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Grecia: comunque vada sarà un disastro

L’unico accordo possibile all’interno dell’Ue non può che riflettere i rapporti di forza tra le classi, che oggi significa compromettere le condizioni di vita della grande massa della popolazione greca, isolata e dunque incapace ad affrontare le sfide e le conseguenze derivanti dall’abbandono dell’Unione o anche solo della sua moneta.


Grecia: comunque vada sarà un disastro

L’unico accordo possibile all’interno dell’Ue non può che riflettere i rapporti di forza tra le classi, che oggi significa compromettere le condizioni di vita della grande massa della popolazione greca, isolata e dunque incapace ad affrontare le sfide e le conseguenze derivanti dall’abbandono dell’Unione o anche solo della sua moneta.


di Alessandro Bartoloni

Quando sabato 27 giugno il primo ministro greco Alexis Tsipras annuncia l’intenzione di chiedere al popolo greco di esprimersi sulla proposta di accordo ricevuta dai creditori esteri, per un attimo il nastro della storia è sembrato riavvolgersi. Era il 31 ottobre del 2011 quando il primo ministro Giórgos Andréas Papandréou proponeva analoga consultazione riguardo il secondo programma di aggiustamento economico negoziato con la Troika: macelleria sociale in cambio di un taglio al debito pubblico di Atene. Ma da allora molte cose sono cambiate. In quasi quattro anni il popolo greco ha visto peggiorare la propria condizione esistenziale sotto tutti i punti di vista. Nel 2008 la disoccupazione era al 7,7 per cento, tre anni dopo era salita di dieci punti percentuali e oggi è al 27,5. I salari minimi, al netto della variazione dei prezzi, che nel 2009 erano di 5,9 euro l’ora oggi sono di 4,3 (nel 2011 erano ancora di 5,6 euro l’ora). Tredicesime e quattordicesime sono state brutalmente tagliate quando non addirittura abolite. Le tasse sono aumentate, incluse le tre aliquote Iva (passate rispettivamente dal 4,5 al 6,5 per cento, dal 9 al 13 per cento e dal 19 al 23 per cento). La spesa pensionistica è diminuita del 12 per cento rispetto al 2012, l’età di congedo dal lavoro aumentata e indicizzata all’aspettativa di vita. I diritti dei lavoratori compressi e i contratti collettivi nazionali aboliti.

Diversamente è andata per i grandi finanzieri. Con la crisi la Grecia è stata ancora di più marginalizzata, grazie ad una diminuzione del Pil di circa il 23 per cento e alla crescente svalutazione del capitale e delle proprietà immobiliari. Nel 2008, ad esempio, gli investimenti contribuivano al 19,3 per cento del Pil, nel 2013, ultimo dato disponibile, solo al 11,2 mentre i prezzi di uffici e appartamenti sono crollati del quaranta per cento. Terre, palazzi, industrie, servizi e infrastrutture dello stato, infine, svenduti attraverso un fondo (Hellenic republic asset development fund) appositamente creato “per limitare l’ingerenza del governo nel processo di privatizzazione”. A reggere i cordoni della borsa, poi, non sono più le banche (in larga parte straniere) bensì i governi che le ospitano e le istituzioni internazionali che le assistono. Con la crisi internazionale - il deterioramento della già fragile economia greca, l’emersione delle frodi contabili ad opera dei precedenti governi e la speculazione sul debito pubblico - i grandi creditori privati diventano ansiosi di “rientrare” per mettersi al riparo dalla sempre più probabile bancarotta dello stato e dell’economia ellenica. Oggi, grazie ai circa 250 miliardi di “aiuti” varati tra il 2010 e il 2011 il debito è stato “ristrutturato” e quasi del tutto traghettato in mano ai governi dell’eurozona e al fondo Esfm (62%), al Fondo monetario internazionale (10%), alla Bce (8%), con i privati, soprattutto banche greche, che ne detengono il 17%. Per questo, oggi, la Grecia non costituisce più un rischio sistemico, come amano dire Draghi e la Merkel. Così, quel referendum che nel 2011 non si doveva fare, con Tsipras ha potuto essere finalmente celebrato. Tanto a perdere sarà comunque il popolo greco.

Il risultato, malgrado il terrorismo dei governi esteri, delle istituzioni europee e delle grandi reti di dis-informazione, è netto. Il 61,3 per cento dei voti validi dice NO alle proposte dei creditori. Ma solo il 36,1 per cento degli aventi diritto si esprime in questo senso, perché a vincere sono ancora una volta gli astenuti. Il 37,5 per cento dei greci, infatti, decide di disertare le urne. Un dato praticamente identico a quello delle legislative del giugno 2012 e leggermente superiore a quello registrato nelle elezioni che hanno sancito la storica vittoria di Syriza nel gennaio 2015. Con i voti nulli che arrivano a toccare quota 5,8% anche per il boicottaggio da parte del Partito comunista greco, KKE. Segno che per un’ampia fetta della popolazione non sarà il risultato di questa consultazione a migliorare la propria condizione esistenziale.

D’altronde, come potrebbe essere altrimenti?

Il paese è sempre più economicamente marginale e dipendente dai capricci della grande finanza internazionale. Da gennaio è investito da una nuova, massiccia, fuga di capitali che obbliga le banche nazionali a ricorrere alla liquidità di emergenza erogata dalla Bce, pena l’arresto del sistema dei pagamenti. Ciò rivela l’impossibilità di finanziarsi autonomamente attraverso il mercato interbancario e per tanto una vulnerabilità tale da non permettere al capitalismo ellenico di poter sopravvivere in quanto tale se la Bce dovesse chiudere i rubinetti. Tutto questo Draghi lo sa bene tanto che innalzando le garanzie necessarie per continuare a fornire questa liquidità obbliga il governo greco ad affrettare la resa.

L’alternativa sarebbe quella di affrancarsi dalla moneta unica e dall’Ue ma la concreta gestione della politica estera ed economica in questi mesi dimostrano come questa opzione sia impraticabile e impraticata, per l’assenza delle necessarie condizioni interne ed internazionali. Per quanto riguarda queste ultime, da quando è al governo Tsipras ha affermato che le sanzioni europee alla Russia sono ipocrite, il presidente russo Putin ha ricambiato invitando la Grecia a diventare il sesto membro della New development bank, la banca di sviluppo dei Brics. C’è poi l’intesa preliminare sul gasdotto Turkish stream, la via meridionale che porterà il gas russo in Europa. Ma nessuno spiraglio per ottenere l’assistenza necessaria per rifiutare le condizioni imposte dai creditori senza subirne la vendetta, dal momento che uno sganciamento dall’euro senza liberarsi dalla libera circolazione dei capitali e delle merci, dall’indipendenza della banca centrale, dai divieti posti agli investimenti e agli interventi pubblici per ri-creare l’industria nazionale, dalla protezione della Nato, è puro non senso, anche dal punto di vista del capitale.

Per quanto riguarda le condizioni interne, la tattica della “ambiguità creativa” ha avuto come unico risultato quello di gonfiare la bolla politica di Syriza, proprio mentre le proposte che in questi mesi il governo portava all’attenzione dei creditori rappresentavano un progressivo slittamento a destra del già contraddittorio programma di Salonicco su cui era stata costruita la vittoria elettorale. La promessa di restare nell’Ue e nell’eurozona ponendo fine all’austerità attraverso investimenti e una redistribuzione un po’ meno squilibrata tra le diverse classi sociali degli oneri e degli onori derivanti dalla crisi si poggiava, infatti, su un unico architrave, quello della rinegoziazione del debito.

Il governo greco sostiene che si tratta di un debito in gran parte illegale, illegittimo, odioso e pure insostenibile. Un suo alleggerimento sarebbe dunque auspicabile anche per gli stessi creditori (lo scrive anche il Fmi in un documento opportunamente desecretato durante la campagna referendaria). Se però si guarda alla ristrutturazione operata a fine 2011 e ai suoi costi sociali, è legittimo qualche sospetto sulla reale utilità di tale operazione. Se non altro per il fatto che oggi il livello del debito rispetto al Pil è tornato com’era prima della ristrutturazione compiuta (oltre 170 per cento), malgrado i circa 250 miliardi ricevuti dal 2010 ad oggi (impiegati per il 90% in favore dei creditori). All’epoca della ristrutturazione, poi, i privati hanno potuto convertire i titoli in loro possesso giovandosi delle garanzie della Bce, dei governi europei, del Fmi, dunque limitando i danni (circa 50 per cento) rispetto a quanto sarebbe loro accaduto se si fossero affidati all’azione delle sole forze di mercato tanto idolatrate. Inoltre i cento miliardi di debito pubblico che nel febbraio 2012 hanno rimpiazzato i 206 oggetto della ristrutturazione sono stati posti sotto l’egida di Sua Maestà britannica [1] . Un dettaglio non da poco quando si parla di ritorno alla Dracma. All’epoca a pagare questa ristrutturazione furono i lavoratori e le classi popolari per mezzo delle misure contenute nel quinto pacchetto di riforme varato dal governo Papandréou. Oggi la situazione sembra non essere molto diversa.

Già nel documento di 47 pagine presentato a fine maggio, ad esempio, si prometteva l’accrescimento dell’avanzo primario per i prossimi anni (vale a dire entrate fiscali maggiori delle spese escluse quelle relative al pagamento degli interessi sul debito), di privatizzare porti, tredici grandi aeroporti (tra cui quello di Atene) e un numero imprecisato di piccoli aeroporti, la rete di trasporto del gas, le autostrade, le ferrovie l’industria del gioco d’azzardo, isole e palazzi, il tutto a fronte di incassi stimati in 3 miliardi nel 2015-2016, 2 miliardi nei successivi tre anni e altri 10,8 per gli anni a seguire. Inoltre, il governo si impegnava ad innalzare a 62 anni l’età per il pre-pensionamento e di sospendere per un solo anno l’implementazione della riforma delle pensioni varata nel 2010. Di contro, la redistribuzione dei benefici e degli oneri della crisi doveva avvenire attraverso il ripristino dei contratti collettivi, il graduale innalzamento dei salari minimi legali nel settore privato per tornare ai livelli del 2010, una moratoria sulla vendita delle case dei morosi particolarmente bisognosi, la maggior tassazione sui beni di lusso, il maggior contributo di solidarietà per i redditi alti, l’imposta una-tantum sui profitti, la lotta all’evasione ed elusione fiscale. Oltre, ovviamente, ad un non meglio specificato programma di investimenti finanziato coi soldi della Ue.

Troppo per i creditori, che a valle del referendum, chiedono e ottengono la testa del ministro dell’economia, Yanis Varoufakis - reo di aver minacciato il ricorso ai pagherò e alla Corte di Giustizia europea per provare ad aggirare il problema della liquidità - e dettano la nuova intesa facendo circolare già il 26 giugno lo schema e i contenuti che il governo ellenico non può che limitarsi ad infiocchettare. Così si arriva alla proposta di compromesso di giovedì 9 luglio. Un brusco risveglio per quanti credono che un’altra Europa, con Tsipras, sia possibile. Come chiesto dai creditori, si inaspriscono le misure draconiane già proposte, ad esempio aumentando l’avanzo primario promesso per gli anni 2015-2017, eliminando le agevolazioni Iva per le isole, innalzando l’aliquota per i beni di prima necessità, incrementando i beni pubblici da alienare. Si mette in discussione il ritorno ai contratti collettivi vincolandolo al placet dei creditori e si abbandona ogni velleità di sospendere l’implementazione della riforma pensionistica del 2010 o di sostegno a chi non riesce a pagare mutuo o affitto. Qualche contentino rimane (es. le tasse sul lusso, l’innalzamento della tassazione sulle imprese, la lotta all’evasione e all’elusione) ma nel complesso si assiste non ad un semplice arretramento bensì ad una svolta che chiarifica il ruolo di Syriza quale partito coerentemente socialdemocratico. Che invece di maturare in seno al popolo la preparazione materiale e la coscienza necessarie ad affrontare le implicazioni e le conseguenze del rigetto del giogo imperialistico che lo mantiene in queste condizioni, ne svende il futuro in cambio di una illusione: quella che la cancellazione di una parte del debito possa bastare per risollevare le sorti dei lavoratori.

Note

[1] Per i dettagli si veda la Banca dei regolamenti internazionale

12/07/2015 | Copyleft © Tutto il materiale è liberamente riproducibile ed è richiesta soltanto la menzione della fonte.

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