La concezione marxista del salario

il capitale non vive soltanto del lavoro, signore a un tempo barbaro e grandioso, esso trascina con sé nell’abisso i cadaveri dei suoi schiavi, intere ecatombi di operai che periscono nelle crisi.


La concezione marxista del salario Credits: https://www.lacooltura.com/2017/12/capitalismo-marx-sfruttamento/

Lo sviluppo delle forze produttive porta con sé un aumento del capitale variabile anche se non in proporzione al capitale costante, cioè un aumento del monte salario complessivo su scala mondiale e generalmente anche su scala nazionale, il che non comporta il miglioramento delle condizioni di lavoro del singolo. Il crescere della popolazione lavorativa con il lavoro femminile, immigrato e la parziale riduzione della disoccupazione (che non può mai essere assoluta dal momento che la presenza di un esercito industriale di riserva è essenziale per tenere basso il prezzo della forza lavoro) è pagata dal singolo lavoratore con il peggioramento delle condizioni di lavoro: aumento dell’orario, dei ritmi, della precarietà e ricattabilità, che costituisce una diminuzione del salario percepito dal singolo.

Inoltre, tanto più la riproduzione allargata del capitale tende ad ampliarsi su scala mondiale, quanto più si può osservare come in assenza di significative resistenze dei salariati i capitalisti tenderanno progressivamente a limare le differenze salariali fra i diversi paesi del mondo verso il livello minimo, cioè il necessario indispensabile per la riproduzione della classe [1]. Dunque, ferma restando la differenziazione dovuta ai diversi gradi di sviluppo della società, agli standard di vita cui sono abituati a riprodursi le classi operaie nazionali o regionali, i diversi livelli di resistenza di classe presente vi è, comunque, la tendenza a ridurre le buste paga più ricche al livello assoluto più basso [2]. Tale tendenza è frenata da una controtendenza: il tentativo di corrompere una parte dei salariati dei paesi imperialistici o quanto meno dei loro dirigenti sindacali e politici (aristocrazia operaia) ridistribuendo una parte degli extraprofitti estorti alle classi lavoratrici dei paesi dominati, impedendo la formazione di una solidarietà internazionale fra i salariati del mondo [3].

Del resto la riproduzione su scala allargata del modo di produzione capitalistico innesca necessariamente la tendenziale caduta del saggio di profitto: le forze produttive sono costantemente sconvolte dalla necessità di un ulteriore sviluppo sotto la pressione della concorrenza, che nella fase imperialista si riproduce su scala allargata quale concorrenza fra monopoli e trust multinazionali. Ciò fa sì che: “la divisione del lavoro porta con sé necessariamente una maggiore divisione del lavoro; l’impiego di macchine un maggior impiego di macchine; il lavoro su vasta scala, un lavoro su scala ancora più vasta. (…) Per quanto potenti siano i mezzi di produzione che un capitalista mette in campo, la concorrenza generalizzerà questi mezzi di produzione, e, a partire dal momento che essa li ha generalizzati, l’unico vantaggio della maggiore produttività del suo capitale è che egli dovrà fornire al mercato per lo stesso prezzo, dieci, venti, cento volte più merci di prima” [4] e che dovrà trovare una domanda pagante per una produzione sempre più vasta per realizzare la stessa quota di profitto. Le crescenti difficoltà che incontra la riproduzione allargata del capitale favoriscono ulteriormente la concentrazione del capitale e l’aumento della composizione organica del capitale, cioè un aumento della componente costante – dei macchinari – sulla variabile e una sempre maggiore socializzazione e divisione del lavoro su scala tendenzialmente mondiale. Ne deriva uno stato strutturale di crisi che nella fase monopolistica rappresenta la regola più che l’eccezione, tanto da divenire la condizione necessaria a ogni ulteriore sviluppo della riproduzione allargata del capitale [5]. “Queste condizioni sempre più difficili della produzione si estendono ugualmente al lavoratore, in quanto parte del capitale. Egli si trova in condizioni sempre più difficili, cioè deve dare più lavoro per un salario sempre più basso, produrre di più per costi di produzione in costante diminuzione. Così il minimo di salario si traduce in un dispendio di forze maggiore, vicino al livello minimo dei piaceri della vita” [6]. La caduta tendenziale del tasso di profitto comporta una produzione su scala sempre più allargata, un impiego sempre maggiore di capitali finanziari che non fa che riprodurre su scala allargata la crisi di sovrapproduzione, aumentando “i terremoti, in cui il mondo del commercio si mantiene soltanto sacrificando agli dèi inferi una parte della ricchezza, dei prodotti e persino delle forze produttive: in una parola, nella stessa misura aumentano le crisi” [7]. Dunque tanto più si realizza il mercato mondiale quanto più esso non appare in grado di assorbire una produzione che cresce in una misura esponenziale rispetto alla domanda pagante stanti gli assetti proprietari borghesi. La possibilità di aprire nuovi mercati alla penetrazione delle merci capitaliste o di espandere gli esistenti diviene sempre più arduo in quanto ogni fase precedente della crisi ciclica ha operato in tale direzione. “Ma il capitale – come ricorda Marx – non vive soltanto del lavoro, Signore ad un tempo barbaro e grandioso, esso trascina con sé nell’abisso i cadaveri dei suoi schiavi, intere ecatombe di operai che periscono nelle crisi” [8].

Una forma peculiare di questa ecatombe, che ne occulta la realtà spalmandone gli effetti su un numero maggiore di individui per evitare contraccolpi sociali, è la flessibilità e precarietà dell’occupazione (lavori a tempo parziale, stagionale, occasionale, interinale, apprendistato, prestatore d’opera, a domicilio) che permette di impiegare la forza-lavoro a un prezzo più basso e con condizioni peggiori nei casi in cui ve ne sia bisogno, per rimandarla nel momento in cui non è più utile alla valorizzazione del capitale a ingrossare le fila dell’esercito di riserva in forma stagnante che permette di ricattare in modo permanente gli occupati. Alla flessibilizzazione dell’impiego della forza lavoro fa riscontro la flessibilità della sua retribuzione, cioè la precarietà dell’erogazione dei mezzi di sussistenza che si riproduce a livello psicologico in uno stadio di costante incertezza e dipendenza che favorisce la passivizzazione e la ricattabilità.

Lo sviluppo della società capitalistica, nonostante le crisi cicliche sempre più frequenti che la sconvolgono, è caratterizzato da un costante rafforzamento dei profitti a spese dei salari tendenzialmente ridotti ai loro livelli minimi. Una società sempre più lacerata in un pugno di grandi investitori e imprenditori monopolisti e una schiera sempre crescente di uomini ridotta al solo possesso della propria forza-lavoro necessariamente “soffoca nella sua stessa sovrabbondanza, mentre la grande maggioranza dei suoi membri è appena protetta, e spesso non lo è affatto, dall’estrema indigenza” [9]. In una situazione come questa, sempre più assurda e inutile, in cui la concorrenza che riduce al minimo il prezzo della forza-lavoro è dovuta all’accrescersi dell’esercito industriale di riserva, diviene indispensabile un’organizzazione sindacale in grado di lenirla per evitare la comune rovina di lavoratori stabili, precari e disoccupati. Del resto oltre al suo limite minimo fisico il valore della forza-lavoro è determinato anche dal tradizionale livello di vita dei salariati che è una misura storica e sociale che va necessariamente difesa [10]. La determinazione del livello reale del salario, infatti, “viene decisa soltanto dalla lotta incessante fra capitale e lavoro; in quanto il capitalista cerca costantemente di ridurre i salari al loro limite fisico minimo e di estendere la giornata di lavoro al suo limite fisico massimo, mentre l’operaio esercita costantemente una pressione in senso opposto” [11]. Del resto, essendo la forza-lavoro una merce come le altre, non ha un prezzo fisso ma esso necessariamente oscilla intorno al suo valore. Difendere il valore della forza-lavoro significa battersi costantemente per tenerne alto il prezzo, in quanto esso naturalmente scenderà in fasi di crisi.

Note:

[1] “Il minimo tende a uguagliarsi nei vari paesi” Marx, Karl, Il salario, Laboratorio politico, Napoli 1995, p. 72.

[2] Sebbene il salario minimo sia in media determinato dal prezzo dei mezzi di sussistenza indispensabili, conviene tuttavia notare che, primo: il minimo varia nei diversi paesi; secondo: il minimo stesso segue un movimento storico e si avvicina sempre più a un livello assoluto più basso, ad esempio attraverso la diffusione dei discount.

[3] Il pericolo di corrompimento e imbrigliamento del proletariato nelle società industriali avanzate si fonda sull’impoverimento assoluto a danno dei lavoratori di quei paesi sfruttati dal capitalismo imperialistico transnazionale.

[4] Ivi, p. 51.

[5] “Nell’epoca dell’imperialismo lo stato di crisi è la condizione di normalità e, perfino, di ulteriore «crescita» del capitalismo” ivi, p. 157 in nota.

[6] Ivi, p. 78.

[7] Ivi, p. 57.

[8] Ibidem.

[9] Engels, Friedrich, Marx, K., Il salario, op. cit., p. 19.

[10] “Il valore della forza-lavoro è costituito da due elementi, di cui l’uno è unicamente fisico, l’altro è storico o sociale. Il suo limite minimo è determinato dall’elemento fisico, il che vuol dire che la classe operaia, per conservarsi e per rinnovarsi, per perpetuare la propria esistenza fisica, deve ricevere gli oggetti d’uso assolutamente necessari per la sua vita e per la sua riproduzione. Il valore di questi oggetti d’uso assolutamente necessari costituisce quindi il limite minimo del valore del lavoro. (…) Oltre che da questo elemento puramente fisico, il valore del lavoro è determinato dal tenore di vita tradizionale in ogni paese. Esso non consiste soltanto nella vita fisica, ma nel soddisfacimento di determinati bisogni, che nascono dalle condizioni sociali in cui gli uomini vivono e sono stati educati. (…) Questo elemento storico o sociale, che entra nel valore del lavoro, può aumentare o diminuire, e anche annullarsi, in modo che non rimanga che il limite fisico” Marx, K., Salario prezzo e profitto, Laboratorio politico, Napoli 1992, pp. 82-83.

[11] Ivi, p. 84.

24/08/2023 | Copyleft © Tutto il materiale è liberamente riproducibile ed è richiesta soltanto la menzione della fonte.
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L'Autore

Renato Caputo

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La città futura

“Sono partigiano, vivo, sento nelle coscienze della mia parte già pulsare l’attività della città futura che la mia parte sta costruendo. E in essa la catena sociale non pesa su pochi, in essa ogni cosa che succede non è dovuta al caso, alla fatalità, ma è intelligente opera dei cittadini. Non c’è in essa nessuno che stia alla finestra a guardare mentre i pochi si sacrificano, si svenano. Vivo, sono partigiano. Perciò odio chi non parteggia, odio gli indifferenti.”

Antonio Gramsci

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