

Il fanatismo egualitario è dunque, come denuncia Gramsci, il prodotto di una società come la capitalista in cui tende a predominare il parassitismo di chi consuma senza produrre, cioè “non «scambia» lavoro con lavoro, ma lavoro altrui con «ozio» proprio (e ozio nel senso deteriore). Dato il rapporto prima notato sul progresso tecnico nella produzione degli alimenti, avviene una selezione dei consumatori di alimenti, in cui i «parassiti» entrano nel conto prima dei lavoratori effettivi e specialmente prima dei lavoratori potenziali (cioè attualmente disoccupati). È da questa situazione che nasce il «fanatismo dell’eguaglianza»” (10, 55: 1348). 

Nel momento in cui a ognuno sarà riconosciuto e dato secondo il contributo fornito al lavoro sociale effettivamente svolto e si porranno le basi per una reale eguaglianza delle condizioni anche la “tendenza estrema e irrazionale” (ibidem) all’egualitarismo verrà necessariamente meno. Anzi, osserva ancora acutamente Gramsci, si vede che il fanatismo egualitario “scompare già dove si vede che per lo meno si lavora a far scomparire o attenuare tale situazione generale” (ibidem), caratteristica della società capitalista, in particolare nella sua fase suprema di sviluppo, cioè la fase imperialista. Nella società comunista, infine, all’astratto egualitarismo si sostituirà il principio per cui ognuno contribuirà secondo le proprie capacità allo sviluppo sociale e riceverà, nella misura del possibile, secondo i suoi bisogni effettivi.

Note:

[1] Gramsci, Antonio, Quaderni del carcere, edizione critica a cura di Gerratana, Valentino, Einaudi, Torino 1977, volume II, p. 886.

08/09/2023 | Copyleft © Tutto il materiale è liberamente riproducibile ed è richiesta soltanto la menzione della fonte.

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L'Autore

Renato Caputo

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La città futura

“Sono partigiano, vivo, sento nelle coscienze della mia parte già pulsare l’attività della città futura che la mia parte sta costruendo. E in essa la catena sociale non pesa su pochi, in essa ogni cosa che succede non è dovuta al caso, alla fatalità, ma è intelligente opera dei cittadini. Non c’è in essa nessuno che stia alla finestra a guardare mentre i pochi si sacrificano, si svenano. Vivo, sono partigiano. Perciò odio chi non parteggia, odio gli indifferenti.”

Antonio Gramsci

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