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No War But The Class War

A 25 anni dalla prima Guerra del Golfo è più che mai indispensabile ricostruire un movimento di massa per contrastare ogni guerra fratricida fra i popoli.


No War But The Class War

A 25 anni dalla prima Guerra del Golfo, che segna la ripresa della guerra calda dopo la fine della guerra fredda, è più che mai indispensabile ricostruire un movimento di massa per contrastare ogni guerra fratricida fra i popoli. Solo così sarà possibile rilanciare la parola d’ordine: lavoratori di tutto il mondo unitevi, per lottare contro la crisi di un modo di produzione che sta facendo precipitare l’umanità in una nuova epoca di barbarie.

di Renato Caputo

25 anni fa, con la dissoluzione dell’Urss, si apriva una nuova epoca storica, caratterizzata dalla restaurazione liberale e liberista, in cui purtroppo ancora oggi sopravviviamo. L’euforia per la conclusione inaspettatamente rapida e indolore di quel terribile – per le classi dominanti – secolo breve, inauguratosi con la Rivoluzione di Ottobre, fece perdere il senso della realtà. I corifei e gli ideologi del nuovo ordine sancirono non solo la fine delle rivoluzioni, delle dittature, ma altresì delle guerre, della legge del valore, della crisi, della classe operaia, della lotta di classe, delle differenze di classe, delle ideologie, della verità e, persino, della stessa storia.

Sfruttando i rapporti di forza quanto mai favorevoli, prodotti da una vittoria realizzata essenzialmente sul piano delle sovrastrutture, gli adepti del nuovo pensiero unico liberal-liberista, spesso con la furia dei neo-convertiti, intendevano sancire la fine dello stesso principio speranza in un mondo diverso, migliore, più giusto e razionale, in nome della fedeltà alla terra, dal momento che ogni assalto al cielo non solo peccava di utopismo, ma avrebbe finito con il peggiorare le cose, aprendo la strada a regimi totalitari.

A difendere il nuovo ordine della restaurazione doveva intervenire una nuova “Santa Alleanza” definita, in modo altrettanto pomposo, la comunità internazionale, che avrebbe dovuto reprimere ogni resistenza con operazioni di polizia internazionale e con interventi chirurgici, resi possibili dalle bombe intelligenti – strumento cardine delle nuove guerre definite perciò, nella neolingua liberale, umanitarie – necessarie a esportare la democrazia.

Tanto più che mentre la vittoria sul piano sovrastrutturale era piena – ormai da anni gli “intellettuali di sinistra” avevano abbandonato lo studio di Hegel, Marx e Gramsci, per dedicarsi ad autori ultra reazionari quali Nietzsche, Heidegger e Schmitt – il successo dal punto di vista strutturale non era altrettanto certo. La nuova religione degli apologeti del privato – dal momento che il pubblico sarebbe in quanto tale fonte di sprechi, corruzione e burocrazia – si affermava in una fase in cui la crisi di sovrapproduzione, affacciatasi già nella seconda metà degli anni sessanta negli Usa, stava raggiungendo un nuovo picco, espandendosi in tutti i paesi a capitalismo avanzato. I tassi di crescita medi dell’8 per cento dei Trenta gloriosi erano ormai un ricordo del passato, per economie che dalla fine dagli anni settanta crescevano mediamente del 4 per cento, tanto che si cominciò a parlare di “stagnazione secolare” per non dover fare i conti con il fantasma della caduta tendenziale del tasso del profitto.

Venuto meno l’impero del male bisognava, dunque, individuare un nuovo nemico globale, che giustificasse la nuova santa alleanza, ossia le spese militari a favore della comunità internazionale che doveva – per preservare il nuovo ordine – trasferire quote crescenti di risorse pubbliche, finanziate essenzialmente con la tassazione del lavoro salariato, a imprese private. Dopo l’Anschluss, in funzione subordinata, del “secondo mondo”, non restava che rivolgersi contro il terzo mondo, ossia contro quello che restava del grandioso movimento anticoloniale e antimperialista che aveva animato il secolo breve.

Certo l’affermazione del pensiero unico della restaurazione liberista aveva messo la sordina alle rivendicazioni del terzo mondo, costringendolo sulla difensiva, senonché i fatti hanno la testa dura, in quanto la politica coloniale occidentale in Palestina metteva in discussione la sicurezza e l’autonomia dell’intero mondo arabo, realmente indipendente dalle politiche neocolonialiste.

Si trattava, dunque, di sfruttare la congiuntura favorevole per infliggere un colpo decisivo a ciò che restava del movimento anticolonialista e antimperialista, colpendolo nel suo punto più avanzato: l’antisionismo. L’occasione fu offerta da Saddam Hussein, impegnato da ormai un decennio in una guerra fratricida con l’Iran, resa possibile dai finanziamenti dei regimi teocratici del Golfo Persico – caposaldo della politica neocoloniale in Medio oriente – e dalle armi occidentali. Non riuscendo più a giustificare una guerra, che appariva ormai senza sbocchi, e a corto di risorse economiche – visto che i finanziatori del Golfo cominciavano a restringere i crediti – al dittatore iracheno fu fatto credere che la “comunità internazionale” non sarebbe intervenuta se avesse rivolto le proprie armi contro il Kuwait – Stato fantoccio creato dalla potenza militare britannica per indebolire l’Iraq, privandolo quasi completamente di uno sbocco sul Golfo Persico.

Non appena Saddam cadde nel tranello e reagì invadendo militarmente il Kuwait, accusato di sottrargli con l’inganno risorse petrolifere in una zona contesa, la potentissima macchina mediatica del pensiero unico dominante si pose in azione dipingendo il dittatore iracheno – sino ad allora coperto e finanziato per combattere l’Iran post-rivoluzionario – come un novello Hitler.

Venuto meno l’equilibrio del terrore e il mondo bipolare, i paesi imperialisti ebbero facilmente ragione del loro ingenuo avversario, rilanciando temporaneamente la loro economia, grazie alla produzione militare in larga parte pagata dalle teocrazie del Golfo persico e dal Giappone, che ottenne così la possibilità di riarmarsi, superando il divieto imposto a seguito dell’occupazione statunitense.

Il successo fu tale da riprodurre tale operazione – un’aggressione imperialista condotta con metodi terroristici, con bombardamenti volti a terrorizzare la popolazione civile e senza alcun rispetto del diritto internazionale, visto che la contro parte non era riconosciuta, venendo considerata uno Stato canaglia – su scala globale. L’obiettivo successivo sarà, non a caso, un altro dei paesi guida del movimento dei non Allineati, ossia la Federazione Jugoslava, che sarà cancellata dalla faccia della terra, a ulteriore dimostrazione della nuova logica imposta dal pensiero unico: chi non è con me è contro di me.

È poco utile ripercorrere questa spaventosa scia di sangue, volta a imporre il nuovo ordine della restaurazione su scala globale fino alla attuale guerra in Siria, essendo più urgente individuare degli strumenti atti ad arrestarla. A questo scopo, oltre all’ottimismo della volontà, che ci porterà in piazza il 16 gennaio, è indispensabile il pessimismo della ragione. Appare evidente che, dal punto di vista della lotta di classe al livello delle idee, i rapporti di forza sono nettamente squilibrati. Gli anticorpi che portavano ancora componenti non minoritarie delle masse popolari a mobilitarsi contro la prima guerra del Golfo sono ormai significativamente ridotti e debilitati. Tanto più che attualmente non si possono neppure sfruttare le contraddizioni inter-imperialiste, che favorirono in Europa occidentale la mobilitazione durante la seconda Guerra del Golfo.

Anzi la battaglia ideologica ha visto prevalere il pensiero unico – contro il movimento internazionale che sosteneva che un altro mondo, oltre quello della restaurazione liberista, è possibile – sfruttando proprio due conseguenze delle guerre scatenate: l’esodo di massa dai luoghi del conflitto e la violenza che la violenza necessariamente riproduce, ossia il terrorismo.

Private della coscienza di classe e di un ideale razionale in cui sperare e per cui lottare, le masse sono state nuovamente ridotte – in questo ritorno al passato imposto dalla restaurazione anti-moderna – alla plebe “sempre all’opra china”. Ormai private degli anticorpi che gli consentivano di resistere all’ideologia dominante – anche per il tradimento dei chierici, ossia di quelli “intellettuali tradizionali” rientrati nei ranghi delle classi elevate di provenienza – le masse sono state coinvolte nella guerra fra poveri, funzionale al potere dominante, per portare avanti in modo unilaterale la lotta di classe.

Il nemico da combattere è stato così individuato, su istigazione del pensiero unico dominante, nel subalterno del terzo mondo, costretto dalle continue e sempre più violente aggressioni imperialiste a emigrare o a combattere. Nel primo caso proprio le campagne xenofobe finanziate dalla destra rendono il lavoratore del terzo mondo clandestino, costretto, dunque, per sopravvivere ad accettare stipendi da fame e condizioni di sfruttamento disumane. In tal modo si sta artificialmente ricreando una classe di nuovi schiavi, privi persino dei diritti di cittadinanza, funzionale a restaurare al posto del proletariato moderno, classe potenzialmente rivoluzionaria, la plebe dell’antichità.

Nel secondo caso – essendo la guerra imperialista una guerra asimmetrica, condotta secondo la logica banditesca delle guerre coloniali – la lotta è condotta dai popoli del terzo mondo con mezzi sempre meno convenzionali. Non essendo una guerra fra Stati, considerati su un piano di eguaglianza dal diritto internazionale – mancando ogni forma di riconoscimento da parte delle potenze imperialiste dei loro nemici – la resistenza segue sempre più spesso la logica delle Jacquerie, ovvero delle rivolte servili. Il cieco terrore scatenato dalla guerra imperialista produce e riproduce un terrore altrettanto cieco e contrario. Tanto più che la guerra ideologica contro ogni tentativo di superare in senso progressivo il capitalismo, bollato in quanto tale come utopista e totalitario, ha favorito la restaurazione di visioni del mondo reazionarie, anti moderne, legate a visioni del mondo mitologico-religiose.

Dunque per rilanciare un movimento di massa contro la guerra imperialista è indispensabile mostrare come da una parte essa sia la principale causa dell’emigrazione e del terrorismo, dall’altra come essa comporti ulteriori tagli alle spese sociali e agli spazi di democrazia. La guerra porta con sé la logica – questa sì totalitaria – dello Stato di eccezione, foriera di soluzioni bonapartiste che favoriscono il passaggio da uno stato di diritto a uno stato di polizia.

05/01/2016 | Copyleft © Tutto il materiale è liberamente riproducibile ed è richiesta soltanto la menzione della fonte.

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L'Autore

Renato Caputo
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