Stampa questa pagina

Il mito del lavoro agile

Approfittando della pandemia, le nuove forme di lavoro definite agili vengono introdotte sia nel settore pubblico che in quello privato. Cosa succederà?


Il mito del lavoro agile Credits: http://www.intermediachannel.it/

È indubbiamente una mossa astuta quella della borghesia la quale, approfittando dell’emergenza Coronavirus, ha introdotto senza troppi sforzi lo smartworking nella pubblica amministrazione e nel privato. Ciò è stato possibile anche grazie ad un lungo lavoro di egemonia sul mito del lavoro agile.

Molti dipendenti dello Stato, alle prese con problemi familiari dovuti alla maldestra gestione dell’emergenza, hanno voluto in molti casi dovuto accedere a questa nuova modalità di lavoro senza però, nella maggior parte dei casi, comprendere fino in fondo la grande trasformazione che essa sottende.

Molti confondono questa modalità di lavoro cosiddetta “agile” con il vecchio e mai seriamente sperimentato telelavoro cioè con la possibilità di lavorare da casa o in qualsiasi altro luogo senza alcuna altra trasformazione del rapporto di lavoro se non, appunto, la rottura del vincolo spaziale. Come si può ben capire tale pratica non è mai andata in porto perché è molto complesso valutare il tempo di lavoro e controllare i ritmi di un dipendente lontano dagli “occhi del padrone”.

Il mito del lavoro agile si è diffuso negli ultimi anni proprio a causa dell’amplificarsi dello sfruttamento che ha costretto ampie fette della popolazione a ridurre sempre di più il tempo della propria vita privata adeguandolo a quello della produzione. Dagli affetti familiari allo sviluppo della propria cultura, tutto è stato ridotto per fare spazio alla produzione e al profitto della classe dominante.

A partire dalla necessità di avere più tempo per la propria vita privata si è sviluppato il mito del lavoro agile il quale, secondo la propaganda della classe dominante, contribuirebbe ad ampliare la sfera privata inserendo il lavoro nelle porosità di quest’ultima. Purtroppo la storia ci insegna che per togliere tempo al lavoro, a parità di salario, è necessario organizzarsi e lottare e che senza lotta le classi dominanti non concedono nulla.

Il lavoro agile invece, rispetto al telelavoro, è qualitativamente molto differente perché oltre alla rottura del vincolo spaziale (il luogo di lavoro) rompe anche quello temporale nel senso che introduce il cottimo, ossia il lavoro per obiettivi.

In altri termini, come spiegato in un precedente articolo, mediante il lavoro agile, o più correttamente a cottimo, il dipendente non è tenuto a lavorare un certo numero prestabilito di ore giornaliere ma è tenuto a raggiungere l’obiettivo. Va da sé che il raggiungimento degli obiettivi, che con il tempo diverranno presumibilmente sempre più stringenti, impone tempi e ritmi di lavoro che non hanno nulla a che vedere con il miti della flessibilità e della “conciliazione vita lavoro”. Gli obiettivi saranno stabiliti unilateralmente dalla classe padronale anche perché il lavoratore, sempre più atomizzato come avviene nella gig economy, da solo non potrà più avvalersi della forza di contrattazione sindacale che solo l’unità della classe lavoratrice può dare.

In tal modo la realtà rovescerà il mito e sarà proprio la sfera privata ad essere ulteriormente ridotta e inserita nelle porosità della vita lavorativa.

Segnalo la lettura di queste inchieste sul mondo del lavoro digitale utili a farsi un’idea del numero di lavoratori coinvolti che delle prime forme di lotta sindacale:
Indagine ISTAT in audizione alla camera sui nuovi lavori digitali
Rivista CGIL dedicata alle tutele per i nuovi lavori digitali

21/03/2020 | Copyleft © Tutto il materiale è liberamente riproducibile ed è richiesta soltanto la menzione della fonte.
Credits: http://www.intermediachannel.it/

Condividi

<< Articolo precedente
Articolo successivo >>