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Crisi demografica e ritorno della natalità in tempi di guerra: dal controllo alla coercizione

Traendo spunto dal libro di Saporetti “Abolire le nascite”, una riflessione su come, in un contesto di guerra permanente, in cui la priorità strategica è la disponibilità di corpi fertili e combattenti, le forme di identità e comportamento sessuale che si pongono al di fuori della logica binaria riproduttiva verrebbero viste come strutturalmente avverse


Crisi demografica e ritorno della natalità in tempi di guerra: dal controllo alla coercizione

Il calo delle nascite che caratterizza le società occidentali contemporanee non è soltanto un fenomeno storico o sociologico ma un fattore strutturale capace di ridefinire gli assetti politici, economici e militari degli Stati. Claudio Saporetti, assiriologo e archeologo, nel suo provocatorio “Abolire le nascite” – un saggio che prende spunto dal mondo mesopotamico antico per riflettere su dinamiche demografiche e sociali – ha esplorato la possibilità che una società giunta ad un elevato grado di consapevolezza e pianificazione possa ritenere le nascite superflue, o quantomeno da ridurre drasticamente, in un contesto dove la tecnica e la demografia programmata rendano l’essere umano un elemento ridondante. Tuttavia tale visione si scontra con l’odierna realtà storica di una politica mondiale nuovamente attraversata da tensioni belliche e competizioni strategiche globali di una guerra in cui il fattore umano si sta riappropriando della sua centralità.

La guerra – o la sua minaccia – funziona da catalizzatore di ritorni regressivi, non per motivi etici o religiosi, ma per esigenze di potenza. In tempi di pace e benessere, l’autodeterminazione sessuale, la libertà di non procreare, il diritto all’aborto e alla contraccezione sono espressioni di una società fondata sull’individuo. Ma in tempi di guerra, il paradigma cambia: l’individuo torna a essere funzionale allo Stato, al suo apparato militare, alla sua continuità generazionale. I concetti di quantità di uomini e sostituibilità sono diventati fondamentali in guerre che hanno messo in mostra come uno stato con molti uomini ha la possibilità presto o tardi di sopraffare un esercito di uno stato con minor numero di uomini.

L’interruzione volontaria della gravidanza, la sterilizzazione volontaria, la diffusione della contraccezione o l’orientamento childfree cessano di essere scelte personali: diventano, improvvisamente, problemi politici. Nella logica della guerra totale, ogni nascita mancata è un soldato in meno, un lavoratore in meno, un cittadino in meno. Non è difficile prevedere che, in un contesto simile, anche i più laici tra i governi potrebbero procedere a rivedere le legislazioni in materia di aborto e controllo delle nascite, non per motivi ideologici o religiosi ma per una fredda ragione di Stato.

A rendere questa trasformazione ancora più inevitabile sarebbe il rapporto tra perdite umane e sostenibilità sociale. In una società demograficamente robusta, le perdite di guerra – morti, mutilati, invalidi gravi – sono assorbite da un sistema che ha riserve biologiche e capacità economiche. Ma in una società in declino demografico, ogni caduto rappresenta una perdita irrecuperabile, e ogni invalido permanente è un peso crescente per un sistema di welfare già sotto stress. La guerra moderna non produce solo morti: produce una massa crescente di feriti, amputati, uomini e donne invalidati fisicamente o mentalmente, bisognosi di cure per decenni. Se a fronte di ciò la natalità rimane bassa, il rapporto tra chi ha bisogno di assistenza e chi può fornirla diventa insostenibile.

Questa sproporzione porta a un rischio concreto: la delegittimazione stessa dello Stato sociale. L’assistenza agli invalidi di guerra, demograficamente vitale, diverrebbe impossibile. Senza nuove generazioni numerose, le pensioni, l’assistenza sanitaria e la riabilitazione diventano insostenibili. Non è escluso un ritorno alle modalità che in Europa all’inizio dell’età moderna relegavano l’assistenza degli invalidi o non autosufficienti al buon cuore di associazioni religiose o a famiglie non che non avevano problemi economici. La pressione fiscale aumenterebbe le tensioni sociali in modo crescente, e lo Stato, da garante dei diritti, rischierebbe di trasformarsi in amministratore di scarsità. Il discorso pubblico potrebbe allora mutare dalla difesa delle libertà individuali alla richiesta di responsabilità riproduttiva. Non per etica, ma per sopravvivenza.

In parallelo, si profilerebbe un'altra ridefinizione sociale: la questione transgender, oggi al centro del dibattito sui diritti e sull’identità personale, potrebbe essere riconsiderata alla luce delle nuove priorità belliche. In uno Stato mobilitato alla guerra e alla sopravvivenza collettiva, ogni corpo viene interpretato per la sua funzione: maschile per combattere, femminile per generare. Lo dico senza motivazioni né etiche né religiose, ma uno dei motivi fondamentali - certamente non il solo - per cui le donne non sono state mai inviate nella loro gran parte in guerra è che la morte di una donna è molto più grave in guerra della morte di un uomo e le motivazioni sono chiare a tutti. Le transizioni di genere, la neutralizzazione della differenza sessuata biologica, la rimozione chirurgica e ormonale della fertilità, non sarebbero più tollerate come libera espressione dell’identità, ma verrebbero percepite – e forse stigmatizzate – come atti di sottrazione dal compito biologico e politico della riproduzione o della difesa armata. 

Questo stesso ragionamento si estenderebbe a tutta la cultura LGBTQ+. In un contesto di guerra permanente, in cui la priorità strategica è la disponibilità di corpi fertili e combattenti, le forme di identità e comportamento sessuale che si pongono al di fuori della logica binaria riproduttiva verrebbero viste come strutturalmente avverse. Non per motivi morali o religiosi, ma per un calcolo politico: tutto ciò che riduce la capacità di produrre nuova popolazione utile allo Stato diventa oggettivamente sospetto. La cultura LGBTQ+, nel suo complesso, potrebbe venire percepita come una cultura "non riproduttiva", e quindi potenzialmente disfunzionale al fabbisogno strategico della società bellica. Non escluderei che la cultura LGBTQ+ venisse vista come un modo con cui il nemico insidia le forze dello Stato.

Tutto questo, ripeto, non avverrebbe necessariamente con retoriche religiose, ma con un linguaggio amministrativo, biopolitico, emergenziale. In una società orientata al conflitto, ogni scelta che indebolisce la capacità di riprodurre corpi disponibili alla guerra o alla produzione verrebbe sospettata, marginalizzata o repressa. Il soggetto transgender, come un tempo lo era l’omosessuale o il pacifista, rischierebbe di essere rappresentato come "non cooperante", in quanto al di fuori dei binari funzionali al sistema: uomo-soldato, donna-madre.

Una guerra su larga scala in Europa o su scala globale produrrebbe una rottura culturale irreversibile: la cultura libertaria dell’autodeterminazione individuale, del pluralismo sessuale e delle scelte non riproduttive verrebbe inevitabilmente ridimensionata. Il primato della libertà verrebbe subordinato alla logica della sopravvivenza collettiva. I leader occidentali, pur essendone consapevoli, evitano accuratamente di esprimere queste preoccupazioni in modo esplicito, temendo l’immediata esclusione dall’agone politico con l’accusa di omofobia o discriminazione sessuale. Si tratta di un tabù politico: la verità strategica non può essere detta, perché incompatibile con il linguaggio ufficiale dei diritti. Ma, nei fatti, molti governi già adottano misure di tipo natalista e restrittivo, pur senza dichiararne pubblicamente i motivi reali.

Saporetti, nel suo libro, tratteggia una prospettiva radicale in cui l’umanità potrebbe scegliere di estinguersi in modo razionale. Ma il presente sembra offrire un contro-esempio. Non è la razionalità a dominare il quadro globale, ma il ritorno delle rivalità dure, dell’amico/nemico, dell’espansione militare e tecnologica come criterio di sopravvivenza statale. In tale contesto, l’utopia negativa di “abolire le nascite” si scontra con il realismo crudo della necessità di riprodursi.

Non a caso, anche nei regimi meno liberali, il ritorno della retorica natalista è già realtà. Dall’Ungheria di Orbán alla Russia di Putin, si moltiplicano gli incentivi alla natalità, ma anche le restrizioni all’aborto e le campagne contro “l’ideologia gender”. Non per spirito religioso: per volontà di potenza. Nei prossimi anni, anche le società occidentali potrebbero essere costrette a scegliere se difendere la libertà dell’individuo a non procreare o a non conformarsi al proprio sesso biologico, o piegarsi a una visione produttivista e binaria dell’umano. In caso di guerra, la scelta potrebbe non essere più individuale.

Chiudo dicendo che anche le grandi religioni hanno percepito questa realtà incombente e si stanno attrezzando a interpretarla dal loro punto di vista di trascendenza. Non è un caso che nel Febbraio 2022, quando la Russia si mosse contro l’Ucraina, in un’omelia tenuta nella cattedrale di Mosca il primate della Chiesa ortodossa russa Kirill I disse queste parole che è il mondo LGBT+ non colse adeguatamente: “questa guerra e anche contro il mondo gender”.

21/06/2025 | Copyleft © Tutto il materiale è liberamente riproducibile ed è richiesta soltanto la menzione della fonte.

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L'Autore

Orazio Di Mauro
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