Le innumerevoli contraddizioni del “lavoro agile”

Lo smart working nella Pa, “grazie” al covid, è un processo in fieri per comprendere il quale dobbiamo partire dalle modalità concrete della sua introduzione per poi inquadrarne il quadro di riferimento normativo e i rapporti di forza che cela.


Le innumerevoli contraddizioni del “lavoro agile”

Uno degli effetti più visibili del Covid, e in particolare dal periodo del cosiddetto lockdown del marzo 2020, è stata l’introduzione massiccia del cosiddetto smart-working in moltissimi settori della pubblica amministrazione, ma anche in una parte del lavoro privato legato all’erogazione di servizi e all’amministrazione. In questo articolo vogliamo sottolineare, in un’ottica marxista e di lotta di classe, i cambiamenti profondi, le contraddizioni, gli effetti sulla vita e sull’organizzazione politica e sindacale dei lavoratori che l’introduzione di questa modalità lavorativa sta avendo, e quella che potrà avere in un futuro prossimo.

In primo luogo dobbiamo distinguere il tele-lavoro – che ha una sua normativa stringente sui tempi e sulle prestazioni lavorative e che veniva ampiamente usata in alcuni settori tecnologicamente avanzati, già prima del 2020 – dallo smart-working (lavoro agile) il cui impiego è strettamente legato a una concezione del lavoro legata agli obiettivi e, quindi, almeno concettualmente, svincolata dal tempo e dal luogo fisico in cui i lavoratori sono chiamati a svolgere la loro prestazione. Come sempre, nelle logiche dell’evoluzione del modo di produzione capitalistico “in principio era l’azione”, quindi prima si è introdotta sempre più massicciamente – in particolare durante il covid – la modalità dello smart-working, poi, per la prima volta con il protocollo d’intesa tra governo e sindacati si è tentato di inquadrarlo normativamente. Se vogliamo capire il senso complessivo di un processo in fieri dobbiamo partire, quindi, dall’azione, e poi inquadrare, all’interno dei rapporti di forza nella società, il quadro di riferimento normativo nel quale ci si muove. 

In un primo tempo, quindi, la paura dei contagi associata al vantaggio di evitare i lunghi spostamenti per raggiungere il luogo di lavoro ha fatto apparire a una parte consistente degli stessi lavoratori lo smart-working come un beneficio, il che ha permesso alla classe dominante di eludere, di nascondere, agli occhi dei lavoratori stessi le gravi lacune nei trasporti e nella gestione complessiva dello spazio urbano presenti da anni. 

È evidente che per molti impiegati pubblici la prospettiva di lavorare da casa, evitando i rischi del contagio e l’epopea del raggiungimento fisico del posto di lavoro sia apparso inizialmente e appaia ancora come una sorta di liberazione. Con il passare del tempo, tuttavia, appaiono sempre più evidenti l’alienazione, l’aumento indiscriminato del tempo di lavoro – per cui in molti casi non esiste più la separazione tra tempo di lavoro e tempo di vita complessivo – e, cosa ben più grave, la difficoltà di concepire un’organizzazione concreta, fisica, dei lavoratori sul proprio posto di lavoro. Il dato più importante – almeno per il movimento operaio – della moderna rivoluzione industriale, ossia che la concentrazione di un numero crescente di lavoratori favorisce oggettivamente l’organizzazione del conflitto, viene in buona parte meno se i lavoratori sono separati fisicamente e produttivamente legati al semplice raggiungimento di un obiettivo personale, di una performance. In molti casi, inoltre, l’angustia delle abitazioni in cui si trova a vivere la classe lavoratrice nelle grandi città ha determinato effetti negativi sugli stessi nuclei familiari, tali per cui all’interno di un piccolo appartamento marito, moglie e figli sono costretti a lavorare e studiare con i pc sovrapponendosi fisicamente.

Bisogna sottolineare, inoltre, che all’interno della stessa classe dominante vi è un settore consistente, che ha perso quote rilevanti di mercato a causa dell’estensione, durante il lockdown, della scarsa mobilità dei lavoratori negli uffici, in particolare nel pubblico impiego. Parliamo, naturalmente, delle mense, di una parte consistente del settore della ristorazione, ma anche di tutto quel settore del commercio di merci che sono strettamente collegati alla circolazione dei lavoratori. Questi settori, sostenuti in parte dal ministro Brunetta, per ragioni comprensibili hanno tentato in tutti i modi di contenere l’estensione dello smart-working, incidendo, in parte, sugli orientamenti del governo nella modulazione dell’intesa sindacale. 

È evidente che, in quanto marxisti, non ci interessa una lotta reazionaria contro lo strumento in sé. Qualunque innovazione tecnologica che, in una società avanzata, riducesse il tempo di lavoro complessivo degli individui attraverso l’uso di strumenti tecnologici verrebbe ben accolta da noi. Trattasi invece di una modalità di lavoro che sgranella la classe lavoratrice, individualizzandola ulteriormente, che si configura concettualmente come lavoro per obiettivi – reintroducendo, di fatto, il lavoro a cottimo – e che, invece di liberare tempo e accrescere l’organizzazione concreta dei lavoratori al fine di aumentarne la capacità di autorganizzazione, ne segmenta gli individui isolandoli fisicamente. Inoltre, il lavoro agile, intensificando i ritmi di lavoro, tende a determinare una riduzione progressiva della forza lavoro impiegata e, di conseguenza un incremento dell’esercito industriale di riserva utilizzato dal capitale per accrescere ulteriormente lo sfruttamento del lavoro vivo, intensificando, congiuntamente, la crisi di sovrapproduzione del modo di produzione capitalistico.

Per queste ragioni, il nostro punto di vista intorno allo smart-working è quello di una critica decisa poiché ne cogliamo chiaramente le tendenze regressive all’interno della società capitalistica occidentale, ed è importantissima una lotta contro l’estensione generalizzata di questo strumento. È tuttavia necessario comprendere come tale strumento, per svariate ragioni, può essere ben accolto da una quantità consistente di lavoratori poiché s’inserisce nelle maglie di una serie di disfunzionalità dell’organizzazione complessiva delle società occidentali (trasporti, estensione a dismisura delle metropoli, rapporti tra centri e periferie) che fanno apparire inizialmente lo smart-working come un’innovazione. Vi è inoltre, un pezzo di economia reale – spesso di orientamento tendenzialmente reazionario – che intravede nello smart-working il pericolo della sua stessa distruzione. Tutte queste controtendenze, tuttavia, non possono assolutamente nascondere la tendenza fondamentale che vede nell’utilizzo estensivo dello smart-working uno strumento regressivo di sfruttamento ulteriore dell’intera classe lavoratrice.

 

28/01/2022 | Copyleft © Tutto il materiale è liberamente riproducibile ed è richiesta soltanto la menzione della fonte.

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L'Autore

Francesco Cori

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La città futura

“Sono partigiano, vivo, sento nelle coscienze della mia parte già pulsare l’attività della città futura che la mia parte sta costruendo. E in essa la catena sociale non pesa su pochi, in essa ogni cosa che succede non è dovuta al caso, alla fatalità, ma è intelligente opera dei cittadini. Non c’è in essa nessuno che stia alla finestra a guardare mentre i pochi si sacrificano, si svenano. Vivo, sono partigiano. Perciò odio chi non parteggia, odio gli indifferenti.”

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