Mama Mercy, una recensione

La comunità immigrata in Italia vista dal suo interno attraverso un film coraggioso e girato con pochi mezzi ma con molti cuori


Mama Mercy, una recensione

La regista teatrale Alessandra Cutolo, con “Mama Mercy”, opera dal sapore decisamente neorealista, si mette alla prova per la prima volta come regista cinematografica, portando l’attenzione su un tema sempre più centrale ai nostri giorni e su cui c’è molta mistificazione ossia quello dell’integrazione degli immigrati all’interno del contesto sociale italiano. Quest’opera sembra il secondo tempo mancato del film di Garrone “Io Capitano”, film anch'esso dal sapore neorealista che, stranamente, viste le precedenti opere decisamente intollerabili del regista in questione, è riuscito ad evitare il solito rimestare nel torbido del proletariato contribuendo invece, con questa pellicola, a costruire una narrazione alternativa a quella dominante sui flussi migratori e capace di dare modo di comprendere bene il fenomeno nella sua media portata. Io Capitano mette peraltro bene in luce quanto il sogno di molti immigrati africani di realizzarsi in Europa si riveli in realtà un sostanziale incubo: tuttavia il film concentra la propria attenzione sulla tragedia dell’odissea che li porta fino alle nostre coste mentre ciò che accade una volta giunti a terra, ossia ciò che li aspetta nel mondo occidentale, rimane semplicemente accennato e quasi totalmente non indagato da Garrone. Tale aspetto è, al contrario, al centro dell’opera di Cutolo.  

Iniziamo subito col dire che per comprendere bene quest’opera è necessario capire un minimo il contesto in cui è maturata. La regista Alessandra Cutolo lo ha spiegato bene la sera della prima proiezione avvenuta al cinema Troisi di Roma, accennando al fatto che tutto il progetto che ha portato alla realizzazione del film - che si configura come opera collettiva in quanto ha visto la partecipazione di una rete ampia di persone e associazioni - è stato sviluppato attraverso strade più o meno alternative rispetto ai classici canali che normalmente si seguono per realizzare una pellicola cinematografica. In effetti per chi non conosce le realtà sociali del quartiere Esquilino di Roma dove l'opera in parte è stata girata, e più specificamente il palazzo occupato Spin-Time e l’associazione dei genitori della scuola “Di Donato”, realtà delle quali la stessa regista è un attivista, può essere difficile cogliere fino in fondo la complessità stessa dell’opera. 

L’Esquilino, ancorché sia un rione assolutamente centrale di Roma, è forse il meno borghese tra i quartieri centrali e presenta una stratificazione sociale abbastanza variegata, e in particolare la presenza di lavoratori immigrati, superiore probabilmente ad altre zone del centro, contribuisce a creare quell’idea di “cosmopolitismo” tanto cara in molti ambienti della sinistra chic. L’occupazione abitativa Spin - Time è divenuta famosa perché è una delle poche occupazioni nel centro della capitale che ospita centinaia di famiglie con bambini e numerose attività, ed è passata agli onori della cronaca quando, staccata l’energia elettrica a causa delle bollette non pagate, fu l’elemosiniere del Papa in persona a risolvere la situazione, ripristinando l’allaccio. Si tratta inoltre di un'occupazione molto ben organizzata e gestita, ricca di iniziative culturali e con posizioni certamente avanzate anche in termini politici. Come si diceva, vi abitano oltre cento famiglie e molti bambini che vanno a scuola proprio nel plesso della scuola Di Donato dove è presente da vent’anni un’associazione dei genitori (A.G. Di Donato) che tiene aperta la scuola anche in orario extrascolastico, organizzando tantissime attività che, oltre ad arricchire i bambini che le seguono, rappresentano un sostegno per le famiglie che per tante ragioni, la principale di tutte il lavoro, non potrebbero seguire i figli con il conseguente rischio di “dispersione”. In altre parole l’associazione dei genitori svolge un ruolo pedagogico e sociale di primissima importanza, realizzando quelle attività che appaiono straordinarie, ed in effetti lo sono, in un sistema di produzione capitalistico il quale non sviluppa e non finanzia minimamente lo stato sociale visto che è interessato esclusivamente a sviluppare l’accumulazione privata cioè ad aumentare il saggio di sfruttamento aumentando l’orario e i ritmi di lavoro con tutto ciò che ne consegue in termini di ricadute sulla famiglia, specie quelle meno abbienti. E’ dunque questo contesto sinergico di forze vive nel quartiere e orientate all’emancipazione del genere umano a fare da sfondo e da supporto alla regista, la quale prende le mosse proprio da qui per raccontare gli aspetti, anche questi poco noti, della marginalità in cui sono costretti a vivere i più umili tra i lavoratori immigrati. 

La protagonista di Mama Mercy è infatti una mamma che cerca, nelle modalità che le sono possibili, di gestire la difficile situazione della sua famiglia di quattro figli che vive in un'occupazione abitativa con un marito peraltro poco presente nella gestione familiare, e che, seguendo la classica struttura narrativa della ricerca di riscatto, finisce per avvicinarsi alla criminalità. Le condizioni di vita dei lavoratori immigrati sono ben indagate dal loro stesso punto di vista, anche gli attori sono attori di strada cioè persone che recitano il ruolo di di se stesse, persone che nella vita reale vivono quelle condizioni difficili. Questo è un notevole punto di forza del film ma, al contempo, un punto di debolezza: ciò infatti consente di esprimere al meglio le difficoltà che vivono sulla propria pelle gli immigrati e di raccontare in prima persona anche gli equilibri sociali, per molti aspetti avanzati, che si determinano nei contesti delle occupazioni abitative; anche le ragioni che legano le condizioni di difficoltà economica alla discesa verso la criminalità sono ben tracciate, e infine, con un tocco di ironia, sono indagate bene le ragioni che sottendono i legami tra i vari strati sociali come ad esempio risultano ben illustrati i goffi tentativi dei borghesi radical di offrire il proprio aiuto nel tentativo di risollevare le condizioni dei meno abbienti, rivelandosi però molto spesso un ulteriore aggravio per coloro che intendevano aiutare. Al contempo, dicevamo, questo approccio, per così dire “dal basso,” cioè di vedere attraverso la lente di chi non è pienamente cosciente di sé, non consente di andare oltre al fenomeno, con il rischio di cadere nel fatalismo. L’opera manca di una critica dei fondamenti caratteristici di questa società che produce e riproduce tali aberranti situazioni lasciando in sospeso molte domande. Lo sforzo del tutto meritorio di dare voce a chi non ha voce e portare all’attenzione dei più le condizioni di vita delle occupazioni abitative, ha l’ulteriore pregio di essere un lavoro collettivo, che ha coinvolto gran parte della rete sociale del quartiere. Purtroppo, non identificando le vere cause del problema, lascia lo spettatore in un limbo dove l’unica speranza di riscossa appare quella del mutualismo, finendo però in tal modo per scadere esageratamente nell’apologia acritica di queste realtà abitative: per bocca della stessa regista, al termine della proiezione al cinema Troisi, l’accento è stato posto unicamente sul loro carattere “favoloso”, immaginando dunque addirittura un’auspicabile diffusione di tali realtà come metodo futuristico di organizzazione del vivere sociale.

Nonostante esse abbiano certamente il merito grandioso di riportare a rivalutare il concetto di solidarietà (meritando per questo tutto il rispetto e il sostegno possibile), al contempo non bisogna mai dimenticare che l’esistenza di questi luoghi non può rappresentare né il futuro né la soluzione del problema di dover agire ora e subito per ridare dignità alla persona umana, specialmente coloro che appartengono alle classi subalterne e alle comunità più marginalizzate. Questa situazione prodotta dal barbarico sistema sociale in cui viviamo va osteggiata e sradicata totalmente a partire dalle sue cause, non va, al contrario, eternizzata,  normalizzata e sopportata agendo unicamente al livello della “resistenza” offerta dal sistema mutualistico, operato peraltro sempre in condizioni di maggiore difficoltà, mancanza di mezzi e sostegni economici che non consentono nulla più di “metterci una pezza” che, per quanto avanzata, resta pur sempre una “pezza”. 

Per tali ragioni non è possibile abbracciare le tipiche posizioni radical chic che fanno di questi luoghi una smodata apologia, immaginando cioè che quelle situazioni emergenziali divengano addirittura appetibili e, dunque, la norma, perchè in tal modo si finisce per perdere la speranza in un rivolgimento totale dei rapporti sociali di produzione, quale unica vera soluzione in grado di restituire dignità alle classi subalterne.

 

02/03/2024 | Copyleft © Tutto il materiale è liberamente riproducibile ed è richiesta soltanto la menzione della fonte.

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“Sono partigiano, vivo, sento nelle coscienze della mia parte già pulsare l’attività della città futura che la mia parte sta costruendo. E in essa la catena sociale non pesa su pochi, in essa ogni cosa che succede non è dovuta al caso, alla fatalità, ma è intelligente opera dei cittadini. Non c’è in essa nessuno che stia alla finestra a guardare mentre i pochi si sacrificano, si svenano. Vivo, sono partigiano. Perciò odio chi non parteggia, odio gli indifferenti.”

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