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Libertà ed eguaglianza in Gramsci

Ogni sommovimento dei dominati ha preso avvio proprio dalla constatazione della scissione fra l’ideale che pone gli uomini come eguali e la differenza reale presente nel mondo storico.


Libertà ed eguaglianza in Gramsci Credits: https://futuraumanita.com/2017/06/09/gramsci-conteso-ventanni-dopo/

Segue da Gramsci e la contraddittoria funzione dei diritti umani

“Il principio della volontà formale, della libertà astratta, secondo cui ‘la semplice unità dell’autocoscienza, l’Io, è la libertà assolutamente indipendente e la fonte di tutte le determinazioni universali’” [1], su cui si basano i diritti umani è stato, secondo Gramsci, fondato concettualmente dall’idealismo tedesco e realizzato praticamente dalla Rivoluzione francese [2]. L’una e l’altro – che individuano dall’interno e dall’esterno i mezzi necessari alla concretizzazione di tale ideale – sono considerati da Gramsci due componenti fondamentali del marxismo inteso come una filosofia della prassi. Quest’ultima è pensata da Gramsci quale mediazione e superamento dialettico della cultura popolare (la Riforma) e della cultura alta (Rinascimento), della politica (la Rivoluzione francese) e della filosofia (l’idealismo tedesco), della riforma morale (il calvinismo), intellettuale (lo storicismo) e della riforma strutturale inaugurata dagli economisti classici britannici. Gramsci pone in luce la funzione educativa, creativa dei diritti umani, posti a fondamento della sovrastruttura giuridica dello Stato borghese e che hanno rinnovato in profondità i costumi sociali dell’ancien régime.

Nella loro coscienza, sottolinea Gramsci, le masse preservano reminiscenza delle conquiste rivoluzionarie e dell’universalismo che fu alla base del loro sostegno all’instaurazione dell’ordine sociale borghese. Tale calarsi delle conquiste della borghesia rivoluzionaria nella coscienza collettiva fa sì che, ancora oggi, non vi è nessun partito politico o corrente ideologica, a eccezione della cattolica, che possa esimersi dal richiamarsi all’ideale della libertà e della sua realizzazione, quale diritto imprescrittibile dell’uomo [3]. Del resto, a parere di Gramsci, l’intero corso storico è da considerare “libertà in quanto è lotta tra libertà e autorità, tra rivoluzione e conservazione, lotta in cui la libertà e la rivoluzione continuamente prevalgono sull’autorità e la conservazione” (10, 10: 1230), storia che, a partire dal secolo XIX, è divenuta autoconsapevole.

Per dirla con Gramsci: “qual è dunque la caratteristica del secolo XIX in Europa? Non di essere storia della libertà [4], ma di essere storia della libertà consapevole di essere tale; nel secolo XIX in Europa esiste una coscienza critica prima non esistente, si fa la storia sapendo quello che si fa, sapendo che la storia è storia della libertà, ecc.” (10, 10: 1231) [5]. Tale consapevolezza della storia come storia della libertà consente di riconoscere i momenti alti e bassi del corso del mondo sulla base dell’unità di misura offerta dalla capacità dell’uomo di dominare natura e caso.

Le possibilità storiche segnano il grado di libertà raggiunto dall’umanità, entrando nella sua stessa definizione. In altre termini, per dirla con Gramsci: “la possibilità non è la realtà, ma è anch’essa una realtà: che l’uomo possa fare una cosa o non possa farla, ha la sua importanza per valutare ciò che realmente si fa. Possibilità vuol dire ‘libertà’. La misura delle libertà entra nel concetto d’uomo. Che ci siano le possibilità obbiettive di non morire di fame ha la sua importanza, a quanto pare. Ma l’esistenza delle condizioni obbiettive, o possibilità o libertà non è ancora sufficiente: occorre ‘conoscerle’ e sapersene servire. Volersene servire. L’uomo in questo senso, è volontà concreta, cioè applicazione effettuale dell’astratto volere o impulso vitale ai mezzi concreti che tale volontà realizzano” (10, 48: 1337-38). Detto altrimenti, tali potenzialità non devono essere solo astrattamente riconosciute, ma fatte proprie e realizzate storicamente mediante i mezzi necessari a rendere concreta l’astratta volontà.

L’uomo, quindi, “si crea la propria personalità: 1) dando un indirizzo determinato e concreto (‘razionale’) al proprio impulso vitale o volontà; 2) identificando i mezzi che rendono tale volontà concreta e determinata e non arbitraria; 3) contribuendo a modificare l’insieme delle condizioni concrete che realizzano questa volontà nella misura dei propri limiti di potenza e nella forma più fruttuosa. L’uomo è da concepire come un blocco storico di elementi puramente individuali e soggettivi e di elementi di massa e oggettivi o materiali coi quali l’individuo è in rapporto attivo”. L’ampliamento della libertà dell’uomo non è dunque un compito meramente individuale, ma implica l’azione politica, in quanto ha di mira la trasformazione dei rapporti sociali.

Dunque, secondo Gramsci, “trasformare il mondo esterno, i rapporti generali, significa potenziare se stesso, sviluppare se stesso. Che il ‘miglioramento’ etico sia puramente individuale è illusione ed errore: la sintesi degli elementi costitutivi dell’individualità è ‘individuale’, ma essa non si realizza e sviluppa senza un’attività verso l’esterno, modificatrice dei rapporti esterni, da quelli verso la natura a quelli verso gli altri uomini in vari gradi, nelle diverse cerchie sociali in cui vive, fino al rapporto massimo, che abbraccia tutto il genere umano. Perciò si può dire che l’uomo è essenzialmente ‘politico’, poiché l’attività per trasformare e dirigere coscientemente gli altri uomini realizza la sua ‘umanità’, la sua ‘natura umana’” (10, 48, 1338). In tal modo, dunque, la natura umana da mera possibilità formale diviene concreta realtà storica solo mediante l’azione e la trasformazione radicale dei rapporti intersoggettivi costituiti.

Allo stesso modo, Gramsci mostra come la concezione religiosa dell’eguaglianza sostanziale degli uomini – affratellati fra loro e con il Cristo, dunque, eguali in quanto tutti figli di Dio – abbia segnato il superamento del mondo antico fondato sulla schiavitù. Da questo punto di vista il cristianesimo è considerato da Gramsci come la più significativa metafisica, utopia “apparsa nella storia, essa è il tentativo più grandioso di conciliare in forma mitologia le contraddizioni storiche: essa afferma, è vero, che l’uomo ha la stessa ‘natura‘, che esiste l’uomo in generale, creato simile a Dio e perciò fratello degli altri uomini, uguale agli altri uomini, libero fra gli altri uomini, e che tale egli si può concepire specchiandosi in Dio, ‘autocoscienza’ dell’umanità, ma afferma anche che tutto ciò non è di questo mondo, ma di un altro (utopia). Ma intanto le idee di uguaglianza, di libertà, di fraternità fermentano in mezzo agli uomini, agli uomini che non sono uguali, né fratelli di altri uomini, né si vedono liberi fra di essi. E avviene nella storia, che ogni sommovimento generale delle moltitudini, in un modo o nell’altro, sotto forme o con ideologie determinate, pone queste rivendicazioni” (4, 45, 472).

La chiesa, quale comunità dei fedeli, preservò e sviluppò tale principio dell’eguaglianza degli uomini nel Cristo, in latente opposizione alla chiesa quale organizzazione di intellettuali tradizionali, base ideologica e strumento egemonico dei ceti dominanti. Tale opposizione evolve in contraddizione con la Rivoluzione francese, mediante la quale la rivoluzione dal basso della base rompe con la sua rielaborazione-neutralizzazione dall’alto operata dal clero [6].

Continua nei prossimi numeri


Note

[1] Antonio Gramsci, Quaderni del carcere, Edizione critica a cura di V. Gerratana, Einaudi Torino 1977, p. 1471. D’ora in poi citeremo l’opera fra parentesi direttamente nel testo indicando il quaderno, il paragrafo e il numero di pagina di questa edizione.

[2] Sul rapporto fra idealismo tedesco e Rivoluzione francese nota ancora Gramsci: “l’osservazione contenuta nella Sacra Famiglia che il linguaggio politico francese equivale al linguaggio della filosofia classica tedesca è stata espressa ‘poeticamente’ dal Carducci nell’espressione: ‘decapitaro, Emmanuel Kant, Iddio – Massimiliano Robespierre, il re’. (..) Il Carducci attinse il motivo da Enrico Heine (..). Ma il ravvicinamento di Robespierre a Kant non è originale dello Heine. Il Croce (..) scrive di averne trovato un lontano cenno in una lettera del 21 luglio 1795 dello Hegel allo Schelling (..) svolto poi nelle lezioni che lo stesso Hegel tenne sulla storia della filosofia e la filosofia della storia. Nelle prime lezioni di storia della filosofia, Hegel dice che ‘la filosofia del Kant, del Fichte e dello Schelling contiene in forma di pensiero la rivoluzione’, alla quale lo spirito negli ultimi tempi ha progredito in Germania, in una grande epoca cioè della storia universale, a cui ‘solo due popoli hanno preso parte, i Tedeschi e i Francesi, per opposti che siano tra loro, anzi appunto perché opposti’; sicché, laddove il nuovo principio in Germania ‘ha fatto irruzione come spirito e concetto’ in Francia invece si è esplicato ‘come realtà effettuale’ (..). Nelle lezioni di filosofia della storia, Hegel spiega che il principio della volontà formale, della libertà astratta, secondo cui ‘la semplice unità dell’autocoscienza, l’Io, è la libertà assolutamente indipendente e la fonte di tutte le determinazioni universali’, ‘rimasero presso i Tedeschi una tranquilla teoria, ma i francesi vollero eseguirlo praticamente’. (..) lo scritto di Fichte del 1792 sulla rivoluzione francese è animato da questo senso di affinità tra l’opera della filosofia e l’avvenimento politico che nel 1794. (..) Il paragone venne ripetuto moltissime volte nel corso dell’Ottocento (dal Marx per es., nella Critica della filosofia del diritto di Hegel) e ‘dilatato’ dallo Heine. In Italia, qualche anno prima del Carducci, lo si ritrova in una lettera di Bertrando Spaventa” (11, 49: 1472-73).

[3] Annota ancora, a questo proposito, Gramsci: “dimostrare che eccettuati i ‘cattolici’, tutte le altre correnti filosofiche e pratiche si svolgono sul terreno della filosofia della libertà e dell’attuazione della libertà. Questa dimostrazione è necessaria, perché è vero che si è formata una mentalità sportiva che ha fatto della libertà un pallone con cui giocare al football” (10, 51, 1341).

[4] Qui Gramsci polemizza con Croce, che aveva affermato il contrario, osservando: “se fosse vero, in modo così generico che la storia dell’Europa del secolo XIX è stata storia della libertà, tutta la storia precedente sarebbe stata altrettanto genericamente storia dell’autorità; tutti i secoli precedenti sarebbero stati di uno stesso color bigio e indistinto, senza svolgimento, senza lotta” (10, 13, 1236). Perciò Gramsci rigetta la controriforma della dialettica hegeliana portata avanti da Croce, per tornare alla concezione autenticamente hegeliana dell’intera storia quale storia della libertà: “se la storia è storia della libertà – secondo la proposizione di Hegel – la formula è valida per la storia di tutto il genere umano di ogni tempo e di ogni luogo, è libertà anche la storia delle satrapie orientali. Libertà allora significa solo ‘movimento’, svolgimento, dialettica. Anche la storia delle satrapie orientali è stata libertà, perché è stata movimento e svolgimento, tanto è vero che quelle satrapie sono crollate” (10, 10: 1229).

[5] “L’equivoco in cui si mantiene la più recente storiografia del Croce – osserva a questo proposito Gramsci – è appunto basato su questa confusione tra la storia come storia della libertà e la storia come apologia del liberalismo” (8, 111, 1997). In altri termini: “la libertà come identità di storia (e di spirito) e la libertà come religione-superstizione, come ideologia immediatamente circostanziata, come strumento pratico di governo” (10, 10, 1229).

[6] Osserva ancora, a questo proposito, Gramsci: “si può forse dire questo: che la ‘chiesa’ come comunità dei fedeli conservò e sviluppò determinati principi politico-morali in opposizione alla chiesa come organizzazione clericale, fino alla Rivoluzione francese i cui principi sono [propri] della comunità dei fedeli contro il clero ordine feudale alleato al re e ai nobili: perciò molti cattolici considerano la Rivoluzione francese come uno scisma [e un’eresia], cioè la rottura tra pastore e gregge, dello stesso tipo della Riforma, ma storicamente più matura, perché avvenuta sul terreno del laicismo: non preti contro preti, ma fedeli-infedeli contro preti. [Il vero punto di rottura tra democrazia e Chiesa è da porre però nella Controriforma, quando la Chiesa ebbe bisogno del braccio secolare (in grande stile) contro i luterani e abdicò alla sua funzione democratica]” (1, 128, 116-17).

14/09/2019 | Copyleft © Tutto il materiale è liberamente riproducibile ed è richiesta soltanto la menzione della fonte.
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L'Autore

Renato Caputo
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