Che cosa è realmente il salario?

Il salario corrisponde alla quantità di mezzi di sussistenza – o nel loro prezzo in denaro – che sono in media necessari per rendere un uomo capace di svolgere un determinato lavoro, per conservarlo atto al lavoro e per sostituirlo, quando egli scompare per vecchiaia, per malattia o per morte, con un altro salariato, cioè per garantire che la classe dei salariati si riproduca nella misura necessaria alla riproduzione allargata del capitale.


Che cosa è realmente il salario?

Il capitale non è altro che lavoro accumulato (prodotto di un lavoro passato) nella forma di materie prime, strumenti di lavoro e sussistenza (salari) che si riproduce su scala allargata mediante lo scambio di lavoro morto (mezzi di produzione) con la forza-lavoro (lavoro vivo). Una serie di mezzi di produzione diviene capitale, ovvero un rapporto sociale di produzione, solo nel momento in cui vi sia “una classe che non possiede null’altro che la capacità di lavorare”. In altri termini, “soltanto il dominio del lavoro accumulato, passato, materiale, sul lavoro immediato, vivente, fa del lavoro accumulato capitale. 

Il capitale non consiste nel fatto che il lavoro accumulato serve al lavoro vivente come mezzo per una nuova produzione. Esso consiste nel fatto che il lavoro vivente serve al lavoro accumulato come mezzo per conservare e per accrescere il suo valore di scambio” [1]. La presunta pluralità dei fattori di produzione è funzionale a occultare lo sfruttamento della forza-lavoro quale unica fonte del plusvalore [2]. Inoltre tale teoria nasconde il fondamento individualista e asociale della produzione, il profitto individuale, facendola derivare da una presunta “sovranità del consumatore” che la orienterebbe sulla base dei propri desideri. Infine il fondamento ineguale dello scambio fra forza-lavoro (che il marginalismo nasconde dietro il termine lavoro) e capitale è celato dietro l’apparente libertà ed eguaglianza della legge della domanda e dell’offerta che lo regolerebbe. Il marginalismo, in effetti, abbandona la teoria del valore fondata sul criterio oggettivo (universale e necessario) dei costi di produzione, elaborata dall’economia borghese classica, in nome del principio soggettivistico (empirico ed arbitrario) della valutazione da parte della sommatoria di singoli individui del grado di utilità di ogni merce.

Tuttavia, come mostra Marx: “la domanda e l’offerta non regolano altro che le oscillazioni temporanee dei prezzi di mercato. Esse vi spiegheranno perché il prezzo di mercato di una merce sale al di sopra o cade al di sotto del suo valore, ma non vi possono mai spiegare questo valore”. Tuttavia non appena domanda e offerta si equilibrano, si annullano reciprocamente e dunque “il prezzo di mercato di una merce coincide con il suo valore reale, con il prezzo normale, attorno al quale oscillano i suoi prezzi di mercato”. Per comprendere la natura reale di questo valore occorre astrarre dagli “effetti temporanei della domanda e dell’offerta sui prezzi di mercato” [3], ovvero bisogna abbandonare il piano fenomenico del mercato e calarsi, concettualmente, nell’antro oscuro della produzione, il cui accesso è negato ai non addetti ai lavori. Di fronte al costante variare del prezzo di qualsiasi merce l’economia classica ricercò “la legge che si nasconde dietro a questo caso che apparentemente regge i prezzi delle merci, la legge che, in realtà, regge questo caso stesso” [4]. Risalendo dal piano empirico del mercato, in cui i prezzi delle merci variano costantemente, l’economia classica ha tentato di individuare la legge che li determina, ovvero il loro valore [5]. Quest’ultimo fu individuato da A. Smith nel lavoro richiesto per la produzione di ogni merce. Tuttavia, ponendo il lavoro quale misura del valore si trattava di individuare il valore del lavoro, finendo così nel circolo vizioso, nella tautologia di affermare che il valore della merce lavoro era il lavoro stesso

L’economia classica cercò allora con D. Riccardo un’altra via d’uscita, puntando a fondare il valore della merce sui suoi costi di produzione [6]. Essendo impossibile indicare i costi di produzione del lavoro essi furono indotti, facendo come osserva Engels “violenza alla logica”, a servirsi dei costi di produzione del lavoratore. Questi ultimi erano in media definibili in determinate fasi dello sviluppo capitalistico, contesti sociali, geografici, per i diversi ambiti dell’apparato produttivo [7], corrispondendo alla “quantità di mezzi di sussistenza – o nel loro prezzo in denaro – che sono in media necessari” per rendere un uomo capace di svolgere un determinato lavoro, “per conservarlo atto al lavoro e per sostituirlo, quando egli scompare per vecchiaia, per malattia o per morte”, con un altro salariato, cioè per garantire che la classe dei salariati si riproduca nella misura necessaria alla riproduzione allargata del capitale. Una volta comperata a tal prezzo la capacità di lavoro il padrone la utilizzerà per un tempo maggiore a quello necessario a riprodurre il valore dei mezzi di sussistenza anticipato quale salario. Tale lavoro produrrà un nuovo valore rispetto a quello semplicemente riprodotto dagli strumenti di lavoro e dalle materie prime, vendute in media al loro valore [8]. Dunque il valore prodotto dalla forza lavoro è superiore ai costi di riproduzione del suo portatore. Per l’economia borghese, anche nei suoi più geniali interpreti quali Riccardo, che si arresta all’esperienza del capitalista che ritiene di aver acquistato il lavoro dei propri salariati, si tratta di una contraddizione insuperabile, dal momento che tale lavoro avrebbe due differenti valori, uno prima del suo utilizzo e uno diverso da esso prodotto [9]. Da tale contraddizione l’economia politica borghese non poteva uscire in quanto quello che considerava costo di produzione del “lavoro”, era il costo di produzione non del lavoro, ma dello stesso lavoratore salariato, che non vendeva al capitalista il suo lavoro, ma la sua capacità di lavorare.

Alla base dell’occultamento ideologico della reale natura del salario vi è lo strumentale oblio della differenza, apparentemente dottrinaria, fra lavoro e forza-lavoro che, al contrario, come ricordava Friedrich Engels, “è decisiva in tutta la elaborazione marxista sul salario e sul plus-valore: è alla base della spiegazione scientifica data da Marx della determinazione del salario e della natura dello sfruttamento capitalistico” [10]. Nel momento in cui si scambia per valore o prezzo del lavoro quello che è il valore o prezzo della forza-lavoro, si perde di vista il fatto che solo una parte della prestazione lavorativa è pagata dal salario, ovvero non si comprende come proprio la parte non retribuita, il pluslavoro sia la fonte immediata del plusvalore e mediata del profitto [11]. Pur vendendo la merce prodotta al suo valore il capitalista ne ricava un profitto netto in quanto in essa è cristallizzato tanto lavoro pagato (mezzi di produzione, materie prime, salario) quanto non retribuito (plusvalore prodotto dal pluslavoro) [12].

È evidente come la capacità di svolgere un lavoro (energia muscolare, capacità mentale, abilità, etc.), che deve essere costantemente rigenerata (la potenza) è cosa differente dal determinato lavoro che consente di portare a compimento (l’atto); quella che può vendere il salariato è solo la prima, in quanto non appena il lavoro del lavoratore salariato ha inizio realmente esso ha già cessato di appartenergli (in quanto proprietà del capitalista) e, dunque, non può più essere da lui venduto. All’interno del modo capitalistico di produzione l’attività lavorativa del salariato è in quanto tale alienata: “Il lavoro, è però l’attività vitale propria dell’operaio, è la manifestazione della sua propria vita. Ed egli vende ad un terzo questa attività vitale per assicurarsi i mezzi di sussistenza necessari. La sua attività vitale è dunque per lui soltanto un mezzo per poter vivere. Egli lavora per vivere. Egli non calcola il lavoro come parte della sua vita: esso è piuttosto un sacrificio della sua vita. (…) La vita incomincia per lui dal momento in cui cessa questa attività, a tavola, al banco dell’osteria, nel letto. Il significato delle dodici ore di lavoro non sta per lui nel tessere, filare, trapanare, ecc., ma soltanto nel guadagnare ciò che gli permette di andare a tavola, al banco dell’osteria, a letto” [13]. Il fondamento del modo di produzione capitalistico va, dunque, ricercato nell’uso della forza-lavoro che il lavoratore ha alienato al capitalista come una merce, cioè nel modo in cui il capitale ne organizza il consumo ai propri fini non appena si varca la soglia dov’è scritto: vietato l’ingresso agli estranei.

Note:

[1] Marx, Karl, Il salario. Lavoro salariato, capitale e libero scambio, a cura di Pala, Gianfranco, Laboratorio politico, Napoli 1995, p. 38.

[2] La prima fonte di voluto equivoco della definizione ideologica oggi dominante risiede, perciò, nella supposta pluralità indifferenziata di fattori di produzione, cui attribuire parti del prodotto ottenuto: il lavoro è posto sullo stesso piano del capitale e della terra, cosicché lo sfruttamento sparisca.

[3] Id., Salario prezzo e profitto, Laboratorio politico, Napoli 1992, p. 33.

[4] Id, Il salario, op. cit., p. 11.

[5] In una parola, l’economia classica partì dai prezzi delle merci per cercare, come legge che li regola, il valore delle merci, col quale si spiegano tutte le oscillazioni dei prezzi e al quale, in conclusione, devono essere ricondotte tutte.

[6] “Che cosa serve dunque al borghese come misura del guadagno? I costi di produzione della sua merce. Se in cambio di questa merce egli riceve una somma di altre merci la cui produzione è costata di meno, ha perduto. Se in cambio della sua merce egli riceve una somma di altre merci la cui produzione è costata di più, ha guadagnato.” Ivi, p. 30.

[7] Essi variano secondo il tempo e le circostanze, ma per un dato stato sociale, per una data località, per una data branca della produzione, sono essi pure dati, almeno entro limiti abbastanza ristretti.

[8] “Nel calcolo del valore di scambio di una merce, alla quantità di lavoro impiegato da ultimo per la sua produzione dobbiamo ancora aggiungere la quantità di lavoro anteriormente incorporata nella materia prima della merce, e il lavoro impiegato per i mezzi di lavoro, gli strumenti, le macchine, i fabbricati, necessari per realizzare il lavoro.” Id., Salario prezzo …, op. cit., p. 43.

[9] Possiamo voltarci e rigiraci come vogliamo, non usciremo da questa contraddizione fino a tanto che parleremo di compra e di vendita del lavoro e di valore del lavoro. Ed è appunto ciò che è accaduto agli economisti. L’ultimo prodotto dell’economia classica, la scuola ricardiana, fallì in gran parte per non aver saputo risolvere questa contraddizione. L’economia classica si era cacciata in un vicolo cieco. Chi trovò la via per uscirne fu Karl Marx.

[10] Aggiunta di Friedrich Engels alla edizione del 1891 di Id., Lavoro salariato e capitale, [1847-48], citata in Id., Il salario, op. cit., p. 148.

[11] Come ricorda Marx: “questa falsa apparenza distingue il lavoro salariato dalle altre forme storiche del lavoro. Sulla base del sistema del salario anche il lavoro non pagato sembra essere lavoro pagato. Con lo schiavo, al contrario, anche quella parte di lavoro che è pagata appare come lavoro non pagato. Naturalmente lo schiavo, per poter lavorare, deve vivere; una parte della sua giornata di lavoro serve a compensare il valore del suo proprio sostentamento. Ma poiché fra lui e il suo padrone non viene concluso nessun patto e fra le due parti non ha luogo nessuna compera e vendita, tutto il suo lavoro sembra lavoro dato per niente.” Id., Salario prezzo …, op. cit., pp. 59-60.

[12] Nella merce, quale prodotto finale della produzione, vi è lavoro pagato e non (profitto). “Una parte del lavoro contenuto nella merce è lavoro pagato; un’altra parte è lavoro non pagato. Perciò quando il capitalista vende la merce al suo valore, cioè secondo la somma totale di lavoro in essa cristallizzato e impiegato per la sua produzione, egli deve necessariamente venderla con un profitto.” Ivi, p. 63.

[13] Id., Il salario, op. cit., pp. 25-6.

24/03/2023 | Copyleft © Tutto il materiale è liberamente riproducibile ed è richiesta soltanto la menzione della fonte.

Condividi

L'Autore

Renato Caputo

Pin It

La città futura

“Sono partigiano, vivo, sento nelle coscienze della mia parte già pulsare l’attività della città futura che la mia parte sta costruendo. E in essa la catena sociale non pesa su pochi, in essa ogni cosa che succede non è dovuta al caso, alla fatalità, ma è intelligente opera dei cittadini. Non c’è in essa nessuno che stia alla finestra a guardare mentre i pochi si sacrificano, si svenano. Vivo, sono partigiano. Perciò odio chi non parteggia, odio gli indifferenti.”

Antonio Gramsci

Newsletter

Iscrivi alla nostra newsletter per essere sempre aggiornato sulle notizie.

Contattaci: