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La Nakba dei bambini palestinesi

L’infanzia come futuro da distruggere: le ripercussioni sociali del regime di apartheid israeliano.


La Nakba dei bambini palestinesi

Sento delle urla che squarciano il cielo
comincio a correre per non sentire
un bimbo a cui hanno oscurato l’orizzonte
nonostante il silenzio sento la sua eco! (…)
Bimbi senza sogni, senza poesia
la morte l’unica certezza su questa via
padri umiliati senza volto se non i solchi a testimoniare la tragedia.
In una piazza mi fermo (…) e grido alla folla:
alzatevi uomini, non arrendiamoci alla violenza
il destino dei nostri figli è il frutto del nostro agire.
Non lasciamoli crescere assassini
del loro e del nostro avvenire!
(Mahmoud Suboh)

L’ennesimo bambino palestinese ucciso da parte dell’esercito israeliano a Gaza ci impone per l'ennesima volta di fare i conti con l’infinita Nakba (dall’arabo “catastrofe”) vissuta dal popolo palestinese e col suo quotidiano bollettino di morti violente, persecuzioni, arresti arbitrari, reiterate violazioni degli universali diritti dell’uomo da parte dello Stato ebraico che, nei confronti dei palestinesi, ha messo in atto da più di sessant’anni un vero e proprio regime di segregazione razziale, etnica e religiosa.

Per rompere il muro del silenzio, la Comunità Palestinese in Sardegna e l’Unione delle Comunità Palestinesi in Europa hanno organizzato lo scorso 11 aprile un incontro-dibattito presso l'auditorium della biblioteca “Sebastiano Satta” di Nuoro, per “combattere l’idea della Palestina come causa persa che non interessa a nessuno o viene manipolata anche attraverso mistificazioni giornalistiche”, secondo quanto dichiarato dal dottor Nabeel Khair, rappresentante dell’Autorità Nazionale Palestinese in Sardegna.

Il convegno ha visto la preziosa partecipazione della dottoressa Eman Taha Ali Adawy, psicologa esperta dei problemi dell’infanzia, chiamata ad esporre la questione palestinese dal punto di vista della privazione della libertà, dei diritti e della giustizia per i minori, con la loro conseguente sofferenza inserita in un contesto di apartheid a cavallo tra la storia, la drammatica vita quotidiana degli oppressi e la speranza per l’avvenire.

Infatti, come dichiarato anche da Betty McCollum, attivista politico e membro della Camera dei Rappresentanti per lo Stato del Minnesota, negli USA, “i bambini palestinesi hanno bisogno di crescere con dignità, vedendo riconosciuti i diritti umani ed un futuro libero dalla repressione”; anche lei, come molti altri esponenti della politica, delle scienze, della cultura e delle arti, si è fatta promotrice della campagna in difesa dei diritti umani affinché Israele cessi di esercitare l’occupazione militare e la detenzione dei minori palestinesi.

Amnesty International, nel suo rapporto intitolato “Affamati di giustizia: palestinesi detenuti senza processo da Israele”, chiede la fine della pratica di detenzione amministrativa, una delle più inique, in quanto prevede l’arresto ed il mantenimento in custodia senza accusa né processo, ma solo sulla base di ordinanze militari rinnovabili a tempo indeterminato [1].

La dottoressa Adawy, esordendo significativamente con la frase “la pace sia con voi”, ha spiegato il significato del suo lavoro di responsabile della struttura che si occupa della cura delle dipendenze, anch’esse strettamente connesse all’occupazione israeliana: “uno dei malcelati scopi della repressione e degli arresti è il coinvolgimento dei giovani nelle defezioni e nella droga. Infatti, in un contesto fortemente politicizzato come quello del conflitto israelo-palestinese, anche lo spaccio diviene un’arma a favore degli occupanti. Soprattutto nelle carceri israeliane, si registra quanto l’occupazione colpisca particolarmente i bambini col mero scopo di distruggerli e di annientare, con loro, il futuro di un intero popolo. Minando la loro integrità psico-fisica mediante violenze verbali, fisiche e sessuali e soprusi quali la privazione del sonno e del cibo, gli interrogatori continui e le confessioni estorte sotto tortura con la controfirma di documenti scritti in ebraico, lingua a loro sconosciuta, ed instillando in loro terrore e paura, si violano tutti i diritti umani e le Convenzioni Internazionali sui diritti dell’infanzia”.

Il baricentro del conflitto è completamente spostato in favore degli israeliani che, come sottolineato dal dottor Khair, “si comportano come fossero al di sopra della legge, senza rispondere ad alcuna autorità superiore, trasformando di fatto il loro dominio in delirio di onnipotenza anche mediante una sistematica campagna di disumanizzazione dei reali oppressi, che bypassa ogni forma di condanna internazionale e tentativo di inchiesta per crimini di guerra e contro l’umanità”.

Per chi vive in un regime di apartheid, però, la prigionia è anche a cielo aperto: attraverso violente pratiche quali l’irruzione nelle scuole e nelle case, i bombardamenti su qualsiasi obiettivo civile, l’uso continuo ed ingiustificato di armi e lacrimogeni, i posti di blocco e le perquisizioni, così come gli arresti arbitrari - compiuti oltretutto fuori dal territorio di giurisdizione israeliana per mezzo di accordi che consentono all’esercito di occupazione di entrare in Palestina senza alcun intervento da parte della polizia locale - , i bambini, come sottolineato dalla dottoressa Ali Adawy, “sviluppano un blocco psicologico che crea danni psicofisici permanenti. I minori sotto occupazione non hanno la possibilità di avere una crescita normale, in quanto tendono a regredire fino allo sviluppo di ritardi mentali e culturali. Questi ultimi, sono prevalentemente dovuti all’isolamento ed alla depressione legata agli effetti del regime su loro stessi, le loro famiglie e tutto il loro mondo. Quando sono costretti agli arresti domiciliari non comprendendone, ovviamente, le ragioni, tendono addirittura ad identificare i loro genitori come carcerieri, nonostante questi ultimi li stiano in realtà tutelando, salvando loro la vita”.

Una volta usciti dalle prigioni, laddove erano in cella con gli adulti, delinquenti comuni, non avendo spesso avuto neanche la possibilità di ricevere le visite dei parenti, costretti a sottoporsi ai controlli ai checkpoint per arrivare in territorio israeliano, il loro paese li festeggia come eroi perché sopravvissuti ma, in realtà, continua la dottoressa Adawy, “i prigionieri hanno subito indicibili violenze ed hanno perciò bisogno di un aiuto quotidiano per elaborare gli effetti sulla vita sociale e relazionale che si protrarranno per tutta la loro esistenza, comparendo anche a distanza di anni. Alcuni di loro, oltre al senso d’inferiorità ed al disturbo post-traumatico da stress, subiscono anche lo stigma sociale dovuto al sospetto dei loro coetanei, i quali temono tradimenti e defezioni. Viene così alimentata la piaga della dispersione scolastica, con l’abbandono del percorso formativo in favore di lavori manuali che, però, li ridurranno al mero ruolo di schiavi a causa della loro stessa mancanza di istruzione. Per queste ragioni sarebbero necessarie strutture di recupero che offrano terapie familiari e comunitarie, allo scopo di costruire un rapporto fiduciario con gli utenti nel corso delle numerose sedute necessarie per affrontare le fasi del dolore al quale sono condannati senza colpe”.

Tra i dati forniti da Nabeel Khair a sostegno della denuncia pubblica, si annoverano i 12.000 arresti arbitrari di minori compiuti dai sionisti tra il 2000 ed il 2015 e l’ondata di sdegno per l’arresto di un bambino di soli 3 anni accusato di lancio di pietre, azione qualificata come atto di terrorismo dallo Stato dotato di uno degli eserciti più forti al mondo.

La detenzione amministrativa, senza capi d’imputazione né processi ufficiali, segue a dei fermi anche casuali: spesso, infatti, si concretizzano in blitz notturni col rastrellamento di interi quartieri e campi profughi, indipendentemente dalla partecipazione dei civili alle manifestazioni di lotta per la liberazione della Palestina.

Come rimarcato dal dottor Khair, “nonostante le inconsistenti reazioni della Comunità Internazionale, che continua a sopportare la subalternità politica ed economica della Palestina al dominio israeliano, le organizzazioni a sostegno di questa martoriata Regione non vogliono mettere in discussione il diritto all’esistenza dello Stato di Israele, bensì i confini violati dagli insediamenti dichiarati illegali con sentenze internazionali, le sistematiche violazioni dei diritti umani e la teocraticità sionista che si serve della religione come alibi per perpetrare le più crudeli nefandezze nei confronti dei civili inermi”.

Perciò, secondo la dottoressa Adawy, “risulta più che mai necessario affrontare, oltre al tema prettamente politico, quello umano legato alle sofferenze patite dai minori palestinesi, specchio del futuro dei nostri figli e dell’intera umanità”.


Note:

[1] Il rapporto "Affamati di giustizia: palestinesi detenuti senza processo da Israele" è disponibile in lingua inglese all’indirizzo http://www.amnesty.it/rapporto-detenzione-amministrativa-israele, e presso l’Ufficio stampa di Amnesty International Italia.

04/08/2018 | Copyleft © Tutto il materiale è liberamente riproducibile ed è richiesta soltanto la menzione della fonte.

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L'Autore

Eliana Catte
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